Sulle cause della disoccupazione di massa che si è abbattuta sull'Europa è, ovviamente, possibile interrogarsi a lungo. Quale parte attribuire al mutamento tecnologico informatico, che impedisce che i lavoratori "liberati" dagli aumenti di produttività in un settore si riversino in un altro? Quale parte alla mondializzazione? Quale parte ancora alla speculazione finanziaria? Quale parte infine alla timidezza delle nostre politiche economiche e ai criteri di convergenza imposti dal Trattato di Maastricht? Su tutti questi punti i firmatari del seguente Appello possono avere delle opinioni divergenti. Ma ciò che li unisce è la certezza che la crisi del lavoro e lo sfaldamento della società salariale sono tali che nessuna misura di politica economica tradizionale potrà comunque essere all'altezza del problema posto.
Per parlare chiaro, né l'ultra-liberalismo né la panoplia delle misure di rilancio keynesiano saranno sufficienti a contrastare la disoccupazione e a evitare le molteplici fratture sociali che si approfondiscono un po' ovunque, se non si comprende che l'Europa è entrata in una nuova era, del tutto diversa da quella che ha assicurato la sua prosperità fino ad oggi.
I firmatari di questo Appello, economisti, sociologi, filosofi, giornalisti, militanti dell'associazionismo, etc., i quali, a diverso titolo, hanno avuto occasione di riflettere e di scrivere sulla situazione attuale, considerano che, di fronte alla sua gravità, è urgente mettere in secondo piano le divergenze, talvolta profonde, che li separano, per chiamare, con una certa solennità, tutte le organizzazioni, tutti i partiti politici, i sindacati o le associazioni, tutte le donne e gli uomini di buona volontà a impegnarsi, il più rapidamente possibile, su scala europea, in un dibattito sulle possibilità di mettere in atto una politica economica e sociale decisamente innovatrice. Un impegno, questo, che implica di riflettere sulle condizioni che permettano l'instaurarsi di un'economia e di una democrazia plurali, insieme alle prospettive di uno sviluppo durevole. Secondo essi una politica del genere ha possibilità di successo solo se si inscrive nella prospettiva di una intensificazione dell'esigenza democratica e non, come sfortunatamente è spesso più il caso, in quella del sacrificio delle esigenze della democrazia alle esigenze di una efficienza tecnocratica o economica il più delle volte immaginaria. Più specificamente, e anche se ciascuno dei firmatari vi attribuisce un'importanza relativa differente, tutti sono d'accordo nel pensare che l'edificazione di una politica economica e sociale decisamente democratica e capace di ricomporre le fratture già profonde del corpo sociale passi per l'esplorazione congiunta delle tre vie seguenti, strettamente interdipendenti:
riduzione del tempo di lavoro e ripartizione dell'occupazione.
Occorre in primo luogo facilitare una riduzione della durata media effettiva del lavoro. E' inoltre necessario redistribuire sull'insieme della popolazione attiva un volume di lavoro regolare -che è in via di ineluttabile riduzione. Se questi principi generali devono costituire oggetto di una legge quadro, le modalità di applicazione, che saranno sottomesse a negoziati interprofessionali decentrati, non possono rivestire una forma unica. E' tutto un arsenale di misure che occorre mettere in opera. Tra queste: la valorizzazione su una o più annate di un tempo di lavoro che dia diritto a un reddito continuativo; la messa in atto, laddove sia possibile, della settimana lavorativa di quattro giorni; l'adozione di un "secondo assegno" e le diverse forme di incentivo al tempo parziale liberamente scelto. In ogni caso, occorre opporsi fermamente a ogni forma imposta di lavoro flessibile o a tempo parziale, così come alla moltiplicazione delle forme intermedie tra lavoro e assistenza che frammentano le diverse componenti della popolazione attiva.
Economia plurale e solidale.
E' necessario, in secondo luogo, riconoscere ed incoraggiare le molteplici iniziative, sorte un po' ovunque, che superano le frontiere tra economia e società perché non attengono solamente, o anche principalmente, all'economia di mercato o alla solidarietà di stato. Di fianco al lavoro-impiego, quale esiste nel settore mercantile e nel servizio pubblico, è necessario, in un ottico di economia plurale, dare coerenza e regole a un terzo settore economico -che numerosi autori in Francia analizzano sotto il termine di "economia solidale"- valorizzandone le finalità sociali ed ecologiche. Tutte queste iniziative richiedono una politica appropriata, che permetta il sostegno dei progetti attraverso la mediazione di nuove forme di negoziazione sociale basata sulla mobilitazione di partners sociali ed associazioni, in vista dell'attribuzione legittima di finanziamenti pubblici a tutte le attività caratterizzate da una forte utilità sociale che non potrebbe svilupparsi solo secondo la logica di mercato.
L'obiettivo è quello di rendere la logica economica meno esageratamente selettiva, resistendo sia alla tentazione di creare dei "lavoretti" marginali, sia quella di instaurare un settore a parte per i disoccupati. Si tratta al contrario di favorire l'ibridazione tra l'economia privata, l'economia pubblica e l'economia associativa e non monetaria. Nella misura in cui una tale dinamica punta ad assicurare le condizioni che permettano a ciascuno di impegnarsi volontariamente in attività che concorrano al bene comune, essa rafforza la richiesta di un rilancio di forme di democrazia diretta che siano capaci di completare e rivivificare i nostri sistemi di democrazia rappresentativa.
Un reddito minimo incondizionato (sottomesso all'unica condizione delle risorse) e cumulabile.
Infine si deve affermare che le nostre società si disonorerebbero, se autorizzassero la sussistenza di alcuni dei propri membri al di sotto del livello di risorse materiali minimo, necessario alla sopravvivenza economica e sociale. Esse devono fare di tutto per tentare di fornire a ciascuno i mezzi per accedere a un'identità sociale riconosciuta. Ed è appunto a questo obiettivo che puntano tanto la politica di redistribuzione dell'occupazione salariata, quanto le misure di incoraggiamento di un'economia solidale evocate più sopra. Nel caso dei più poveri e dei più svantaggiati, questo accesso alle fonti dell'"autostima" non potrebbe realizzarsi né attraverso la scappatoia della mera costrizione, né attraverso quella di misure d'inserimento fondate su una qualche finzione di contratto. I redditi minimi sperimentati in Europa hanno in parte fallito l'obiettivo di reinserimento che perseguivano, per non aver saputo risolvere (e regolare) il problema dell'articolazione necessaria tra obbligazione, contratto e volontariato; ed anche perché la revocabilità di essi richiude i loro beneficiari in una prospettiva di breve termine, così come il divieto di cumulare il reddito minimo con altre risorse impedisce loro di cercare in modo efficace un impiego, rinchiudendoli nella trappola della disoccupazione
Occorre ormai andare al di là. Ma come? E' appunto su tale questione che i firmatari di questo appello divergono maggiormente. Alcuni sono assai reticenti di fronte all'idea che un reddito possa essere distribuito senza una controparte in lavoro. Altri ritengono, al contrario, che una cittadinanza nuova debba basarsi sull'allocazione di un reddito minimo incondizionato (si chiami esso "reddito di esistenza", "allocazione universale", etc.) indipendente dal livello dei redditi, dell'età, del sesso o dalla situazione matrimoniale. E tuttavia, quali che siano le differenze di prospettiva a medio o a lungo termine su ciò, tutti sono d'accordo nel riconoscere che, nell'immediato e a breve termine, il buon senso, l'umanità e l'equità devono condurre a rendere incondizionata l'attribuzione di un reddito minimo per ogni persona che non benefici già di un livello minimo di risorse quale esso potrebbe garantire, indipendentemente dal buon esito delle iniziative di reinserimento.
Allo stesso modo è necessario che questo reddito minimo sia reso cumulabile (e non sostitutivo) con delle risorse complementari, purché queste siano tassate. In ogni caso, ciò che più conta è opporsi con tutti i mezzi ai diversi progetti di lavoro obbligatorio (workfare) che vanno moltiplicandosi e che non possono non ricondurci in pieno XIX secolo, facendo degli esclusi dei capri espiatori.
Nessun serio ostacolo morale, economico o finanziario si oppone realmente all'adozione di tali misure. Ciò che in esse può sollevare inquietudine è il timore che instaurando tale reddito minimo incondizionato (con l'unica condizione delle risorse), i nostri stati possano disinteressarsi dei più deboli e abbandonarli al loro destino, concedendo un misero obolo di mera sopravvivenza. In effetti si tratta di un rischio che non deve essere affatto sottovalutato. Ed al quale bisogna resistere affermando che una tale misura acquista senso se accoppiata alle due precedenti e se essa permette di ridispiegare l'azione degli operatori sociali nella direzione della promozione anziché del controllo sociale.
Tute queste misure sono immediatamente realizzabili -sul piano finanziario come su quello tecnico, economico e morale-, a condizione che se ne colga l'urgenza e la necessità. E che se ne misuri a pieno la stretta interdipendenza. Noi chiamiamo dunque, su scala europea, all'apertura immediata del dibattito più largo possibile sugli orientamenti qui proposti.
I firmatari: Christine Afriat, Aline e Jacques Archimbaud, Guy Aznar, Jean-Michel Belergey, Annie Berger, Jean-Yves Boulin, Yoland Bresson, Alain Caillé, Annie Dreuille, Bernard Eme, Chantal Euzéby, Xavier Gaullier, François Gèze, Jean-marc Ferry, André Gorz, Ahmet Insel, Serge Latouche, Jean-lousi Laville, Maximiliene Levet, Alain Lipietz, Alain Manac'h, Jean-Paul Maéchal, Guy Michel, Daniel Mothé, Antonio Negri, Maurice Pagat, Jacques Rigaudiat, René Passet, Bernard Perret, Valérie Peugeot, Jacques Robin, Guy Roustang, Roger Sue, Patrick Viveret.