Qualche centinaio di scienziati sono scesi in piazza a Roma per la libertà della scienza.
Si sentono minacciati dalle direttive che il ministro Pecoraro Scanio ha diffuso presso tutti i laboratori pubblici, in cui erano messi in discussione i finanziamenti a chi ricerca in campo biotech. L'appello degli scienziati, diffuso nei giorni passati, porta in calce firme importanti, che sui giornali hanno facilmente trovato spazio: Dulbecco, Levi Montalcini, Boncinelli. L'appello è però partito tre mesi fa, dalle pagine del Sole24ore. Ora, che sia stato il quotidiano di Confindustria a lanciarlo induce ad una piccola riflessione: che si stia confondendo libertà di ricerca con liberismo? Sulla questione, si sono formati due schieramenti. Da un lato, i ricercatori (privati e pubblici) che vedono il Bene in qualsiasi innovazione scientifica, indipendentemente dai suoi presupposti e conseguenze sociali. Dall'altro, i Verdi e, che strano, la Chiesa Cattolica, che mirano a bloccare la ricerca, nel campo sopratutto del vivente, o almeno ad orientarla in un senso "eticamente" accettabile. Non si può andare oltre La forbice che separa liberta' della ricerca dalla liberta' del business e' oggi sempre piu' articolata. Ad essere onesti risulta alquanto difficile nel contesto attuale High-Tech separarle in modo netto. Proviamo pero' a fare alcune considerazioni. Comiciamo con gli 'scienziati rivoltosi' di casa nostra.
La loro posizione e' facilmente comprensibile. Hanno paura di perdere il treno della ricerca nei campi del vivente: biologia molecolare, genetica, biotecnologie in senso stretto. La conclusione del Progetto Genoma Umano ha infatti aperto una nuova fase della ricerca finalizzata alla comprensione dell'articolata funzionalita' biologica come espressione dell'informazione genetica. La paura dei ricercatori non e' tanto quella di perdere i finanziamenti pubblici di casa nostra quanto quella di vedere meno il possibile inserimento del sistema italia nell' articolato business system della ricerca internazionale del settore.
I contatti con le imprese, multinazionali e start-up, e l'intercettazione di flussi finanziari della comunita' europea fanno sempre gola. A tale proposito gli scienziati paventano il rischio di una possibile marginalizzazione della ricerca italiana nel settore. Questo e' parzialmente vero. Per completare il quadro pero' occorre ricordare, che la marginalita' del sistema italiano non e' tanto legato alla mancanza di fondi pubblici, quanto alla mafiosa gestione dei laboratori che lorsignori hanno alimentato e consolidato in tutti questi anni con adeguata connivenza dello stato. La mancanza di finanziamenti pubblici, problema storico del sistema ricerca italiano, colpisce i giovani ricercatori prima dei programmi di ricerca. Alla scarsità oggettiva di risorse i baroni universitari e dei centri di ricerca hanno rimediato con una selezione del personale basata sulla capacit?à di accettare condizioni di lavoro precarie e servili. L'ottima preparazione media dei neolaureati italiani è dovuta al fatto che nel ciclo di studi universitari è ormai compreso un periodo di ricerca non remunerata. La bandiera quindi di un innalzamento dei finanziamenti pubblici alla ricerca non deve certo essere impugnata dal ceto parassitario-baronale. Passiamo ad un altro problema, specificamente legato al settore in questione. Un discorso sul biotech non può certo essere separato da una discussione sulla proprietà intellettuale. Tramite il brevetto le imprese monopolizzano la ricerca, e riescono a trarre profitti dalla produzione scientifica. Non si tratta solo del vecchio nemico, le Multinazionali: fioriscono oggi piccole imprese quotate in Borsa, nate dal nulla e sparite con il malloppo il giorno dopo, in cui si scopre, si brevetta e si vende alle multinazionali. I creatori di queste imprese sono spesso gli stessi scienziati che oggi sbandierano la necessità di un'economia più innovativa, competitiva, ad alto valore aggiunto. Tanti slogan buoni per Bruno Vespa, ma la sostanza è un'altra: la proprietà intellettuale, riconoscendo un dominio privato sulla ricerca, la riconduce nel mercato sottomessa alla legge della domanda e dell'offerta. E' una amara costatazione osservare come l'energie libertarie che hanno permesso la nascita dell'imprenditoria scientifica nel settore, facendo fuggire i giovani ricercatori della fine degli anni sessanta dai claustrofobici ambiti della ricerca universitaria statunitense, sianooggi vittime di un sistema che vincola la ricerca al segreto industriale e alla rincorsa del brevetto. Infine, ricordiamo e non fa mai male farlo, che buona parte della ricerca biotecnologica viene svolta sotto l'ombrello delle applicazioni militari. Se questo e' il modello a cui gli "scienziati nostrani" si rivolgono hanno ben poco da parlare di liberta' della ricerca. Se il problema del brevetto fosse autoconfinato all'ambito della ricerca, si potrebbe affrontare la questione con relativa tranquillita' su un piano esclusivamente metodologico. Cosa fa meglio allo sviluppo di un certo sapere: il segreto industriale e la sotterranea circolazione di prestiti di conoscenza o la libera e orizzontale cooperazione di una attiva comunita'. La risposta e' banale, e l'informatica ha gia dato la soluzione al problema. Purtroppo la penetrazione dell' elemento tecnologico in tutti i meandri della vita sociale impone anche altre riflessioni. Nel caso del biotech, il brevetto ha infatti prodotto danni sociali irreversibili laddove l'economia significa agricoltura di sussistenza, che non è sinonimo di miseria. Per contadini di mezzo mondo coltivare piante brevettate vuol dire pagare il canone sui semi, sacrificare parte della produzione, cioè del proprio pranzo, per doverli comprare ogni anno al prezzo delle multinazionali. E' a questo che gli scienziati nostrani si riferiscono quando prospettano la risoluzione del problema della fame nel mondo grazie alle biotecnologie? Dare uno sguardo al passato non fa mai male. Che il progresso scientifico nel bioalimentare avrebbe eliminiato la fame nel mondo ce lo avevano gi?à raccontato gli stessi scienziati all'epoca della Rivoluzione Verde: poi scoprirono che, ops, il DDT che era necessario per le piante ad alto rendimento faceva venire il cancro. E così per le farine animali e l'inquinamento elettromagnetico. Davvero gli scienziati hanno la credibilità per parlare alla società da perseguitati? Davvero possiamo fidarci della loro economia competitiva, innovativa, ad alto valore aggiunto? A nostro giudizio anche il 'partito della verdura senza GM' ha le sue colpe. Al liberismo scientifico si oppongono gli ecologisti e i consumatori, desiderosi di controllare, regolare, valutare i rischi delle scoperte scientifiche. Danno, a volte, l'impressione di svuotare un oceano con la paletta pero' risultano anche telegenici. A volte creano un mare di confusione. La cosa inquietante e' l'irrazionalismo moralista in cui rischiano di cadere. Perché sembra così difficile stabilire regole in questo campo, senza fare appello al Papa? Perché dalla bomba di Hiroshima in poi qualcosa si è capito: le scoperte scientifiche non sono semplici conquiste della scienza, ma hanno un valore commerciale e militare. Costruiscono attorno a loro un mondo articolato fatto di capitali, merci, monopoli e profitti. Quindi, intervenire a posteriori bloccando, limitando e etichettando, a volte e' vano. Tuttavia in alcuni casi si e' mostrato che lo spettro delle applicazioni di alcune tecnologie avviasse una vera e propria rivoluzione nell'uso e nella gestione del mezzo tecnologico stesso. L'informatica e' l'esempio piu' importante di questa dimensione che ha visto al proprio interno nascere la cultura del free-sofrtware e della comunicazione orizzontale. Come guardare la ricerca biotecnologica da questi due punti di vista e' esattamente lo scopo di un vero dibattito pubblico sul problema. Ma a questo punto sorge la questione spinosa che nessuno vuole affrontare. Che cosa e' uno spazio pubblico per la ricerca, oggi che la divisione tradizionale tra ricerca di stato e privata e' totalmente scomparsa all'interno dei reticoli finanziari e di collaborazioni tra enti differenti? L'unico spazio pubblico che negli ultimi anni si e' sviluppato a riguardo e' quello delle aule dei tribunali. Miseria del reale. Noi guardiamo in un'altra direzione. Se l'esempio della cultura libertaria dell'informatica di base trovera' una propria dimensione all'interno del mondo biotech, forse si riuscira' a sottrarre energie, tempo, saperi e tecnologie per un uso sociale autonomo della conoscenza biotecnologica. E' su questo campo che si gioca la vera partita, non certo con direttive ministeriali e contro comunicati da farsa.
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