Riflessione e pratica scolastica. 
  
  Intervista 
  ad Andrea bagni, vicedirettore di Ecole. Giugno 2002.
Ci puoi fare una breve cronistoria di École? (nascita, periodicità, chi sono i collaboratori e dove risiedono, come funziona la redazione, differenze tra nuova e vecchia serie, temi dibattuti, punti fermi e condivisi dalla redazione e questioni soggette a dibattito interno, ecc.)
École è 
  una rivista bimestrale nata dall'esperienza di Rossoscuola, inizialmente come 
  suo inserto tematico ambientalista. Dal gennaio 2001 si è "separata" 
  dall'editore "Scholé", che ha deciso di dare vita ad una iniziativa 
  editoriale diversa (e ha acquisito tutti i vecchi abbonati di École). 
  Una parte della redazione - non conta qui se maggioranza, minoranza o totalità 
  - ha ottenuto di poter acquisire (gratuitamente) la testata e ha cercato di 
  ricominciare da capo, senza editore (cioè con una nuova associazione, 
  "Idee per l'educazione", presidente Paolo Chiappe), con una nuova 
  direttrice, Celeste Grossi, un vicedirettore che sono io, e una redazione di 
  circa venti persone. È stata una vicenda abbastanza aspra e infelice, 
  ma tutto sommato non priva del coraggio di investire sulle passioni e di un 
  certo rispetto reciproco.
  Oggi la redazione funziona con una riunione mensile a Milano che in parte è 
  di "chiusura" del numero in corso, in parte è di progettazione 
  dei successivi (soprattutto della loro parte tematica centrale). Quando le cose 
  vanno bene - cioè non si rimane troppo bloccati sulle questioni di "chiusura", 
  per ritardi, problemi tecnici o altro - dalla discussione nasce un po' il taglio 
  del "tema" e anche la persona alla quale affidarne il coordinamento 
  (articolazione, cura dei tempi, redazione dei testi, contatti con i collaboratori 
  ecc). Non è che ci sia una linea precisa che si manifesta nella individuazione 
  dei temi: l'orizzonte è il mondo della scuola e della formazione in generale, 
  ma poi dentro possono essere scelti argomenti anche piuttosto lontani; ad esempio, 
  nell'ultimo anno, la politica delle destre, la nuova agricoltura, Foucault, 
  l'autonomia scolastica, il linguaggio politico giovanile, il consumo critico. 
  Se c'è un filo conduttore è politico in senso lato: analisi delle 
  trasformazioni e delle pratiche del presente, pensiero critico, riflessione 
  sui movimenti e dialogo con la loro capacità di "fare teoria".
  La discussione interna, nella nuova serie, non è più appesantita 
  dal conflitto sul progetto editoriale stesso (rivista di riflessione critica 
  o di informazioni e servizio), ma non è ovviamente che manchino le differenze 
  d'impostazione, anzi. Peraltro c'è chi è insegnante, segnato dalla 
  quotidianità scolastica (nel male e nel bene), magari impegnato su terreno 
  sindacale, e altri o altre che ne sono fuori, in pensione o in altri lavori. 
  E l'ottica della classe va ogni tanto stretta, oppure non è letta nello 
  stesso modo. A volte non è che ci capiamo benissimo, a volte tutto questo 
  si traduce in una ricchezza...
La linea redazionale di École segue una precisa impostazione pedagogica, veicola una determinata idea di scuola, dà spazio a esperienze didattiche e sperimentali di un certo tipo o che altro?
Proprio per le 
  cose dette prima non so se si possa parlare di una linea pedagogica della rivista. 
  C'è casomai un'idea di scuola, per quanto anche questa aperta e plurale. 
  In comune direi che abbiamo il tenere insieme l'attenzione alle relazioni scolastiche 
  (vive, umane, non tecnicizzate, trasmissive-misurative: "ecologiche"), 
  con il tema del sapere (la ricerca su, la crisi di) e dell'organizzazione istituzionale 
  - di un'organizzazione non aziendalistica, coerente con quella dimensione cooperativa 
  e non competitiva, relazionale, della scuola. Dentro questo quadro mi pare che 
  la discussione fra noi veda posizioni più radicalmente "libertarie", 
  anti-autoritarie, tese a non imprigionare il sapere in gabbie strettamente disciplinari, 
  troppo formalizzate in procedure di controllo e misurazione, schiacciate in 
  ritmi da fabbrica fordista di omologazione e consenso; e posizioni più 
  sensibili alla critica della conoscenza e alla crisi del sapere, dunque un po' 
  alla ricerca di altri contenuti forti, formativi, capaci di dare dimensione 
  critica ma organizzata e organica (proprio per quello organizzata e organica) 
  alla conoscenza. Forse questa discussione fra forme del fare scuola (relazioni, 
  ricerca, imprevisti, condivisione, libertà) e suoi contenuti (quale scienza, 
  storia, letteratura, codici formalizzati: disciplina o post disciplina), è 
  la materia su cui, in un modo o in un altro, più si discute fra noi. 
  Non tanto (purtroppo) durante le riunioni redazionali mensili, spesso dominate 
  dai problemi immediati della rivista - anche se poi, ripeto, quella discussone 
  attraversa molte questioni concrete -, quanto nei seminari annuali che facciamo 
  alla fine dell'anno scolastico (in giugno) e qualche volta anche in settembre; 
  momenti più distesi di riflessione e dibattito, anche con soggetti esterni 
  alla redazione, collaboratori e non.
  (Riguardo la didattica, per le cose dette fin qui, penso sia chiaro che non 
  è tanto l'illustrazione nella forma di modellino pedagogico delle esperienze 
  scolastiche realizzate che ci interessa ospitare sulle pagine di École, 
  quanto la narrazione-riflessione sulle pratiche concrete di scuola).
Il problema della scuola è più una questione di impianto organizzativo, di struttura, o di modalità di intervento didattico, di relazione?
Come ho in parte già spiegato, ci sforziamo di tenere insieme le due dimensioni della scuola, organizzativa-strutturale e relazionale-didattica. Per non restare troppo sul generale, però, posso dire che per noi della redazione non c'è dubbio che ciò che è prioritario sono i contenuti e i modi del fare scuola, piuttosto che le strutture organizzative istituzionali: diciamo che queste ultime dovrebbero su quell'idea di scuola progettarsi, un po' in una funzione di supporto, diffusione di esperienze, apertura di spazi e tempi per autoprogettazione e autorganizzazione: senza colonizzarla né tanto meno piegarla alle esigenze di formalizzazione in progetti e progettini da finanziare in qualche POF... [Piano dell'offerta formativa - secondo il modello dell'autonomia scolastica la "carta d'identità" di ogni istituzione scolastica, N.d.R.]
Un'analisi approfondita delle molte questioni aperte del sistema scuola richiederebbe troppo tempo. Vediamone sinteticamente alcune. Qual è la posizione della redazione o l'orientamento prevalente su: durata complessiva dei cicli scolastici e loro scansione, durata dell'obbligo scolastico, rapporto scuola-mondo del lavoro?
Nel tempo alle 
  questioni più specificamente di "riforma della scuola" abbiamo 
  finito per dedicarci, della redazione, soprattutto noi di Firenze (perché 
  ancora insegniamo quasi tutti/e, perché cerchiamo anche di restare legati 
  ai movimenti: coordinamenti, social forum, rsu...); l'impostazione prevalente 
  ha finito per essere quella che vede nel processo di riforma avviato in questi 
  anni - sia in Berlinguer che in Bertagna-Moratti, malgrado poi le significative 
  differenze - un errore di fondo: l'aver assunto le trasformazioni della società 
  e del lavoro nell'epoca del post fordismo, come una sollecitazione a ridurre 
  la durata della scuola e subordinarla sempre di più al lavoro, anzi al 
  mercato del lavoro. Per cui se le attività direttamene produttive si 
  fanno sempre più flessibili, segmentate, precarie, allora sempre più 
  simile ad esse deve farsi la formazione: breve, modularizzata, componibile come 
  una cucina ai desideri del cliente; capace di costituire un "capitale conoscitivo" 
  da spendere poi come valore di scambio sul mercato. Un sapere dunque astratto 
  e da certificare in qualche libretto di formazione per tutta la vita - perché 
  certificabile in quanto ridotto a una sorta di equivalente universale come un 
  tempo il denaro. Astratto com'è ormai tutto il lavoro.
  La crisi della società lavoristica avrebbe potuto offrire l'occasione 
  per una riflessione in tutt'altra direzione. Una scuola più lunga (nell'epoca 
  del sapere messo al lavoro) e lenta, più unitaria e di base (per non 
  inseguire i nuovi "programmi" in continua evoluzione, irraggiungibili 
  - ma esserne l'hardware e il sistema operativo, linux meglio di microsoft, capace 
  di integrarli); una scuola per l'autonomia dei ragazzi e delle ragazze nel mare 
  aperto della società esplosa e non per il loro banale adattamento, docilità 
  della nuova forza lavoro agli imperativi categorici di flessibilità del 
  mercato; fondata su valore d'uso del sapere e non sul suo (in crisi) valore 
  di scambio. I pasticci di separazione precoce o intreccio confuso fra istruzione 
  e formazione professionale, fra scuola e lavoro, teoria e pratica (come fosse 
  un problema di separati percorsi scolastici attraverso i quali offrire "democraticamente" 
  ad ogni piede la sua scarpa - percorsi ovviamente definiti per decreto di pari 
  dignità culturale - e non di qualità del sapere), hanno caratterizzato 
  sia la riflessione del centrosinistra, sia quella della destra.
Come si colloca la rivista di fronte alle mobilitazioni che animano il mondo della scuola interessato dai processi di riforma Berlinguer/De Mauro prima e Moratti ora? Partecipa direttamente alle iniziative promosse dai coordinamenti di lotta sorti in varie città d'Italia?
C'è una discussione che ci sta attraversando da tempo, proprio sul terreno del rapporto con i "movimenti". Tutti certo siamo consapevoli che il senso del nostro lavoro sta nell'interlocuzione con coloro che nella scuola e nella società fanno della critica dell'esistente una pratica di lotta, di "resistenza" (verrebbe da dire di esistenza) quotidiana. Ma sappiamo anche che una rivista può essere utile se non si fa solo "megafono" o "bollettino" dei movimenti: se sa essere luogo, in parte anche separato, di elaborazione, un'altra forma di riflessione, in altri tempi e anche altre forme di scrittura. D'alta parte ci domandiamo anche in che misura l'impegno editoriale, la veste grafica, i tempi di lavorazione per una rivista "di carta" (da stampare spedire gestire come abbonamenti, tutto in forma di volontariato) ci permettono davvero, oppure ci ostacolano quella interlocuzione. Naturalmente resta la necessità comune di una presenza, che è allo stesso tempo ascolto, dialogo e offerta di uno strumento di rete, di riflessione non accademica o astrattamente riformistica (ce n'è già tanta di elaborazione sulla scuola e non della scuola: di teoria che non sa fare i conti con le pratiche, condannate a restare mute, subalterne e spesso pronte a cedere la parola agli esperti di turno).
Ci descrivi modalità e obiettivi del rapporto con il gruppo dell'Autoriforma gentile e di eventuali altre relazioni con altre associazioni?
Qualcosa del genere 
  avviene anche nel rapporto con associazioni o movimenti come autoriforma gentile 
  o comitato per la scuola della repubblica.
  Semplicemente una parte della redazione partecipa dall'inizio a quei movimenti, 
  ne condivide alcuni presupposti - in parte quelli già indicati: l'attenzione 
  alle relazioni, al concetto di autorità orizzontale, al sapere che si 
  produce a partire da una lettura "di genere" del mondo; la definizione 
  di una nozione di pubblico che sottolinea il carattere non privatistico e non 
  burocratico-ministeriale della scuola: la sua accezione pluralistica, di incontro 
  di culture e punti di vista che insieme costruiscono un mondo comune (fermo 
  restando che poi sul rapporto fra pubblico e statale, il dibattito interno alla 
  rivista e ai movimenti continua, non sempre facile). Anche con questi ambiti 
  della mobilitazione la rivista cerca di interloquire in modo non banale o passivo: 
  fra l'altro non tutta la redazione valuta nello stesso modo l'attenzione alla 
  qualità fondamentalmente relazionale del fare scuola - come ho già 
  detto, le questioni dei contenuti del sapere e dell'organizzazione complessiva 
  dell'istituzione scolastica (della riforma della scuola) sono sentite da molti 
  come non solo rilevanti, ma assolutamente centrali.