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In presa diretta con la precarietà
«May Day, May Day», scandisce da un camion un giovane, mentre una
musica dal sapore latino dà il ritmo a un lungo e composito serpentone
di giovani. Sono lavoratori di McDonald's, dei call center, pony express,
free-lance dell'industria culturale, i forzati
della fragile e traballante new economy che da due anni a questa parte
festeggiano il primo maggio a Milano, sottolineando che la precarietà
nei rapporti di lavoro è l'unica realtà loro concessa da quando sono
entrati nel mercato del lavoro.
Per loro, lo statuto dei lavoratori è una specie di miraggio, perché
di garanzie ne hanno ben poche e quelle poche
previste nei diversi contratti variano a seconda se riguarda una consulenza
o una collaborazione continuativa, oppure un «lavoro a chiamata» o
una «formazione lavoro».
Nata inizialmente come iniziativa dei (pochi) lavoratori sindacalizzati
della McDonald's in giro per il mondo e spesso in polemica con i sindacati
tradizionali, la May Day Parade è diventata,
almeno in Italia, uno dei tanti appuntamenti degli «atipici» per denunciare
la loro (pessima) condizione lavorativa. Ma quella ricordata sopra
è anche una delle scene del video Sciopero 002, realizzato dal collettivo
romano «Riot generation video» che,
curato da Alessandra Ferraro, Pako Graziani e Diego Zerbini, esce
allegato al volume collettivo Gli insubordinati (manifestolibri, pp.
118, € 7,50, e con il video, che usa anche materiali filmati del gruppo
studentesco Sapienza Pirata, € 15) che raccoglie testi e interviste
sul lavoro precario.
Il video è prodotto da un collettivo di attivisti romani formatosi
all'interno del centro sociale Forte Prenestino e parte dai due grandi
scioperi generali in difesa dell'articolo 18 della scorsa primavera,
puntando a dare la parola ai precari, cioè a quelle figure lavorative
che non rientrano in quella figura idealtipica
- l'operaio della grande impresa assunto a tempo indeterminato - alla
base dello statuto dei lavoratori. Così in una intermittente carrellata
scorrono interviste ai giovani meridionali trasferitesi in Lombardia
per lavorare a tempo determinato in una delle piccole o medie fabbriche
che punteggiano la Brianza, ma anche collaboratori delle cooperative
sociali che forniscono quei servizi non previsti dall'incompiuto welfare
state italiano.
C'è anche la precaria della scuola, che punta il dito contro la strisciante
privatizzazione della scuola pubblica, che non significa solo bonus
alle scuole private, ma anche una surperfetazione dell'appalto e l'istituzionalizzazione
di una forza-lavoro precaria che trasforma le scuole in una sorta
di azienda che agglutina attorno a sé un bacino di forza-lavoro che
entra in produzione quando la domanda lo richiede. Insomma, il lavoro
precario è plurale. E intorno a questo ossimoro
ruota il saggio presente nel volume Gli insubordinati del magistrato
del lavoro Giuseppe Bronzini, che passa in rassegna la legislazione
italiana e europea per segnalare la crisi del diritto del lavoro di
fronte alla crescente diversificazione dei rapporti contrattuali e
che cerca di dare una risposta alla domanda se è preferibile o meno
abbandonare il terreno della tutela collettiva della forza-lavoro
in favore di una affermazione di diritti individuali e quindi inalienabili
del lavoratore.
Un quesito tutto politico a cui Bronzini risponde facendo leva sulle
riflessioni dello studioso francese Alain Supiot o sulle analisi di
Sergio Bologna sul lavoro autonomo. Per il magistrato romano, le trasformazioni
produttive hanno determinato una disseminazione del processo lavorativo
nel territorio e una proliferazione
di figure lavorative: è inutile, afferma Bronzini, inseguire una ricomposizione
sociale della forza-lavoro attraverso lo strumento giuridico; semmai
è meglio puntare a una carta dei diritti individuali che riconoscano
il diritto alla malattia pagata, alle ferie, alla maternità (o paternità),
alla formazione e a un reddito di cittadinanza.
Va detto che sia il video che i testi presenti nel volume provengono
da studiosi e attivisti di quel variegato arcipelago che viene comunemente
chiamato movimento contro la globalizzazione neoliberista, all'interno
del quale il conflitto tra capitale e forza-lavoro è stato spesso
sullo sfondo e quasi mai al centro delle mobilitazioni
che lo hanno caratterizzato. Nelle analisi sulla globalizzazione neoliberista
è stata infatti spesso data per scontata la sua centralità, senza
che questo però si traducesse in parole d'ordine chiare ed esemplificative
come lo sono state quelle contro i «signori della terra». Una difficoltà
ampiamente registrata nei saggi di Sandro Mezzadra sul lavoro dei
migranti, di Rafael di Maio e Andrea Tiddi sull'irruzione nella scena
metropolitana dei precari e che costituisce il filo conduttore delle
interviste a lavoratori e lavoratrici che rappresentano la parte centrale
del libro.
La registrazione di una sostanziale incapacità di far fronte ai mutati
scenari del processo produttivo capitalistico è comunque il primo
passo per evitare l'afonia politica in presenza di conflitti come
quello in difesa dello statuto dei lavoratori e della crisi della
Fiat. Ma per non cadere nell'afonia politica vanno evitate le facili
scorciatoie, come possono risultare ad esempio la contrapposizione
tra garantiti e non garantiti, tra lavoratori industriali e quelli
immateriali. Allo stesso tempo sarebbe illusorio considerare la precarizzazione
come il semplice risultato di un piano del capitale che ha puntato
a spezzare la conflittualità operaia che, come dimostrerebbero le
recenti vicende della Fiat, è un'araba fenice che risorge sempre sulle
proprie ceneri.
E tuttavia questi rischi di incarnare la precarietà, e di conseguenza
la possibilità di una contestazione di massa al regime di accumulazione
capitalista, in alcune figure lavorative o che, all'opposto, si possa
quadrare il cerchio una volta che gli operai ritornino a manifestare
sono ben presenti nella discussione pubblica. La precarietà non è
infatti prerogativa dei lavoratori di McDonald's né della forza-lavoro
specializzata della new economy. Riguarda anche molti operai dell'industria,
perché è lo strumento giuridico attraverso il quale governare il mercato
del lavoro e che consente la costituzione
vere e proprie «zone rosse» all'interno del processo lavorativo a
protezione del comando di impresa.
Un libro come Gli insubordinati è quindi da considerare come un tassello
del rompicapo rappresentato dalla nuova composizione della forza-lavoro
dove la molteplicità delle soggettività espresse dai precari è il
principio di realtà da cui partire. Un principio di realtà dove le
ambivalenze di una condizione lavorativa, le difficoltà nel costruire
vertenze per rivendicare diritti sono
i materiali incandescenti di una inchiesta ancora tutta da dispiegare
come metodo di costruzione dell'iniziativa politica per la modifica
dei rapporti sociali di produzione. Un'inchiesta quindi dove la relazione
tra intervistatore e intervistato è da porre su un piano di parità,
visto che chi ha in mano il registratore o la videocamera è spesso
un precario tanto quanto l'intervistato.
Thanx to Manfo
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