Tra la fine degli anni '90 e gli inizi di questo nuovo secolo si sono
sviluppate innumerevoli analisi su come ridare fiato a un pianeta
afflitto da contraddizioni economiche e sociali pesantissime, e proprio
il movimento contro la globalizzazione neoliberista ha catalizzato su
di sé una grande attenzione sia per l'importanza dei contenuti
delle rivendicazioni avanzate sia per la varietà delle analisi,
delle strategie e degli obiettivi perseguiti.
Cambiano le epoche e cambia anche la natura dei movimenti sociali.
È per questo che alle tradizionali categorie rivendicative si
sono affiancati nuovi parametri e nuove forme di lotta. In un mondo
dominato dagli interessi incrociati dei grandi apparati politici ed
economici, la violenza del capitalismo si è abbattuta non solo
sui lavoratori o sugli immigrati (attraverso una progressiva
precarizzazione e negazione dei diritti e delle vite di tutti), ma
soprattutto sugli equilibri fondamentali fra comunità e
territori con una logica improntata al saccheggio delle risorse e
dell'ambiente. Se a tutto questo aggiungiamo l'incubo della guerra
infinita, usata dagli stati e dai governi per piegare il mondo nel
terrore, comprendiamo bene le difficoltà cui vanno incontro i
movimenti sociali nel resistere all'assalto dei poteri forti e nel
rispondere concretamente per invertire i rapporti di forza a livello
globale e, soprattutto, sul piano locale.
Ci sono lotte che hanno un carattere strutturale, perché mettono
in discussione l'essenza stessa del dominio nella sua fattispecie e nel
suo modo di agire. Le lotte contro la devastazione ambientale che si
sono sviluppate negli ultimi anni in Italia e in tutto il mondo mettono
davvero il dito nella piaga: immaginare ed elaborare un modo diverso di
intendere la gestione stessa della cosa pubblica mettendo in
discussione la rappresentanza democratica, i suoi meccanismi e i suoi
rituali.
È un dibattito che, in tempi recenti, ha suscitato l'interesse
di molti, e ancora oggi molti si chiedono come riempire di nuovi
contenuti i meccanismi della democrazia, una forma di gestione del bene
comune che ha dimostrato, ormai, di aver fallito su più fronti,
svelando al tempo stesso il suo vero volto fatto di autoritarismo e
criminalizzazione del dissenso. Succede ormai sempre più
frequentemente che la critica ai metodi e alle decisioni di chi vuole
imporre "democraticamente" la propria linea venga spacciata da chi
detiene il potere come una pratica illegittima, pericolosa e, dunque,
sanzionabile. Nonostante ciò, la sfiducia nei meccanismi della
rappresentanza democratica è sempre più diffusa e
rilevante nel corpo sociale, perché sono in tanti ad aver
compreso che il potere, in tutte le sue forme, non può non
essere uno strumento per il privilegio dei pochi che governano sui
molti. È una cosa che, da anarchici, non può che
soddisfarci. Ma non basta.
Nel dibattito sulle nuove forme di partecipazione politica molti
intellettuali ed esponenti della cosiddetta società civile hanno
messo a punto una visione della gestione della cosa pubblica che viene
chiamata in molte maniere, andando a frugare anche nella cassetta degli
attrezzi teorici e pratici dell'anarchismo e del pensiero libertario.
È un dato di fatto: la critica del potere e la promozione di
lotte organizzate in maniera sempre meno gerarchica e sempre più
orizzontale è una cifra importante dei movimenti sociali di
nuova generazione, e il contributo degli anarchici e del loro pensiero
è stato fondamentale. Espressioni come "democrazia diretta",
"azione diretta" e "municipalismo" sono entrate prepotentemente nel
linguaggio comune. Eppure, si rischia di avere a che fare con parole
vuote se queste non sono inserite in una visione di insieme più
ampia e, soprattutto, più sincera.
Quando, ad esempio, si parla di "democrazia partecipata" o
"partecipativa" si compie un errore di cattiva coscienza: la
democrazia, intesa nel suo senso letterale, dovrebbe avere già
in sé gli elementi della partecipazione popolare. Così in
effetti non è, perché la democrazia, per come l'abbiamo
sempre conosciuta (quella che funziona con i governi, i parlamenti, i
consigli comunali, gli assessori, i ministri, ecc.) è solo una
delle tante forme di gestione del potere perché si basa sul
verticismo e sulla gerarchia di una piramide alla cui base vive
l'elettorato, buono solo a scegliere ogni quattro o cinque anni il
manipolo di imbroglioni che dovranno comandarlo. La rappresentanza
democratica si fonda sulla delega, sulla possibilità che viene
data ad alcuni di gestire le vite di tutti.
Per ovviare a questa crisi della rappresentanza, molti politici
propongono forme di cogestione del potere attraverso la creazione di
organismi misti in cui siedono, fianco a fianco, governanti e governati
dando l'illusione che in questo modo i cittadini contino realmente
qualcosa. Sono operazioni che servono ai ceti politici per rifarsi
continuamente la verginità allestendo meeting e riunioni
patinate con l'intento di mostrare volontà di confronto con
l'elettorato, spiegando la bontà delle loro posizioni e la
necessità di mediare sempre e comunque con le istituzioni.
Indorare la pillola per far capire che loro, che hanno il potere, hanno
sempre ragione.
Tutto questo serve per mettere un freno allo sviluppo delle lotte
sociali che, nel locale, si consolidano nelle molteplici forme delle
assemblee popolari e nella dialettica che si esprime nelle strutture di
base, nei comitati di quartiere e in tutti quei luoghi in cui sono i
diretti interessati che discutono e decidono su cosa è meglio
fare nell'interesse di tutti.
Quando il conflitto sociale riesce ad esprimersi autonomamente
nell'analisi dei problemi e nella ricerca delle soluzioni, le
istituzioni vengono messe radicalmente in discussione: è il
rifiuto della delega che scardina il concetto stesso di rappresentanza,
di potere, di imposizione, di autorità.
Per fare un esempio, un'assemblea popolare in cui a tutti viene data la
parola e in cui tutti sono sullo stesso piano è l'unico
strumento per elaborare e produrre decisioni su come risolvere i
problemi e gestire concretamente la vita di una comunità,
piccola o grande che sia. I partiti e i loro rappresentanti hanno paura
delle strutture di base o dei comitati popolari perché in essi
vengono adottate pratiche e metodi realmente orizzontali al di fuori
dell'angusto recinto della mediazione istituzionale che pretende di
imporre dall'alto le decisioni sulla pelle di chi dovrà subirle.
E le grandi potenzialità che esprimono queste forme di
aggregazione sociale sono temute da chi vorrebbe che tutto venisse
ricondotto nei rassicuranti parametri della rappresentanza
istituzionale e "democratica".
La partecipazione è invece molto più vera e praticabile
quando è una comunità che si autogestisce col contributo
di tutti. Una comunità incline all'autogoverno è una
comunità che non si chiude, che non si soffoca perché per
tutti è possibile l'accesso alla decisionalità.
In questo modo è possibile attuare una specie di "esodo",
un'uscita progressiva dai meccanismi autoritari ai quali è
necessario sostituire una progettualità alternativa che trovi
riscontro nella pratica dell'autogoverno e nell'adozione di meccanismi
decisionali improntati all'orizzontalità, alla
solidarietà, al mutuo appoggio, al riconoscimento della piena
uguaglianza e della piena libertà di tutti.
Una democrazia diretta in cui ad esempio – in un comune di
diecimila abitanti – prevalgono le decisioni di quel comune e non
di quella provincia e ancor meno quelle della regione e così
via, federalmente andando. Una democrazia in cui le istanze
"periferiche" (i quartieri di una città, i comuni, le regioni)
non sono articolazioni decentrate del potere centrale, ma in cui, al
contrario, l'istanza "centrale" è articolazione federale del
potere di base. Un modo di procedere dal basso che conduca alla
possibilità, del tutto concreta e auspicabile, che non ci sia
più nemmeno un potere centrale.
La partecipazione di tutti alla gestione del bene collettivo, il
rispetto delle idee altrui e la capacità di sintetizzare i
contributi e i bisogni dei singoli senza prevaricazioni, l'assenza
della gerarchia, il rifiuto della delega, l'assunzione di
responsabilità di ciascuno, la volontà di trovare
soluzioni percorribili e accettabili nell'interesse di una
comunità, la sensibilità e la cura dell'ambiente che ci
circonda sono tutti elementi estranei alla logica delle istituzioni,
perché il potere si basa sul ricatto, sul bisogno,
sull'intimidazione, sulla violenza, sullo sfruttamento.
Le risorse che, invece, è possibile mettere in pratica a partire
dalle lotte quotidiane fino all'approccio stesso con tutto ciò
che ci sta attorno sono alla portata di tutti. Assaggiare anche solo
una volta il sapore della libertà e dell'autogestione significa
apprezzare l'enorme ventaglio di possibilità che si dispiegano
se solo si vuole continuare su questa strada. Una strada che conduce a
quello che ci sta più a cuore: l'autogoverno, l'assenza di
dominio, l'anarchia.
TAZ laboratorio di comunicazione libertaria