Grecia: una crisi dentro l'europa dei padroni
La situazione in grecia ci dice quali sono le prospettive che i proletari di tutta Europa si troveranno di fronte se continueranno ad affidarsi alle politiche dei rispettivi governi e alle scelte delle borghesie di casa propria. Reds - Maggio 2010


Mentre Atene e tutta la Grecia bruciano, le Borse di tutto il mondo crollano, l’euro si svalorizza progressivamente rispetto il dollaro e gli investitori si buttano alla caccia dei bund tedeschi, spinti dalla paura di un contagio della crisi. Anche Madrid e Lisbona sembrano proiettate verso lo stesso destino.

Ma quali sono le responsabilità politiche di quello che sta avvenendo?
Non sono pochi quelli che sostengono che questa crisi e le sue conseguenze dipendono dalle responsabilità del precedente Governo greco, spendaccione e falsificatore di conti pubblici e corrotto e dedito alla finanza allegra. Ma se andiamo più a fondo, ci rendiamo conto che la crisi greca in realtà è il sintomo
di uno squilibrio strutturale profondo nell’intero assetto dell’unione monetaria europea, che quindi riguarda tutti e in particolare la politica economica e commerciale del Paese economicamente più forte, cioè la Germania.
I capitali tedeschi sono dotati di una straordinaria capacità di penetrazione nei mercati esteri. Questo perché la produttività cresce più rapidamente che altrove e perché da diversi anni la Germania attua una politica di forte contenimento dei salari e della spesa interna.

Il risultato è che la Germania si è caratterizzata per un forte surplus con i conti sull’estero perché vende molto all’estero e compra molto poco dall’estero. Di conseguenza i Paesi relativamente deboli dell’Ue, come Spagna, Portogallo – e un po’ meno l’Italia – registrano conti in deficit con l’estero. Il fatto che il Paese più forte dell’Unione monetaria attui una politica restrittiva è la causa principale dell’indebitamento degli altri paesi.
Pertanto pensare semplicemente che iniettando risorse monetarie nel sistema economico e finanziario dello stato (in questo caso la Grecia) che si trova in gravi difficoltà, per risolvere la situazione e arginare l’espansione della crisi nell’area più vasta del mercato europeo, è una pia illusione. I gravi problemi non si risolvono, si dilazionanano nel tempo.

Inoltre va ricordato che i soldi vengono erogati in cambio di una politica di austerità. Ma noi dovremmo ricordarci del 1992, quando l’Italia attuò un drastico piano di austerità, fondato sul rigido controllo del costo del lavoro e, nonostante l’austerity, poche settimane dopo l’approvazione, l’Italia uscì dal sistema dei cambi fissi e lasciò fluttuare la lira. Quindi non è affatto detto che i piani di austerità risolvano le crisi, anzi possono aggravarle. Infatti è fin troppo facile prevedere che le masse di poveri tenderanno ad aumentare con conseguenze pesanti sul piano dei consumi interni e del sistema economico, che se anche produrrà ricchezza, non avrà sbocchi sui mercati. E il fatto che gli speculatori continuino a vendere titoli greci, rappresenta il più eloquente sintomo di quali potranno essere le prospettive future del sistema economico ellenico; ci stiamo riferendo alla possibilità molto concreta dell’uscita dall’euro, con conseguente svalutazione della moneta nell’estremo tentativo di abbassare il valore del debito. A meno che gli stati membri della UE, spinti da un sussulto di “altruismo” non inizino ad acquistare le merci greche. Il mercato nel suo insieme ne avrebbe un beneficio e con esso l’economia greca.

Ma non bisogna essere ingenui, in Germania esiste un interesse forte a mantenere la situazione così com’è: quanto più si inasprisce la lotta competitiva fra i capitali, tanto più il capitale tedesco si ritroverà in una situazione favorevole nella competizione intercapitalista, con un aumento progressivo delle quote di mercato tedesche e indebolimento dei capitali degli altri Paesi.

La prospettiva in Eurolandia è quella della nascita di territori desertificati, in cui risiedono solo lavoratori a basso costo e azionisti di minoranza di aziende che hanno la testa in Germania e negli altri stati a capitalismo forte.
Tuttavia esiste un punto al di là del quale questa politica conduce al tracollo del sistema: quando la crisi si avvita su una deflazione e lo sbocco di mercato per le merci non si trova più. A quel punto si precipiterebbe in una seconda grande crisi, forse più pesante di quella del 2008-2009. A quel punto si vedrà se la Germania ha interesse a accentuare la sua politica di feroce competizione o se prevarrà a un certo punto il timore di scatenare una seconda crisi.

In questo momento l’Europa unita è una mera espressione retorica.
Anche se i governi hanno deciso la costituzione di un fondo (750 miliardi) per far fronte nei prossimi tre anni a nuove situazioni di crisi, se non si interviene mettendo al centro elementari principi di cooperazione economica tra gli stati membri, non si riesce proprio a capire come sia possibile promuovere una armonica e diffusa crescita economica. Che è la necessaria e minima premessa affinchè in una certa area sia possibile avere una moneta unica. Se la legge continuerà ad essere quella della concorrenza tra grandi gruppi capitalistici nazionali, sostenuti dai rispettivi governi, i meccanismi che hanno prodotto questa crisi non verranno intaccati e, pertanto, il rischio di una riproduzione della crisi stessa è molto concreto.

Per le classi deboli (lavoratori, migranti, disoccupati) le prospettive non sono certo delle migliori.
Come abbiamo accennato, sarà proprio su di loro che cadrà il peso delle politiche di sacrifici che i governi più deboli (come la Grecia) attueranno per onorare i prestiti che a piene mani la BCE sta elargendo. Occorrerebbe che la sinistra europea, anche quella moderata, piuttosto che rimasticare vecchi slogan retorici, sull’unità dell’Europa, che altro non fanno che mascherare le pesanti ingiustizie su cui i vari trattati si reggono, cominciasse a fare voce comune proponendo senza reticenze l’instaurazione di barriere protezionistiche e l’imposizione della tassazione sulle transazioni finanziarie. E su queste cose chiamino i lavoratori alla lotta contro i propri governi.
A sinistra abbiamo storicamente avuto nei confronti del protezionismo una ingenua ritrosia, mentre sarebbe opportuno rendersi contro che eliminare questa opzione dagli strumenti di lotta politica, potrebbe rilevarsi un errore che si paga caro.