Umanità Nova, Speciale 8 dicembre (supplemento al n.40 del 10 dicembre 2006)

Contro la delega per rompere la gerarchia
L'inganno della democrazia partecipata

 
Tra la fine degli anni '90 e gli inizi di questo nuovo secolo si sono sviluppate innumerevoli analisi su come ridare fiato a un pianeta afflitto da contraddizioni economiche e sociali pesantissime, e proprio il movimento contro la globalizzazione neoliberista ha catalizzato su di sé una grande attenzione sia per l'importanza dei contenuti delle rivendicazioni avanzate sia per la varietà delle analisi, delle strategie e degli obiettivi perseguiti.
Cambiano le epoche e cambia anche la natura dei movimenti sociali. È per questo che alle tradizionali categorie rivendicative si sono affiancati nuovi parametri e nuove forme di lotta. In un mondo dominato dagli interessi incrociati dei grandi apparati politici ed economici, la violenza del capitalismo si è abbattuta non solo sui lavoratori o sugli immigrati (attraverso una progressiva precarizzazione e negazione dei diritti e delle vite di tutti), ma soprattutto sugli equilibri fondamentali fra comunità e territori con una logica improntata al saccheggio delle risorse e dell'ambiente. Se a tutto questo aggiungiamo l'incubo della guerra infinita, usata dagli stati e dai governi per piegare il mondo nel terrore, comprendiamo bene le difficoltà cui vanno incontro i movimenti sociali nel resistere all'assalto dei poteri forti e nel rispondere concretamente per invertire i rapporti di forza a livello globale e, soprattutto, sul piano locale.
Ci sono lotte che hanno un carattere strutturale, perché mettono in discussione l'essenza stessa del dominio nella sua fattispecie e nel suo modo di agire. Le lotte contro la devastazione ambientale che si sono sviluppate negli ultimi anni in Italia e in tutto il mondo mettono davvero il dito nella piaga: immaginare ed elaborare un modo diverso di intendere la gestione stessa della cosa pubblica mettendo in discussione la rappresentanza democratica, i suoi meccanismi e i suoi rituali.
È un dibattito che, in tempi recenti, ha suscitato l'interesse di molti, e ancora oggi molti si chiedono come riempire di nuovi contenuti i meccanismi della democrazia, una forma di gestione del bene comune che ha dimostrato, ormai, di aver fallito su più fronti, svelando al tempo stesso il suo vero volto fatto di autoritarismo e criminalizzazione del dissenso. Succede ormai sempre più frequentemente che la critica ai metodi e alle decisioni di chi vuole imporre "democraticamente" la propria linea venga spacciata da chi detiene il potere come una pratica illegittima, pericolosa e, dunque, sanzionabile. Nonostante ciò, la sfiducia nei meccanismi della rappresentanza democratica è sempre più diffusa e rilevante nel corpo sociale, perché sono in tanti ad aver compreso che il potere, in tutte le sue forme, non può non essere uno strumento per il privilegio dei pochi che governano sui molti. È una cosa che, da anarchici, non può che soddisfarci. Ma non basta.
Nel dibattito sulle nuove forme di partecipazione politica molti intellettuali ed esponenti della cosiddetta società civile hanno messo a punto una visione della gestione della cosa pubblica che viene chiamata in molte maniere, andando a frugare anche nella cassetta degli attrezzi teorici e pratici dell'anarchismo e del pensiero libertario. È un dato di fatto: la critica del potere e la promozione di lotte organizzate in maniera sempre meno gerarchica e sempre più orizzontale è una cifra importante dei movimenti sociali di nuova generazione, e il contributo degli anarchici e del loro pensiero è stato fondamentale. Espressioni come "democrazia diretta", "azione diretta" e "municipalismo" sono entrate prepotentemente nel linguaggio comune. Eppure, si rischia di avere a che fare con parole vuote se queste non sono inserite in una visione di insieme più ampia e, soprattutto, più sincera.
Quando, ad esempio, si parla di "democrazia partecipata" o "partecipativa" si compie un errore di cattiva coscienza: la democrazia, intesa nel suo senso letterale, dovrebbe avere già in sé gli elementi della partecipazione popolare. Così in effetti non è, perché la democrazia, per come l'abbiamo sempre conosciuta (quella che funziona con i governi, i parlamenti, i consigli comunali, gli assessori, i ministri, ecc.) è solo una delle tante forme di gestione del potere perché si basa sul verticismo e sulla gerarchia di una piramide alla cui base vive l'elettorato, buono solo a scegliere ogni quattro o cinque anni il manipolo di imbroglioni che dovranno comandarlo. La rappresentanza democratica si fonda sulla delega, sulla possibilità che viene data ad alcuni di gestire le vite di tutti.
Per ovviare a questa crisi della rappresentanza, molti politici propongono forme di cogestione del potere attraverso la creazione di organismi misti in cui siedono, fianco a fianco, governanti e governati dando l'illusione che in questo modo i cittadini contino realmente qualcosa. Sono operazioni che servono ai ceti politici per rifarsi continuamente la verginità allestendo meeting e riunioni patinate con l'intento di mostrare volontà di confronto con l'elettorato, spiegando la bontà delle loro posizioni e la necessità di mediare sempre e comunque con le istituzioni. Indorare la pillola per far capire che loro, che hanno il potere, hanno sempre ragione.
Tutto questo serve per mettere un freno allo sviluppo delle lotte sociali che, nel locale, si consolidano nelle molteplici forme delle assemblee popolari e nella dialettica che si esprime nelle strutture di base, nei comitati di quartiere e in tutti quei luoghi in cui sono i diretti interessati che discutono e decidono su cosa è meglio fare nell'interesse di tutti.
Quando il conflitto sociale riesce ad esprimersi autonomamente nell'analisi dei problemi e nella ricerca delle soluzioni, le istituzioni vengono messe radicalmente in discussione: è il rifiuto della delega che scardina il concetto stesso di rappresentanza, di potere, di imposizione, di autorità.
Per fare un esempio, un'assemblea popolare in cui a tutti viene data la parola e in cui tutti sono sullo stesso piano è l'unico strumento per elaborare e produrre decisioni su come risolvere i problemi e gestire concretamente la vita di una comunità, piccola o grande che sia. I partiti e i loro rappresentanti hanno paura delle strutture di base o dei comitati popolari perché in essi vengono adottate pratiche e metodi realmente orizzontali al di fuori dell'angusto recinto della mediazione istituzionale che pretende di imporre dall'alto le decisioni sulla pelle di chi dovrà subirle. E le grandi potenzialità che esprimono queste forme di aggregazione sociale sono temute da chi vorrebbe che tutto venisse ricondotto nei rassicuranti parametri della rappresentanza istituzionale e "democratica".
La partecipazione è invece molto più vera e praticabile quando è una comunità che si autogestisce col contributo di tutti. Una comunità incline all'autogoverno è una comunità che non si chiude, che non si soffoca perché per tutti è possibile l'accesso alla decisionalità.
In questo modo è possibile attuare una specie di "esodo", un'uscita progressiva dai meccanismi autoritari ai quali è necessario sostituire una progettualità alternativa che trovi riscontro nella pratica dell'autogoverno e nell'adozione di meccanismi decisionali improntati all'orizzontalità, alla solidarietà, al mutuo appoggio, al riconoscimento della piena uguaglianza e della piena libertà di tutti.
Una democrazia diretta in cui ad esempio – in un comune di diecimila abitanti – prevalgono le decisioni di quel comune e non di quella provincia e ancor meno quelle della regione e così via, federalmente andando. Una democrazia in cui le istanze "periferiche" (i quartieri di una città, i comuni, le regioni) non sono articolazioni decentrate del potere centrale, ma in cui, al contrario, l'istanza "centrale" è articolazione federale del potere di base. Un modo di procedere dal basso che conduca alla possibilità, del tutto concreta e auspicabile, che non ci sia più nemmeno un potere centrale.
La partecipazione di tutti alla gestione del bene collettivo, il rispetto delle idee altrui e la capacità di sintetizzare i contributi e i bisogni dei singoli senza prevaricazioni, l'assenza della gerarchia, il rifiuto della delega, l'assunzione di responsabilità di ciascuno, la volontà di trovare soluzioni percorribili e accettabili nell'interesse di una comunità, la sensibilità e la cura dell'ambiente che ci circonda sono tutti elementi estranei alla logica delle istituzioni, perché il potere si basa sul ricatto, sul bisogno, sull'intimidazione, sulla violenza, sullo sfruttamento.
Le risorse che, invece, è possibile mettere in pratica a partire dalle lotte quotidiane fino all'approccio stesso con tutto ciò che ci sta attorno sono alla portata di tutti. Assaggiare anche solo una volta il sapore della libertà e dell'autogestione significa apprezzare l'enorme ventaglio di possibilità che si dispiegano se solo si vuole continuare su questa strada. Una strada che conduce a quello che ci sta più a cuore: l'autogoverno, l'assenza di dominio, l'anarchia.

TAZ laboratorio di comunicazione libertaria

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