Boycott                                                                         14


GLI SCHELETRI NELL'ARMADIO DI TOPOLINO

topolino.gif (203533 byte)Haiti. Lo scenario davanti al quale ci troviamo non è uno scenario nuovo. Non per questo è uno scenario meno drammatico, anzi, nel contesto nel quale si trova è sicuramente raccapricciante tanto quanto altre simili situazioni.

Parliamo di alcuni impianti lavorativi tessili, impianti più che altro paragonabili a vere e proprie baracche, dove lavorano in condizioni impossibili per pochi centesimi l’ora (circa 27) un centinaio di operaie poco più che quindicenni.

La situazione, torno a dirlo, non è per niente nuova, anzi, oserei dire che troppe situazioni oggi sono paragonabili a questa. La differenza è che la società proprietaria di questi "stabilimenti" altri non è che la Walt Disney Company, la bravissima, grandissima, IPOCRITA Walt Disney Company!! Da una parte produce cartoni animati che propongono messaggi di pace, di attenzione verso le tematiche ambientali, di tolleranza verso i diversi, cartoni dove vince il debole e che ci hanno abituato alla Disney dalla faccia pulita che tutti conosciamo.

La realtà è comunque molto diversa e la Disney, è proprio il caso di dirlo, predica bene e razzola male. Quindi dall’altra parte troviamo lavoratrici tessili in condizioni disastrose, sfruttate e sottopagate. Ma cosa succede ad Haiti? Ad Haiti vengono assemblate le felpe della Disney. Queste felpe arrivano in 11 pezzi e vengono cucite in 13 fasi. Il lavoro procede quotidianamente nel rumore più assordante per 8-10 ore al giorno. Si lavora in piedi ma se proprio un’operaia vuole può portarsi un cuscino da casa. E’ proibito parlare, non si può andare in bagno più di due volte al giorno (per non ridurre il ritmo di produzione). La pausa pranzo poi è assurda: circa 10 minuti!!! Senza contare la continua sorveglianza da parte dei guardiani che incalzano la produzione a suon di grida, percosse e molestie. Lavoratrici trattate peggio che bestie da soma, alle quali non è permesso neppure protestare, pena il licenziamento. Senza tutela sanitaria, senza nessuna retribuzione in caso di malattia.E se si ha la sfortuna di restare incinte, visto che ad Haiti non è permesso il licenziamento in questo caso, l’operaia viene trasferita a lavori più pesanti e malsani fino a che non è lei stessa a dare le dimissioni. Il tutto per poco più di due franchi al giorno. Imma-giniamoci che per guadagnare quanto l’amministratore delegato della Disney guadagna in UN’ORA un’operaia dovrebbe lavorare 101 ANNI, PER 10 ORE AL GIORNO!!!

E continuiamo con le cifre: in 8 ore un’operaia produce 50 felpe per un valore di 584 dollari, produzione che alla Disney costa invece 2 dollari e 22 centesimi. A un’operaia occorrerebbe dunque 1 settimana e mezzo di lavoro per potersi comperare la felpa che produce in meno di dieci minuti.

Il problema è aggravato dal fatto che i salari percepiti non permettono alle lavoratrici di coprire neppure i bisogni primari giornalieri perché prendono un salario da Terzo mondo in un posto dove il costo della vita è da primo!!! Le operaie per far fronte a certe spese devono indebitarsi e da quel momento cadono in un tunnel senza uscita, subendo pressioni dagli usurai che chiedono condizioni pesantissime.

Quando il salario minimo legale aumentò, proprio per permettere ai lavoratori di far fronte a queste spese la Disney in tutta risposta aumentò il ritmo di produzione.

Negli Stati Uniti la Disney è già boicottata. A lanciare questa campagna è stata la National Labor Committee (NLC), organizzazione che si occupa della tutela dei diritti delle popolazioni del Sud del mondo. Tutto quello che avete letto sopra è stato rilevato in un viaggio ad Haiti proprio dal direttore di questo movimento, Charles Kernaghan. LA campagna mira non al ritiro della Disney da Haiti, luogo dove c’è bisogno di lavoro, ma all’aumento del salario delle lavoratrici affinché queste possano per lo meno far fronte ai bisogni principali.

Per contro la Disney nega tutte le accuse, sbandierando un fatidico "codice di condotta" che si sarebbe autoimposta e che non accetterebbe il lavoro minorile ne quello sottopagato. Il problema sta nel fatto che la disney subappalta la produzione a due ditte statunitensi, la H.H.Cutler e la M.V.Myles, che a loro volta si appoggiano a 4 ditte che lavorano ad Haiti. Tutti questi si scaricano la patata bollente l’una con l’altra e questo non facilità certo una soluzione. Si sappia che se fosse il consumatore a dover pagare l’aumento di salario di queste operaie dovrebbe pagare il prodotto appena un franco di più, cosa che non guasterebbe di certo il volume di vendite della Disney.

Ma trasferiamoci velocemente in Birmania, dove troviamo altre "industrie tessili" firmate Disney e dove le condizioni di lavoro, sembra impossibile, sono peggiori che in Haiti. Sei centesimi di paga oraria per un totale di ore settimanali superiore alle sessanta in un paese dove la dittatura militare impone i lavori forzati, non disdegnando metodi come la repressione, le sparizioni e i massacri. Questo non solo è aberrante, ma viene aggravato dal fatto che ha per mandante una società che predica messaggi di tolleranza e bontà per accattivarsi le simpatie dei consumatori. Ma il consu-matore deve saper dire no a prodotti fatti con la fame della povera gente almeno finché queste situazioni non cambino. Quindi diciamo no ai prodotti Disney, perché un prodotto assemblato da gente che viene sfruttata è ripugnante soltanto da tenere in mano. E spieghiamo ai nostri bambini il perché di questa azione. Facciamo capire loro quanto sia importante che a stare bene siano tutti, da chi indossa la felpa di Topolino a chi produce questa felpa. Boicottiamo ancora, boicottiamo perché noi consumatori abbiamo quest’arma in pugno che i produttori non potranno mai toglierci. Questa volta è toccata alla Disney, ma pensiamo che non comprare più i suoi prodotti vorrà dire garantire un futuro dignitoso a una lavoratrice quindicenne haitiana.

 

Boycott Disney!!!