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20-12-2002

  In presa diretta con la precarietà

«May Day, May Day», scandisce da un camion un giovane, mentre una musica dal sapore latino dà il ritmo a un lungo e composito serpentone di giovani. Sono lavoratori di McDonald's, dei call center, pony express, free-lance dell'industria culturale, i forzati della fragile e traballante new economy che da due anni a questa parte festeggiano il primo maggio a Milano, sottolineando che la precarietà nei rapporti di lavoro è l'unica realtà loro concessa da quando sono entrati nel mercato del lavoro.

Per loro, lo statuto dei lavoratori è una specie di miraggio, perché di garanzie ne hanno ben poche e quelle poche previste nei diversi contratti variano a seconda se riguarda una consulenza o una collaborazione continuativa, oppure un «lavoro a chiamata» o una «formazione lavoro».

Nata inizialmente come iniziativa dei (pochi) lavoratori sindacalizzati della McDonald's in giro per il mondo e spesso in polemica con i sindacati tradizionali, la May Day Parade è diventata, almeno in Italia, uno dei tanti appuntamenti degli «atipici» per denunciare la loro (pessima) condizione lavorativa. Ma quella ricordata sopra è anche una delle scene del video Sciopero 002, realizzato dal collettivo romano «Riot generation video» che, curato da Alessandra Ferraro, Pako Graziani e Diego Zerbini, esce allegato al volume collettivo Gli insubordinati (manifestolibri, pp. 118, € 7,50, e con il video, che usa anche materiali filmati del gruppo studentesco Sapienza Pirata, € 15) che raccoglie testi e interviste sul lavoro precario.

Il video è prodotto da un collettivo di attivisti romani formatosi all'interno del centro sociale Forte Prenestino e parte dai due grandi scioperi generali in difesa dell'articolo 18 della scorsa primavera, puntando a dare la parola ai precari, cioè a quelle figure lavorative che non rientrano in quella figura idealtipica - l'operaio della grande impresa assunto a tempo indeterminato - alla base dello statuto dei lavoratori. Così in una intermittente carrellata scorrono interviste ai giovani meridionali trasferitesi in Lombardia per lavorare a tempo determinato in una delle piccole o medie fabbriche che punteggiano la Brianza, ma anche collaboratori delle cooperative sociali che forniscono quei servizi non previsti dall'incompiuto welfare state italiano.

C'è anche la precaria della scuola, che punta il dito contro la strisciante privatizzazione della scuola pubblica, che non significa solo bonus alle scuole private, ma anche una surperfetazione dell'appalto e l'istituzionalizzazione di una forza-lavoro precaria che trasforma le scuole in una sorta di azienda che agglutina attorno a sé un bacino di forza-lavoro che entra in produzione quando la domanda lo richiede. Insomma, il lavoro precario è plurale. E intorno a questo ossimoro ruota il saggio presente nel volume Gli insubordinati del magistrato del lavoro Giuseppe Bronzini, che passa in rassegna la legislazione italiana e europea per segnalare la crisi del diritto del lavoro di fronte alla crescente diversificazione dei rapporti contrattuali e che cerca di dare una risposta alla domanda se è preferibile o meno abbandonare il terreno della tutela collettiva della forza-lavoro in favore di una affermazione di diritti individuali e quindi inalienabili del lavoratore.

Un quesito tutto politico a cui Bronzini risponde facendo leva sulle riflessioni dello studioso francese Alain Supiot o sulle analisi di Sergio Bologna sul lavoro autonomo. Per il magistrato romano, le trasformazioni produttive hanno determinato una disseminazione del processo lavorativo nel territorio e una proliferazione di figure lavorative: è inutile, afferma Bronzini, inseguire una ricomposizione sociale della forza-lavoro attraverso lo strumento giuridico; semmai è meglio puntare a una carta dei diritti individuali che riconoscano il diritto alla malattia pagata, alle ferie, alla maternità (o paternità), alla formazione e a un reddito di cittadinanza.

Va detto che sia il video che i testi presenti nel volume provengono da studiosi e attivisti di quel variegato arcipelago che viene comunemente chiamato movimento contro la globalizzazione neoliberista, all'interno del quale il conflitto tra capitale e forza-lavoro è stato spesso sullo sfondo e quasi mai al centro delle mobilitazioni che lo hanno caratterizzato. Nelle analisi sulla globalizzazione neoliberista è stata infatti spesso data per scontata la sua centralità, senza che questo però si traducesse in parole d'ordine chiare ed esemplificative come lo sono state quelle contro i «signori della terra». Una difficoltà ampiamente registrata nei saggi di Sandro Mezzadra sul lavoro dei migranti, di Rafael di Maio e Andrea Tiddi sull'irruzione nella scena metropolitana dei precari e che costituisce il filo conduttore delle interviste a lavoratori e lavoratrici che rappresentano la parte centrale del libro.

La registrazione di una sostanziale incapacità di far fronte ai mutati scenari del processo produttivo capitalistico è comunque il primo passo per evitare l'afonia politica in presenza di conflitti come quello in difesa dello statuto dei lavoratori e della crisi della Fiat. Ma per non cadere nell'afonia politica vanno evitate le facili scorciatoie, come possono risultare ad esempio la contrapposizione tra garantiti e non garantiti, tra lavoratori industriali e quelli immateriali. Allo stesso tempo sarebbe illusorio considerare la precarizzazione come il semplice risultato di un piano del capitale che ha puntato a spezzare la conflittualità operaia che, come dimostrerebbero le recenti vicende della Fiat, è un'araba fenice che risorge sempre sulle proprie ceneri.

E tuttavia questi rischi di incarnare la precarietà, e di conseguenza la possibilità di una contestazione di massa al regime di accumulazione capitalista, in alcune figure lavorative o che, all'opposto, si possa quadrare il cerchio una volta che gli operai ritornino a manifestare sono ben presenti nella discussione pubblica. La precarietà non è infatti prerogativa dei lavoratori di McDonald's né della forza-lavoro specializzata della new economy. Riguarda anche molti operai dell'industria, perché è lo strumento giuridico attraverso il quale governare il mercato del lavoro e che consente la costituzione vere e proprie «zone rosse» all'interno del processo lavorativo a protezione del comando di impresa.

Un libro come Gli insubordinati è quindi da considerare come un tassello del rompicapo rappresentato dalla nuova composizione della forza-lavoro dove la molteplicità delle soggettività espresse dai precari è il principio di realtà da cui partire. Un principio di realtà dove le ambivalenze di una condizione lavorativa, le difficoltà nel costruire vertenze per rivendicare diritti sono i materiali incandescenti di una inchiesta ancora tutta da dispiegare come metodo di costruzione dell'iniziativa politica per la modifica dei rapporti sociali di produzione. Un'inchiesta quindi dove la relazione tra intervistatore e intervistato è da porre su un piano di parità, visto che chi ha in mano il registratore o la videocamera è spesso un precario tanto quanto l'intervistato.

Thanx to Manfo