Tra i campi di Venaus e nei paesi della Val Susa si sono scritte alcune
delle pagine più belle della storia recente dei senza voce, dei
senza potere, di coloro che i predoni che saccheggiano e devastano
vorrebbero silenti ed obbedienti, sedotti dalla retorica del progresso,
chini di fronte alla forza, disponibili a trattare sulla propria vita e
sul proprio futuro.
Il nostro è un movimento che si costruisce giorno per giorno,
che sa interrogarsi costantemente sulle proprie ragioni, un movimento
che ha la propria forza anche nella capacità di tenere aperto un
confronto con chi non ne condivide gli obiettivi, con gli scettici e
persino con i nemici dichiarati. Tuttavia la capacità di dialogo
si congiunge con la netta volontà di riprendere saldamente nelle
proprie mani la facoltà decisionale, sottratta dalla delega in
bianco alla politica professionale, ai potentati economici, alle cosche
affaristiche che si spartiscono le risorse pubbliche usandole e
sprecandole per fini privati.
Quella dei No Tav non è più una mera storia di
resistenza. Forse non lo è mai stata. Quella di chi si oppone
alla Torino Lione è sì l'opposizione ad un'opera inutile,
distruttiva, dannosa, ma è anche altro. E di più.
Uno degli slogan più belli del movimento è "Resistere per
esistere": in questo slogan è in nuce una tensione progettuale
chiara, quella tensione che trasforma la difesa del proprio giardino
nella volontà che in ogni dove vi siano giardini e non
discariche, spazi di vita e non luoghi dove il profitto detta la sua
legge.
Un gioco molto serio
La partita che si sta giocando in valle di Susa è una partita
dalla posta molto alta, poiché va ben al di là delle rive
della Dora.
È una partita che si gioca su più fronti, che si
intersecano ma non coincidono. Sul tappeto c'è la questione
delle grandi opere e del modello di relazioni sociali di cui sono
indicatore. Sul tappeto c'è altresì la crisi del sistema
di rappresentanza democratico e una prassi che con differenti gradi di
consapevolezza ne prefigura il superamento.
La prima posta in gioco è tra le più rilevanti. Spesso la
vulgata sulle ragioni della strenua opposizione al treno ad alta
velocità mette l'accento su temi rilevanti ma non determinanti a
spiegare un movimento di lotta che, in alcuni momenti, ha assunto un
carattere fortemente radicale. Questioni quali l'emergenza ambientale e
i rischi per la salute, lo sperpero di denaro pubblico per fini
privati, la sostanziale inutilità dell'opera sono solo tasselli
di un lessico comune che ha messo in discussione la logica che sostiene
un modello di sviluppo che sarebbe dissennato, anche se le montagne non
fossero imbottite di uranio e amianto, anche se gli amici di merende
del governo e dell'opposizione non si fossero seduti ad una tavola
imbandita con soldi pubblici, anche se non fosse dimostrato che questa
linea non serve a nulla. Nella genealogia del movimento valsusino
c'è un lungo processo di ri-approppriazione di competenze e
saperi che la struttura di potere pretendeva di avocare a se nel nome
della tecnica e del progresso, i due feticci della modernità
trionfante, che non possono essere né discussi né
verificati, ma solo acriticamente adorati. In questa costruzione di
consapevolezza il constatare l'enormità del sopruso che i
sacerdoti del progresso-profitto-velocità volevano imporre ha
indubbiamente avuto una funzione importante, poiché ha aperto
una finestra da cui è stato poi possibile osservare con occhi
disincantati il circolo vizioso prodotto dall'equazione tra
moltiplicarsi degli scambi e miglioramento delle condizioni di vita.
Un'equazione falsa perché la pretesa del liberismo di costruire
il migliore dei mondi possibili si scontra con l'evidenza della natura
distruttiva di un modello di cui il Tav è l'emblema più
efficace: un treno in corsa che travolge, schiaccia, divora tanta parte
dell'umanità e dei luoghi in cui vive. La critica al capitalismo
e la constatazione della sua natura intrinsecamente distruttiva, pur
partita da una questione specifica, è oggi molto forte tra chi,
tra Torino e Susa, si oppone al Tav.
Quando, in più occasioni, l'ex ministro di polizia Pisanu ha
definito eversivo il movimento No tav, in fondo tutti i torti non li
aveva. Ritenere che la logica del profitto non sia indicatore di
progresso, il sostenere che un mondo dove le vite di milioni di uomini
a nord come a sud del mondo vengono sfruttate, sottomesse, inquinate
è un mondo intollerabile non può che essere considerato
sovversivo.
Tra No Tav e autogestione
Nella dialettica tra il manganello e la carota che ha contraddistinto i
vari politici che vogliono imporre ai valsusini una scelta non
condivisa, al termine della lunga tregua seguita alla rivolta di una
anno fa, non è un caso che, specie i politici dell'Unione,
pongano l'accento sulla necessità di "informare correttamente" i
valligiani. Al di là dell'arroganza si coglie la preoccupazione
di politici consapevoli che le ragioni della lotta dei No Tav
oltrepassano ormai ampiamente i timori per l'ambiente e la salute.
Ma non solo.
L'altro grande tema sul tappeto, quello della crisi del sistema di
rappresentanza democratica, e le concrete esperienze di autogestione
politica territoriale rappresentano un elemento di rottura della
gerarchia che, se capace di contaminare altri ambiti sociali, potrebbe
risultare difficilmente riassorbibile. La vasta mobilitazione che ha
accompagnato i giorni della rivolta, l'attenzione con cui da
tutt'Italia si guardava a quest'angolo di nord ovest, la
solidarietà ampia e spontanea che si è sviluppata intorno
alla "libera repubblica di Venaus" sono i sintomi che l'esperienza
valsusina risponde ad un bisogno diffuso ma costantemente frustrato di
coniugare i termini di un'opposizione sociale radicale, radicata ed
autonoma dal quadro politico istituzionale. La Val Susa, come
già Scanzano, ha rimesso in campo la possibilità di un
conflitto che, nei suoi momenti più forti, allude ad un agire
politico di segno libertario.
Lo scorso anno, negli stessi mesi della rivolta contro il Tav, le
cronache si concentravano sull'insorgenza delle banlieue francesi.
L'esplosione violenta delle banlieue era raccontata, interpretata,
analizzata dall'esterno, ma è stata muta, senza
volontà/possibilità di autorappresentarsi, una sorta di
monumento alla distruzione del legame sociale, della solidarietà
sul territorio. La banlieue, come non luogo, come posto alieno tanto
quanto la metropoli. Non è un caso che la spinta distruttiva,
come in una sorta di gara a punti, si sia concentrata proprio contro la
banlieue stessa, straripando solo occasionalmente dalle periferie al
centro.
In Val Susa una delle spinte della ribellione è stata la volontà di mantenere e rinsaldare il legame sociale.
Questo rafforzarsi del legame sociale si è tradotto nelle
partecipazione diretta alla lotta così come alle assemblee
generali ed ai coordinamenti dei Comitati No Tav che di fatto sono il
vero motore del movimento.
Tra le istituzioni locali e le varie istanze del movimento si è
creata una dialettica complessa. L'autorità dei sindaci dipende
non secondariamente dalla capacità di esprimere nel confronto
con le altre parti istituzionali (Provincia, Regione e governo) gli
obiettivi che il movimento ha definito attraverso il confronto negli
oltre 40 comitati locali, nelle assemblee, nei coordinamenti, nei
presidi di Venaus, Borgone e Bruzolo. Né il presidente della
Comunità montana, né l'assemblea dei sindaci sono stati
sinora in grado di imporre mediazioni. I vari tentativi di
ammorbidimento attuati prima e dopo la rivolta hanno aumentato la
consapevolezza che tavoli di trattativa o di confronto sono solo
trappole per dividere il movimento.
Quando le istituzioni si sono schierate su posizioni non condivise, il
movimento ne ha ignorato l'opinione ed è andato avanti senza
alcun timore. Quando le istituzioni di valle e, in particolare la
Comunità Montana Bassa Val Susa, si opposero alle grandi
manifestazioni del 17 dicembre 2005 a Torino e del 7 gennaio 2006 a
Chambery il movimento dimostrò la propria autonomia facendo da
se e dando vita ad appuntamenti importanti e partecipati. Ricordo
un'assemblea in cui un No Tav disse: "Se i sindaci saranno con noi,
bene. Se non ci saranno poco male: la Val Susa è perfettamente
in grado di autorappresentarsi".
Descrivere, come fanno taluni, quella della Val Susa come esperienza di
"democrazia partecipativa" appare del tutto improprio. Vi è
semmai un complesso intreccio tra i vari luoghi della rappresentanza,
che non può essere ridotto alle assemblee gerarchizzate indette
da quello che un tempo era il Comitato istituzionale ed è stato
poi attualizzato in Comitato di Coordinamento. Queste assemblee guidate
da Ferrentino sono lo strumento che il presidente della Comunità
montana usa per legittimare scelte fatte dall'assise degli
amministratori locali e difficilmente ribaltabili da un'assemblea cui
paternalisticamente si rivolge esigendo crediti di fiducia in bianco.
Crediti che la gente è sempre meno disponibile a concedere. Ne
consegue che il Comitato istituzionale ha gradualmente cessato di
essere il luogo in cui si definiscono gli obiettivi del movimento ma
è oggi uno dei quattro luoghi della rappresentanza del movimento
No Tav.
Gli altri sono il Coordinamento dei Comitati No Tav, l'assemblea generale del Movimento e i vari presidi permanenti.
Il Coordinamento che riunisce i Comitati No Tav della valle, di Torino,
dei paesi della gronda e della Val Sangone è uno dei luoghi
privilegiati dove si definiscono obiettivi, strategie ed iniziative.
All'interno del Coordinamento la partecipazione diretta dei singoli
è molto forte, così come la consapevolezza che la
modalità decisionale migliore è la ricerca del consenso
su una sintesi condivisa.
Le periodiche assemblee generali sono momenti di autorganizzazione
molto importanti, anche se, come spesso accade, possono trasformarsi in
un'agorà dove la creazione del consenso passa dall'affermarsi di
leadership di natura carismatica. Sebbene la partecipazione diretta sia
ampia, le capacità comunicative individuali talora sono vettori
di una decisionalità più emotiva. Fortunatamente passata
la fase mediatica del movimento, si sono quasi del tutto dileguati
nelle nebbie torinesi i vari esponenti politici e sindacali che
individuavano nel No Tav un'occasione su cui piantare il cappello.
Infine vi sono i presidi, luoghi di socialità intensa e di
confronto informale ma continuo: nati come occupazioni dei terreni
destinati a carotaggi o a espropri, sono il segnale di una tenuta nel
tempo di un movimento che sa costruire oltre che opporsi. I presidi,
divenuti sempre più stabili grazie al lavoro volontario di
tanti, sono divenuti fulcro di iniziative politiche, culturali, ludiche
che spesso vanno al di là del No Tav.
Un anno dopo l'8 dicembre
È passato un anno dalle straordinarie giornate dell'inverno
2005, quando le truppe dello Stato occuparono prima Mompantero e poi la
Val Cenischia. La rivolta popolare fu la risposta ai manganelli e alla
violenza. Loro presero il Seghino con l'inganno e poi misero i
checkpoint al paese: il movimento bloccò le strade e le ferrovie
e iniziò a resistere. Loro piazzarono uomini in armi dentro il
vecchio cantiere Sitaf/AEM e un popolo intero li assediò, eresse
barricate, costruì una "Libera Repubblica", senza curarsi che
tutto ciò fosse illegale, perché la legittimità
del proprio agire era stata costruita ogni giorno, per 15 anni, in un
confronto continuo dal basso, in un agire politico che riconsegnava la
"politica", la "polis", la "città" al suo scopo precipuo: essere
il luogo privilegiato di un vivere associato che ha in ciascuno di noi
un protagonista.
Quando, nella notte tra il 5 e il 6 dicembre 2005, con la forza dei
manganelli e delle ruspe la "Libera Repubblica" venne sgomberata
ciascuno seppe che quelle teste spaccate, quelle tende divelte, quegli
uomini e quelle donne erano là per difendere un bene comune che
non è solo la terra, non è solo la salute, ma è
anche dignità e libertà. Una libertà il cui nome
abusato e vilipeso, ridotto ad icona della volgarità e del
"diritto del più forte", torna a risignificarsi ogni volta che
si fa pratica di lotta, conflitto, autogestione.
Così sin dal mattino seguente tutta la valle è stata una
barricata, in tutti i paesi è stato sciopero spontaneo, blocco,
rivolta.
Due giorni dopo, l'8 dicembre, il corteo che partì da Susa alla
volta di Venaus era un fiume in piena: non bastarono le truppe al bivio
dei Passeggeri e le manganellate, perché il fiume si disperse in
mille rivoli che aggiravano gli invasori scivolando poi giù
dalla montagna, verso le recinzioni del cantiere che caddero sotto la
spinta di tutti.
Quel giorno le truppe si ritirarono e il movimento vinse.
Quella dell'8 dicembre non fu una vittoria militare, fu una vittoria
politica, fu la vittoria di chi, mettendo in gioco se stesso in prima
persona, rese chiaro che solo con la guerra guerreggiata lo Stato
avrebbe potuto fermare chi si era ripreso il proprio futuro.
Il giorno dopo ripresero i giochi della politica di palazzo.
Se i politici di Valle non fossero corsi a Roma, bloccando la rivolta
in cambio di un piatto di lenticchie probabilmente il Tav sarebbe oggi
un incubo ormai sepolto.
Vennero inventati osservatori, tavoli, tavolini con relative sedie e
poltrone. È bene dirlo senza mezzi termini: il cosiddetto
"osservatorio" non è la vittoria del movimento ma il mero
tentativo di un governo sconfitto di riparare i danni e prendersi con
la carota quello che il bastone non era riuscito mettersi in saccoccia.
Non è un caso che a capo dell'Osservatorio sia stato messo uno
come Mario Virano, un architetto-piazzista-vaselinatore, una carriera
all'ombra dei poteri forti, già responsabile delle pubbliche
relazioni della Sitaf, la società che gestisce la Torino
Bardonecchia, poi passato all'Anas dietro raccomandazione di Marcellino
Gavio, il signore delle autostrade, grande fautore della linea ad Alta
Velocità tra Genova e Tortona.
Virano è un venditore di fumo, un artista della mediazione e
della contraffazione, l'uomo giusto al posto giusto. Tanto giusto che
Prodi, succeduto da aprile a Berlusconi, non solo l'ha confermato
nell'incarico ma l'ha addirittura nominato "commissario governativo per
la Torino Lione".
Dopo la rivolta dividere il movimento è il grande obiettivo
prima di Berlusconi e poi di Prodi. Oggi, prima di spedire di nuovo
truppe armate, il governo – qualsiasi governo - ha bisogno di
indebolire i No Tav, di fiaccarne la resistenza.
Gli eventi degli ultimi mesi dimostrano che sarà dura, molto dura.
Il movimento non è certo rimasto con le mani in mano. Le ragioni
dei No Tav si sono saldate con quelle dei No Tir e con quelle di chi si
oppone ad una concezione dello sviluppo che coincida con la logica del
profitto a tutti i costi. Lungi dall'arroccarsi in difesa, il movimento
scende in campo, allarga le prospettive, discute di decrescita e si
oppone al raddoppio del tunnel autostradale del Frejus, pratica la
politica dal basso e non si fa infinocchiare dal primo piazzista di
passaggio. L'assedio a Virano che si incontrava con i sindaci nella
sede della Comunità Montana a Bussoleno, la robusta catena che
ha serrato il cancello chiudono degnamente un anno di lotta.
La partita del Tav può essere vinta solo in strada. Il metro
resta la capacità di mantenere l'autonomia delle assemblee e dei
comitati dal quadro politico istituzionale.
Abbiamo contro poteri forti e immorali ed oggi la posta in gioco
è diventata più alta: il partito unico degli affari sa
che finché si resiste in Val Susa, anche nel resto di Italia
sarà più difficile imporre scelte non condivise,
devastare e saccheggiare i beni comuni.
I governanti credono che il loro potere, quello della forza e della
paura siano invincibili, tuttavia di fronte alla violenza ed
all'intimidazione non tutti si chinano timorosi. È successo
molte volte nella storia dei senza potere, è successo all'ombra
del Rocciamelone lo scorso anno. Succederà ancora, perché
il gusto per la libertà è un'erba grama difficile da
estirpare.
Maria Matteo