Scrivere di Haiti, della sua capitale fantasma Port-au-Prince, dopo
il tremendo e fatidico terremoto che l'ha investita il 12 gennaio
scorso, vuol dire scrivere di un Paese di morti viventi.
Di sopravissuti alla tragedia di una morte improvvisa ed inaspettata, ma non al dramma del loro futuro certo e inevitabile.
Riflettere su quale dei due sia l'aspetto peggiore di quanto è
accaduto nell'isola caraibica non ce lo possiamo permettere. Non per
rispetto di chi è morto, ma per pietà di chi è
sopravvissuto e che – a seconda delle situazioni – diverrà
vittima o sciacallo. Vittima, se saprà chiedere aiuto senza
pretender nulla, come i regnanti del suo Stato hanno sempre voluto che
fosse. Sciacallo, se prenderà senza aspettare il futuro che gli
hanno garantito i garanti della sua eterna povertà.
Lo sappiamo: facile e di bassa lega è il moralismo che si legge
e si scrive in questi giorni a proposito del passato, del presente e
del futuro di quest'isola caraibica, quasi che all'improvviso – come il
terremoto di due settimane fa – Haiti sia diventata il luogo di tutti i
misfatti e di tutti i rimedi: una sorta di araba fenice che dalle
ceneri spiccherà il volo. Già: per dove?
Inchiodata nel mar dei Sargassi, il grande cortile degli Stati Uniti,
Haiti per estensione è la terza isola delle cinque grandi isole
che compongono l'arcipelago delle Grandi Antille: un paradiso per i
turisti, un inferno per i suoi abitanti. Ora risulterà essere un
immenso purgatorio dove espiare la colpa di voler essere diversi da
ciò che si è. Diversi, soprattutto, dagli stereotipi che
la civiltà cristiano-occidentale ha fabbricato su di una
popolazione che per prima ha conquistato la libertà dal
colonialismo e fra le prime è stata soggetta alla
schiavitù neocolonialista, assicurando il privilegio ai servi
dei loro padroni: i Duvaliers padre e figlio, il fantoccio Aristide e
il suo ex primo ministro Préval.
Paese fra i più poveri al mondo, Haiti occupa la 153esima
posizione su 177 paesi classificati in base all'Indice di sviluppo
umano. Circa l'80% della popolazione vive in una condizione di
povertà degradante, il 54% vive con meno di un dollaro al
giorno, posizionando così il paese al penultimo posto nel mondo
nella relativa classifica, e rispetto all'attigua Repubblica Domenicana
che condivide la medesima isola (Hispaniola) risulta essere in forte
ritardo in pressoché tutti gli indicatori di sviluppo
socio-economici.
Un solo dato fra i tanti: la mortalità infantile, che nella
Repubblica Dominicana colpisce 31 bambini su 1000 nati vivi, ad Haiti
ha una consistenza più che doppia (74 ogni 1000 bambini nati
vivi).
Sennonché di questa sofferta realtà ora basterà
ricordare le cifre ufficiali dei morti per contare il numero dei
sopravissuti così da programmarne i prossimi ricavi per una
spesa in aiuti umanitari che – meglio di una guerra –
legittimerà il dominio degli Stati Uniti nell'opera democratica
e civilizzatrice dell'umanità.
Il terremoto, si sa, è una catastrofe naturale i cui effetti non
sono uguali per tutti. Anzi: per alcuni sono addirittura benefici.
Vero mr. Obama?
gianfranco marelli
P.S.: Cavaliere, non si lamenti: anche Lei nel suo piccolo...