Un 
    nuovo inizio.
    Ricomporre 
    la Sinistra di classe. Un obbiettivo su cui si stanno espimendo diversi esponenti 
    storici della sinistra comunista e non, prima e dopo l'appello di Claudio 
    Grassi (segreteria PRC) che ha invitato le forze politiche che si ispirano 
    al pensiero comunista ad entrare o rientrare nel PRC. 
    (Di Salvatore Cannavò di Sinistra Critica, da Liberazione dell'11 febbraio). 
    Reds - Febbraio 2009
 Ho 
    letto l'articolo di Claudio Grassi sulla necessità di ricomporre all'interno 
    del Prc la «diaspora» provocata dalle varie e ripetute scissioni 
    proponendo alle varie anime «della sinistra anticapitalista e comunista 
    di entrare o rientrare nel Prc». Sentendomi interpellato dalla proposta, 
    e anche per il rispetto che porto verso un compagno che ha assunto una posizione 
    sempre molto limpida all'interno di Rifondazione comunista, vorrei articolare 
    una prima risposta.
    
    Premettendo subito che questo dibattito, qualora dovesse svilupparsi, non 
    deve avere nulla a che fare con scadenze elettorali più o meno imminenti 
    e con eventuali accordi di cartello di cui pure si è discusso. 
    La questione è profondamente legata alla prospettiva, per noi tutti 
    inaggirabile, della costruzione di una soggettività anticapitalista 
    e comunista, in grado di produrre uno strumento utile alla ricomposizione 
    di un nuovo movimento operaio e di riporre all'ordine del giorno il progetto 
    di un'alternativa socialista. Questo orizzonte, però - ed è 
    questo il primo rilievo che faccio alle argomentazioni di Grassi - non può 
    eludere un bilancio serrato e stringente sulla storia del Prc, passata e recente, 
    sulle scelte operate e sulla cesura compiuta da questo soggetto politico con 
    la propria missione storica. 
La 
    domanda su "come è potuto accadere tutto questo?" deve essere 
    posta drasticamente e costituire oggetto di una riflessione approfondita che 
    né il recente congresso del Prc né l'attuale dibattito della 
    sinistra tutta sembra volersi porre. 
    Una riflessione che riguarda tutti e sulla quale dovremo ancora produrre materiali 
    approfonditi ma che, nell'ambito di un breve articolo, si può riassumere 
    nel limite incontrato dalla "rifondazione comunista", intesa quindi 
    come processo, in ordine a tre nodi: il governo, il radicamento sociale e 
    lo strumento-partito. 
    A mio giudizio Rifondazione ha fallito su tutti e tre questi ambiti. 
Sulla 
    questione del governo Rifondazione non è andata oltre, nella migliore 
    delle ipotesi, al patrimonio culturale e politico del togliattismo italiano, 
    cioè di un riformismo "forte" che, però, nell'epoca 
    della globalizzazione e della crisi del capitalismo è arrivato al punto 
    di cadere nella trappola che ha distrutto la sinistra socialdemocratica: l'illusione 
    di poter governare il capitalismo stesso. Illusione e miraggio che ha prodotto 
    scempiaggini come "l'alternanza propedeutica all'alternativa" o 
    come "il governo sbocco politico della stagione dei movimenti". 
    
    Il partito che doveva rifondare il comunismo si è ucciso di riformismo, 
    tra l'altro il più stantio e spregiudicato come quello visto in opera 
    durante il governo Prodi 2. 
Lo 
    stesso sul radicamento. 
    Rifondazione ha sostanzialmente vissuto della rendita elettorale che la parte 
    migliore della storia del Pci - molto meno della nuova sinistra - le ha lasciato 
    in eredità. E si è occupata di gestire questa rendita non curandosi, 
    o curandosi poco, di investire nella politica "reale", quella dell'insediamento 
    sociale, della costruzione paziente e lenta dei movimenti e di forme associate, 
    anche mutualistiche, che ridessero smalto all'auspicato "nuovo movimento 
    operaio". Dopo 17 anni scontiamo tutti una distanza siderale dai "soggetti" 
    sociali, una estraneità dai luoghi di lavoro, una difficoltà 
    di linguaggio e di comunicazione con le nuove forme dell'agire politico.
    
    In ultimo, la questione del partito. 
    Il Prc per molti, troppi, anni è stato il partito di "un uomo 
    solo al comando", gestito da un gruppo dirigente ossequioso e incapace 
    di costruire formazione politica, dibattito plurale, rispetto interno, democrazia 
    dal basso. Lo scontro politico si è spesso imbarbarito oppure è 
    sfociato in tante scissioni. La concezione dl partito ha concesso moltissimo 
    all'elettoralismo e pochissimo alla costruzione molecolare dell'iniziativa 
    sociale. Centinaia di migliaia di persone hanno frequentato Rifondazione e 
    se ne sono poi allontanante, deluse, demoralizzate, passivizzate. I moventi 
    all'agire di una grande parte dei suoi gruppi dirigenti hanno risentito di 
    collocazioni personali, di istituzionalismo pragmatico, a volte di carrierismo. 
    E gli antidoti a questi processi materiali non sono mai stati messi in azione 
    (rotazione incarichi, limite ai mandati, stipendi in linea con i lavoratori, 
    parità di genere, etc.)
    Sono tutti questi fattori ad aver prodotto una perdita di credibilità 
    che mi sembra il problema principale di cui soffre il grosso dell'attuale 
    sinistra antagonista. Perdita di credibilità che si traduce in sfiducia 
    e in mancanza di passione politica, quando invece la passione aveva costituito 
    la forza del progetto iniziale.
    
    Per tutte queste ragioni io penso che la pellicola non possa essere riportata 
    all'indietro per far ripartire un film che è finito. Un ciclo si è 
    esaurito, una stagione conclusa. Il rientro in Rifondazione, per quanto mi 
    riguarda, impossibile. Altra cosa è immaginare una ri-partenza, una 
    nuova fase costituente, quale quella che proponiamo da tempo. Ma per questa 
    serve una discussione di fondo, programmatica e strategica, che consenta a 
    un "nuovo" soggetto politico di costruirsi e crescere senza l'ansia 
    di dover scavalcare nodi politici essenziali. 
All'inizio 
    del percorso di Rifondazione nessuno di noi si preoccupò del programma 
    perché troppo evidente era l'importanza di resistere alla Bolognina 
    e al mutare dei tempi. Oggi una "costituente della sinistra anticapitalista" 
    dovrebbe preoccuparsi di definire le coordinate essenziali - a partire da 
    quella che il capitalismo si contrasta e non si governa - per reggere nel 
    medio periodo; di definire una progettualità politico-sociale, a partire 
    dal nodo essenziale del nuovo sindacato di classe, per "stare" nel 
    conflitto; di individuare un linguaggio e un profilo culturale che sia per 
    lo meno in grado di interloquire con soggetti come "l'onda" o con 
    i nodi politici posti dall'ambientalismo radicale o da soggettività 
    come quella lgbt.
    
    Un nuovo inizio, dunque, che sia in grado di rimuovere le macerie del recente 
    passato, di operare gli "azzeramenti" necessari e che, soprattutto, 
    dia voce e protagonismo a una nuova generazione politica, non per forza anagrafica, 
    in grado di affrontare di petto la sfida del XXI secolo.