Umanità Nova, Speciale 8 dicembre (supplemento al n.40 del 10 dicembre 2006)

Resistenza No Tav
La rivolta l'autogestione l'azione diretta


Tra i campi di Venaus e nei paesi della Val Susa si sono scritte alcune delle pagine più belle della storia recente dei senza voce, dei senza potere, di coloro che i predoni che saccheggiano e devastano vorrebbero silenti ed obbedienti, sedotti dalla retorica del progresso, chini di fronte alla forza, disponibili a trattare sulla propria vita e sul proprio futuro.
Il nostro è un movimento che si costruisce giorno per giorno, che sa interrogarsi costantemente sulle proprie ragioni, un movimento che ha la propria forza anche nella capacità di tenere aperto un confronto con chi non ne condivide gli obiettivi, con gli scettici e persino con i nemici dichiarati. Tuttavia la capacità di dialogo si congiunge con la netta volontà di riprendere saldamente nelle proprie mani la facoltà decisionale, sottratta dalla delega in bianco alla politica professionale, ai potentati economici, alle cosche affaristiche che si spartiscono le risorse pubbliche usandole e sprecandole per fini privati.
Quella dei No Tav non è più una mera storia di resistenza. Forse non lo è mai stata. Quella di chi si oppone alla Torino Lione è sì l'opposizione ad un'opera inutile, distruttiva, dannosa, ma è anche altro. E di più.
Uno degli slogan più belli del movimento è "Resistere per esistere": in questo slogan è in nuce una tensione progettuale chiara, quella tensione che trasforma la difesa del proprio giardino nella volontà che in ogni dove vi siano giardini e non discariche, spazi di vita e non luoghi dove il profitto detta la sua legge.

Un gioco molto serio
La partita che si sta giocando in valle di Susa è una partita dalla posta molto alta, poiché va ben al di là delle rive della Dora.
È una partita che si gioca su più fronti, che si intersecano ma non coincidono. Sul tappeto c'è la questione delle grandi opere e del modello di relazioni sociali di cui sono indicatore. Sul tappeto c'è altresì la crisi del sistema di rappresentanza democratico e una prassi che con differenti gradi di consapevolezza ne prefigura il superamento.
La prima posta in gioco è tra le più rilevanti. Spesso la vulgata sulle ragioni della strenua opposizione al treno ad alta velocità mette l'accento su temi rilevanti ma non determinanti a spiegare un movimento di lotta che, in alcuni momenti, ha assunto un carattere fortemente radicale. Questioni quali l'emergenza ambientale e i rischi per la salute, lo sperpero di denaro pubblico per fini privati, la sostanziale inutilità dell'opera sono solo tasselli di un lessico comune che ha messo in discussione la logica che sostiene un modello di sviluppo che sarebbe dissennato, anche se le montagne non fossero imbottite di uranio e amianto, anche se gli amici di merende del governo e dell'opposizione non si fossero seduti ad una tavola imbandita con soldi pubblici, anche se non fosse dimostrato che questa linea non serve a nulla. Nella genealogia del movimento valsusino c'è un lungo processo di ri-approppriazione di competenze e saperi che la struttura di potere pretendeva di avocare a se nel nome della tecnica e del progresso, i due feticci della modernità trionfante, che non possono essere né discussi né verificati, ma solo acriticamente adorati. In questa costruzione di consapevolezza il constatare l'enormità del sopruso che i sacerdoti del progresso-profitto-velocità volevano imporre ha indubbiamente avuto una funzione importante, poiché ha aperto una finestra da cui è stato poi possibile osservare con occhi disincantati il circolo vizioso prodotto dall'equazione tra moltiplicarsi degli scambi e miglioramento delle condizioni di vita. Un'equazione falsa perché la pretesa del liberismo di costruire il migliore dei mondi possibili si scontra con l'evidenza della natura distruttiva di un modello di cui il Tav è l'emblema più efficace: un treno in corsa che travolge, schiaccia, divora tanta parte dell'umanità e dei luoghi in cui vive. La critica al capitalismo e la constatazione della sua natura intrinsecamente distruttiva, pur partita da una questione specifica, è oggi molto forte tra chi, tra Torino e Susa, si oppone al Tav.
Quando, in più occasioni, l'ex ministro di polizia Pisanu ha definito eversivo il movimento No tav, in fondo tutti i torti non li aveva. Ritenere che la logica del profitto non sia indicatore di progresso, il sostenere che un mondo dove le vite di milioni di uomini a nord come a sud del mondo vengono sfruttate, sottomesse, inquinate è un mondo intollerabile non può che essere considerato sovversivo.

Tra No Tav e autogestione
Nella dialettica tra il manganello e la carota che ha contraddistinto i vari politici che vogliono imporre ai valsusini una scelta non condivisa, al termine della lunga tregua seguita alla rivolta di una anno fa, non è un caso che, specie i politici dell'Unione, pongano l'accento sulla necessità di "informare correttamente" i valligiani. Al di là dell'arroganza si coglie la preoccupazione di politici consapevoli che le ragioni della lotta dei No Tav oltrepassano ormai ampiamente i timori per l'ambiente e la salute.
Ma non solo.
L'altro grande tema sul tappeto, quello della crisi del sistema di rappresentanza democratica, e le concrete esperienze di autogestione politica territoriale rappresentano un elemento di rottura della gerarchia che, se capace di contaminare altri ambiti sociali, potrebbe risultare difficilmente riassorbibile. La vasta mobilitazione che ha accompagnato i giorni della rivolta, l'attenzione con cui da tutt'Italia si guardava a quest'angolo di nord ovest, la solidarietà ampia e spontanea che si è sviluppata intorno alla "libera repubblica di Venaus" sono i sintomi che l'esperienza valsusina risponde ad un bisogno diffuso ma costantemente frustrato di coniugare i termini di un'opposizione sociale radicale, radicata ed autonoma dal quadro politico istituzionale. La Val Susa, come già Scanzano, ha rimesso in campo la possibilità di un conflitto che, nei suoi momenti più forti, allude ad un agire politico di segno libertario.
Lo scorso anno, negli stessi mesi della rivolta contro il Tav, le cronache si concentravano sull'insorgenza delle banlieue francesi. L'esplosione violenta delle banlieue era raccontata, interpretata, analizzata dall'esterno, ma è stata muta, senza volontà/possibilità di autorappresentarsi, una sorta di monumento alla distruzione del legame sociale, della solidarietà sul territorio. La banlieue, come non luogo, come posto alieno tanto quanto la metropoli. Non è un caso che la spinta distruttiva, come in una sorta di gara a punti, si sia concentrata proprio contro la banlieue stessa, straripando solo occasionalmente dalle periferie al centro.
In Val Susa una delle spinte della ribellione è stata la volontà di mantenere e rinsaldare il legame sociale.
Questo rafforzarsi del legame sociale si è tradotto nelle partecipazione diretta alla lotta così come alle assemblee generali ed ai coordinamenti dei Comitati No Tav che di fatto sono il vero motore del movimento.
Tra le istituzioni locali e le varie istanze del movimento si è creata una dialettica complessa. L'autorità dei sindaci dipende non secondariamente dalla capacità di esprimere nel confronto con le altre parti istituzionali (Provincia, Regione e governo) gli obiettivi che il movimento ha definito attraverso il confronto negli oltre 40 comitati locali, nelle assemblee, nei coordinamenti, nei presidi di Venaus, Borgone e Bruzolo. Né il presidente della Comunità montana, né l'assemblea dei sindaci sono stati sinora in grado di imporre mediazioni. I vari tentativi di ammorbidimento attuati prima e dopo la rivolta hanno aumentato la consapevolezza che tavoli di trattativa o di confronto sono solo trappole per dividere il movimento.
Quando le istituzioni si sono schierate su posizioni non condivise, il movimento ne ha ignorato l'opinione ed è andato avanti senza alcun timore. Quando le istituzioni di valle e, in particolare la Comunità Montana Bassa Val Susa, si opposero alle grandi manifestazioni del 17 dicembre 2005 a Torino e del 7 gennaio 2006 a Chambery il movimento dimostrò la propria autonomia facendo da se e dando vita ad appuntamenti importanti e partecipati. Ricordo un'assemblea in cui un No Tav disse: "Se i sindaci saranno con noi, bene. Se non ci saranno poco male: la Val Susa è perfettamente in grado di autorappresentarsi".
Descrivere, come fanno taluni, quella della Val Susa come esperienza di "democrazia partecipativa" appare del tutto improprio. Vi è semmai un complesso intreccio tra i vari luoghi della rappresentanza, che non può essere ridotto alle assemblee gerarchizzate indette da quello che un tempo era il Comitato istituzionale ed è stato poi attualizzato in Comitato di Coordinamento. Queste assemblee guidate da Ferrentino sono lo strumento che il presidente della Comunità montana usa per legittimare scelte fatte dall'assise degli amministratori locali e difficilmente ribaltabili da un'assemblea cui paternalisticamente si rivolge esigendo crediti di fiducia in bianco. Crediti che la gente è sempre meno disponibile a concedere. Ne consegue che il Comitato istituzionale ha gradualmente cessato di essere il luogo in cui si definiscono gli obiettivi del movimento ma è oggi uno dei quattro luoghi della rappresentanza del movimento No Tav.
Gli altri sono il Coordinamento dei Comitati No Tav, l'assemblea generale del Movimento e i vari presidi permanenti.
Il Coordinamento che riunisce i Comitati No Tav della valle, di Torino, dei paesi della gronda e della Val Sangone è uno dei luoghi privilegiati dove si definiscono obiettivi, strategie ed iniziative. All'interno del Coordinamento la partecipazione diretta dei singoli è molto forte, così come la consapevolezza che la modalità decisionale migliore è la ricerca del consenso su una sintesi condivisa.
Le periodiche assemblee generali sono momenti di autorganizzazione molto importanti, anche se, come spesso accade, possono trasformarsi in un'agorà dove la creazione del consenso passa dall'affermarsi di leadership di natura carismatica. Sebbene la partecipazione diretta sia ampia, le capacità comunicative individuali talora sono vettori di una decisionalità più emotiva. Fortunatamente passata la fase mediatica del movimento, si sono quasi del tutto dileguati nelle nebbie torinesi i vari esponenti politici e sindacali che individuavano nel No Tav un'occasione su cui piantare il cappello.
Infine vi sono i presidi, luoghi di socialità intensa e di confronto informale ma continuo: nati come occupazioni dei terreni destinati a carotaggi o a espropri, sono il segnale di una tenuta nel tempo di un movimento che sa costruire oltre che opporsi. I presidi, divenuti sempre più stabili grazie al lavoro volontario di tanti, sono divenuti fulcro di iniziative politiche, culturali, ludiche che spesso vanno al di là del No Tav.

Un anno dopo l'8 dicembre
È passato un anno dalle straordinarie giornate dell'inverno 2005, quando le truppe dello Stato occuparono prima Mompantero e poi la Val Cenischia. La rivolta popolare fu la risposta ai manganelli e alla violenza. Loro presero il Seghino con l'inganno e poi misero i checkpoint al paese: il movimento bloccò le strade e le ferrovie e iniziò a resistere. Loro piazzarono uomini in armi dentro il vecchio cantiere Sitaf/AEM e un popolo intero li assediò, eresse barricate, costruì una "Libera Repubblica", senza curarsi che tutto ciò fosse illegale, perché la legittimità del proprio agire era stata costruita ogni giorno, per 15 anni, in un confronto continuo dal basso, in un agire politico che riconsegnava la "politica", la "polis", la "città" al suo scopo precipuo: essere il luogo privilegiato di un vivere associato che ha in ciascuno di noi un protagonista.
Quando, nella notte tra il 5 e il 6 dicembre 2005, con la forza dei manganelli e delle ruspe la "Libera Repubblica" venne sgomberata ciascuno seppe che quelle teste spaccate, quelle tende divelte, quegli uomini e quelle donne erano là per difendere un bene comune che non è solo la terra, non è solo la salute, ma è anche dignità e libertà. Una libertà il cui nome abusato e vilipeso, ridotto ad icona della volgarità e del "diritto del più forte", torna a risignificarsi ogni volta che si fa pratica di lotta, conflitto, autogestione.
Così sin dal mattino seguente tutta la valle è stata una barricata, in tutti i paesi è stato sciopero spontaneo, blocco, rivolta.
Due giorni dopo, l'8 dicembre, il corteo che partì da Susa alla volta di Venaus era un fiume in piena: non bastarono le truppe al bivio dei Passeggeri e le manganellate, perché il fiume si disperse in mille rivoli che aggiravano gli invasori scivolando poi giù dalla montagna, verso le recinzioni del cantiere che caddero sotto la spinta di tutti.
Quel giorno le truppe si ritirarono e il movimento vinse.
Quella dell'8 dicembre non fu una vittoria militare, fu una vittoria politica, fu la vittoria di chi, mettendo in gioco se stesso in prima persona, rese chiaro che solo con la guerra guerreggiata lo Stato avrebbe potuto fermare chi si era ripreso il proprio futuro.
Il giorno dopo ripresero i giochi della politica di palazzo.
Se i politici di Valle non fossero corsi a Roma, bloccando la rivolta in cambio di un piatto di lenticchie probabilmente il Tav sarebbe oggi un incubo ormai sepolto.
Vennero inventati osservatori, tavoli, tavolini con relative sedie e poltrone. È bene dirlo senza mezzi termini: il cosiddetto "osservatorio" non è la vittoria del movimento ma il mero tentativo di un governo sconfitto di riparare i danni e prendersi con la carota quello che il bastone non era riuscito mettersi in saccoccia. Non è un caso che a capo dell'Osservatorio sia stato messo uno come Mario Virano, un architetto-piazzista-vaselinatore, una carriera all'ombra dei poteri forti, già responsabile delle pubbliche relazioni della Sitaf, la società che gestisce la Torino Bardonecchia, poi passato all'Anas dietro raccomandazione di Marcellino Gavio, il signore delle autostrade, grande fautore della linea ad Alta Velocità tra Genova e Tortona.
Virano è un venditore di fumo, un artista della mediazione e della contraffazione, l'uomo giusto al posto giusto. Tanto giusto che Prodi, succeduto da aprile a Berlusconi, non solo l'ha confermato nell'incarico ma l'ha addirittura nominato "commissario governativo per la Torino Lione".
Dopo la rivolta dividere il movimento è il grande obiettivo prima di Berlusconi e poi di Prodi. Oggi, prima di spedire di nuovo truppe armate, il governo – qualsiasi governo - ha bisogno di indebolire i No Tav, di fiaccarne la resistenza.
Gli eventi degli ultimi mesi dimostrano che sarà dura, molto dura.
Il movimento non è certo rimasto con le mani in mano. Le ragioni dei No Tav si sono saldate con quelle dei No Tir e con quelle di chi si oppone ad una concezione dello sviluppo che coincida con la logica del profitto a tutti i costi. Lungi dall'arroccarsi in difesa, il movimento scende in campo, allarga le prospettive, discute di decrescita e si oppone al raddoppio del tunnel autostradale del Frejus, pratica la politica dal basso e non si fa infinocchiare dal primo piazzista di passaggio. L'assedio a Virano che si incontrava con i sindaci nella sede della Comunità Montana a Bussoleno, la robusta catena che ha serrato il cancello chiudono degnamente un anno di lotta.
La partita del Tav può essere vinta solo in strada. Il metro resta la capacità di mantenere l'autonomia delle assemblee e dei comitati dal quadro politico istituzionale.
Abbiamo contro poteri forti e immorali ed oggi la posta in gioco è diventata più alta: il partito unico degli affari sa che finché si resiste in Val Susa, anche nel resto di Italia sarà più difficile imporre scelte non condivise, devastare e saccheggiare i beni comuni.
I governanti credono che il loro potere, quello della forza e della paura siano invincibili, tuttavia di fronte alla violenza ed all'intimidazione non tutti si chinano timorosi. È successo molte volte nella storia dei senza potere, è successo all'ombra del Rocciamelone lo scorso anno. Succederà ancora, perché il gusto per la libertà è un'erba grama difficile da estirpare.

Maria Matteo

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