"Il denaro non ha odore", si dice; ma certo qualcuno questo odore lo
sente molto bene, aggiungiamo noi. Qualcuno, comunque tiri il vento,
sotto qualsiasi cielo, a qualsiasi latitudine, annusa l'aria alla
ricerca di affari lucrosi. Non solo. Si annusa l'aria per sapere dove
stanno proprio i soldi e per far sì che finiscano nelle mani
giuste, cioè in quelle, sempre pronte e senza fondo, del
"partito unico degli affari".
Si tramanda una battuta di Giovanni Agnelli: "La Fiat è sempre
governativa". Non si voleva con ciò solo dire che la Fiat,
cioè il capitale, sta sempre dalla parte di chi governa, di chi
ha momentaneamente il potere, inteso come ordine costituito. Piuttosto,
la battuta tradiva l'ammissione che il capitale ha sempre interesse a
controllare ed essere comunque in buoni rapporti con chi ha il potere
di spendere il denaro ed il patrimonio pubblico. Quanti aiuti statali
alle imprese, quanti regali, quante volte enti pubblici, lo stato,
hanno tolto e tolgono le castagne dal fuoco alle imprese. E quante
volte lavori pubblici sono stati appaltati al solo scopo di ingrassare
chi li realizzava, indipendentemente dall'utilità dell'opera,
dell'interesse "dei cittadini", con totale disprezzo del territorio e
dell'ambiente in cui queste opere giungevano a devastare equilibri
magari secolari o una natura incontaminata "dal giorno della
creazione". E spesso l'intreccio non era solo tra imprese e politica,
ma tra imprese, politica e criminalità organizzata: questi tre
poteri non necessariamente tendevano ad identificarsi, piuttosto si
rapportavano secondo la forza momentanea dell'uno e dell'altro,
utilizzandosi a vicenda, avendo impresa e criminalità
organizzata i propri referenti tra i politici. Ad un certo livello, la
criminalità diventava impresa, organizzando e gestendo
direttamente gli appalti affidati dai suoi referenti politici e
amministrativi.
Bisogna dire che, per la specificità del panorama politico
italiano, bloccato dal veto alla partecipazione del PCI al governo dai
primi passi della repubblica agli anni '90, il "governo" in cui
confidava Agnelli o con cui la mafia faceva affari si identificava in
gran parte nella DC e nei suoi satelliti.
Negli ultimi anni, soprattutto intorno alla realizzazione delle grandi
opere (pensiamo al TAV, al Mose, al ponte sullo stretto di Messina, ma
anche al cantiere eterno del valico Firenze-Bologna), si è
potuto però notare come i due schieramenti che oggi si alternano
al governo del paese abbiano una comune visione sulla necessità
di queste grandi opere come volano dell'economia e dello "sviluppo",
indipendentemente dall'evidente inutilità, dannosità e
costosità di questi "mostri" devastatori del territorio e
saccheggiatori di ricchezza comune.
Il primo motivo di tale per nulla sorprendente convergenza tra casa
delle libertà e ulivo/unione è il riconoscimento
dell'impresa come motore sociale unico: secondo la vulgata, solo
l'impresa è capace di creare ricchezza per la società
mentre la crea per se stessa, secondo una visione della vita sociale
semplificata e brutalmente succube di slogan da liberismo "puro e duro".
Ma vi è di più. Non è detto che questa impresa sia
privata e/o faccia capo ad un imprenditore, ad un padrone come ce lo
immaginiamo normalmente. L'impresa può avere anche la forma
all'apparenza meno preoccupante e più "amichevole" di una
cooperativa, certo grande, con migliaia e migliaia di soci e fatturati
che non hanno nulla da invidiare alle più note imprese
costruttrici nazionali, ma pur sempre una coop, magari "rossa". Questa
coop sarà inserita in un più ampio tessuto di aziende
sorelle e cugine, comprendenti anche banche e assicurazioni; oggi fondi
pensione. Tutte queste imprese avranno nei loro consigli di
amministrazione, politici, sindacalisti, uomini di partito.
Uno dei motivi profondi di questo fenomeno è il costo fuori
controllo della politica, dovuto anche alla mediatizzazione spinta
della stessa e dalla necessità di investire sopratutto in
pubblicità somme che i partiti di una volta non si sarebbero
potuti assolutamente permettere.
Un'altro aspetto rilevante è la modifica avvenuta nella funzione
dello stato che da apparato di controllo e repressivo, nel secolo XX si
è sempre più caratterizzato anche come gestore di
risorse, come investitore, l'altra faccia dello stato "sociale", che
quindi non è tale solo per il suo aspetto solidaristico ed
assistenziale, ma anche e sempre più in misura netta per la sua
capacità di essere collettore di ricchezza, produttore ed
investitore.
Le grandi opere trovano quindi tutti d'accordo a livello politico. Non
parliamo a livello di imprese, qualunque sia la loro natura. In
più lo stato/politica, pur con il nuovo volto sopra descritto,
non ha certo smesso i suoi panni repressivi e di monopolista dell'uso
della forza. Così, che sia l'interesse particolare di grandi
imprese che devono essere lasciate libere di "scatenare i loro istinti
animali" per il "bene della società nel suo complesso" (casa
delle libertà) o che sia l'interesse di un blocco
politico-sindacale-imprenditoriale (ulivo/unione) che teorizza e
pratica la gestione diretta dell'economia finanziata dal denaro
pubblico (si pensi da ultimo all'operazione "fondi pensione" o al vero
e proprio "affare" della gestione del TFR da parte dell'INPS), il
territorio e gli uomini e le donne che ci abitano, la loro vita e il
loro futuro, sono solo beni da "mettere a valore" da "valorizzare",
cioè da trasformare in ricchezza tout court privata (polo) vuoi
"di partito" (unione). In realtà al "partito unico trasversale
degli affari" non interessa nulla neppure delle grandi opere come tali:
le grandi opere sono solo un grande affare che, se non fermato,
impoverirà gli uni, cioè noi, e arricchirà gli
altri, cioè loro.
E loro avranno sempre il volto dello stato, dei suoi poliziotti e dei
suoi manganelli, ieri come oggi pronti a cercar di spianare la strada
alle ruspe devastatrici di imprese i volti dei cui padroni ammiccano
ancora dai manifesti elettorali delle ultime elezioni.
W.B.