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La crisi
del McConsumismo
La McDonald's ha il mal di pancia. E non perché i suoi clienti divorano
troppi BigMac, ma perché ne mangiano pochi.
I segni della crisi sono ovunque. Il corso delle azioni è crollato
da 50 a 17 dollari in soli due anni. I profitti, pur pingui, sono
in calo rapido.
Le avvisaglie si avvertirono nel 1997 quando il nuovo menu Arch DeLuxe
fu un tonfo clamoroso malgrado una pubblicità martellante. Fino a
oggi, per compensare le vendite stagnanti la ditta del Doppio arco
moltiplicava le aperture di nuovi locali. Il massimo fu toccato nel
1996 con 2.000 McDonald's aperti (in proprietà o in franchising).
Quest'anno ne sono stati inaugurati 1.300, e l'anno prossimo saranno
solo 600. E quest'ottobre, la multinazionale di Chicago ha annunciato
la chiusura di 175 locali in 10 nazioni e l'uscita totale da quattro
paesi (oggi la regina degli hamburger è presente in più di 120 paesi
con più di 30.000 locali - di cui 13.000 negli Stati uniti). E ha
annunciato il licenziamento di 600 dipendenti: una goccia nel mare
dei 400.000 addetti che lavorano nelle
friggitorie che possiede in tutto il mondo, e del milione e passa
di addetti, se si includono i locali in franchising.
Il fatto è che, come le altre grandi catene
di fast food (Burger King, Wendy's, Taco Bell, Pizza Hut),
McDonald's - che controlla il 40% del mercato degli hamburgers -perde
clienti negli Stati uniti, la sua roccaforte. Per contrastare la tendenza
negativa, la corporation delle patatine fritte ha tentato di tutto.
Ha comprato altre catene di fast-food e di sandwiches (non di hamburger)
come Chipotle, Donato's Pizza, Boston Market e l'inglese Pret A Manger.
Ha innescato una sanguinosa guerra dei prezzi contro le sue concorrenti,
in particolare Burger King, lanciando nove prodotti, ognuno al prezzo
di un dollaro. La Burger King ha risposto con 11 piatti a 99 centesimi,
ma ha perso lo stesso clienti. E la guerra dei prezzi sta mandando
in rovina le franchise perché i margini di profitto si riducono sempre
più.
Pensando che i suoi clienti siano ormai stufi del BigMac, di Filet-O-Fish,
McChicken, la McDonald's ha poi cercato di diversificarsi paese per
paese. In Francia vende hamburgers al rocquefort, in Italia insalate
capresi e di mare, in Giappone hamburgers con uova fritte, in Thailandia
Samurai Pork Burgers, in India sandwichs vegetariani e BigMac al montone,
Maharaja Mac, e al pollo, Chicken Maharaja
Mac, per evitare il bue (tabù per gli hindu) e il maiale (tabù
per i musulmani). Nei paesi arabi, come in Egitto, ha lanciato il
McFalafel (usando come testimonial della campagna promozionale il
cantante Shaaban Abdel Rahim che era divenuto famoso per la canzone
Io odio Israele, infuriando così la comunità ebraica americana: Oipaz
se ne è occupato il 5 febbraio di quest'anno). Ma a nulla è servito
questo attivismo.
A settembre il New York Times aveva chiamato al capezzale della McDonald's
specialisti della ristorazione di massa.
Ma, come in ogni consulto che si rispetti, le opinioni degli eminenti
luminari divergevano. Per uno, la ditta del Doppio arco deve migliorare
la qualità del suo prodotto guida, l'hamburger, e dedicare meno energia
a rinnovare il menu. Per un altro il prodotto va benissimo, va solo
pubblicizzato come cibo salutare. Per un terzo è la diversificazione
che va perseguita. Insomma, nessuno sa cosa pesci pigliare. Ma da
che dipende questo disamoramento degli americani per il loro simbolo
nazionale? Come sempre non c'è una ragione unica, ma un insieme di
fattori. Il primo è l'immagine della casa, molto meno smagliante oggi
di dieci anni fa.
La McDonald's spende ogni anno 2 miliardi
di dollari in pubblicità (l'ultimo suo testimonial è il miliardario
edilizio Donald Trump), e una cifra segreta ma assai rilevante in
cause legali contro i suoi detrattori. Non dimentichiamo che uno dei
leaders della protesta no global, José Bové, è diventato famoso attaccando
un McDonald's in Francia, e solo pochi giorni fa è stato bruciato
a Grenoble un altro locale in costruzione. La contestazione iniziò
la famosa causa per diffamazione (Libel in inglese) intentata nel
1990 dalla McDonald's in Inghilterra contro due militanti anarchici
ed ecologisti. Il processo, denominato McLibel, è stato il più lungo
e il più costoso della storia inglese, ha dato spunto a una mini-serie
Tv, il relativo sito Internet registrava più di 1,5 milioni di accessi
al mese, e l'editorialista ambientale del Guardian vi ha dedicato
un libro, McLibel, appunto (MacMillan, 1997).
Tutto cominciò con un pamphlet. What's wrong with McDonald's?, «Cosa
non va in McDonald's?» scritto da Helen Steel
(31 anni, ex giardiniera e barista) e Dave
Morris, (42 anni, ex postino), due militanti autodefinentisi
anarchici di London Greenpeace (niente a che vedere con la grande
associazione verde internazionale Greenpeace). Per il processo, la
McDonald's assunse il più agguerrito e più costoso avvocato civilista
inglese, Richard Rampton, che sembrava uscito da un romanzo di Grisham.
E nel giugno 1997 il giudice inglese diede ragione al gigante dell'hamburger.
Questa sentenza favorevole si rivelò però un boomerang perché indignò
i no global di tutto il mondo (chi vuole aggiornarsi sulle campagne
in corso può consultare il sito www.mcspotlight.org).
Un altro fattore è la crescente sensibilità salutista e ambientalista.
Le multinazionali del fast-food americane rischiano di fare la fine
dell'industria del tabacco ed essere costrette a pagare miglia di
miliardi di vecchie lire per danni alla salute dei fumatori. Molti
americani hanno infatti intentato cause ai vari McDonald's, Burger
King, Taco Bell, Pizza Hut accusandoli di aver taciuto sugli effetti
ingrassanti del loro cibo e di essere perciò responsabili dell'obesità
dilagante negli Stati uniti: la settimana scorsa una causa
è stata intentata da vari bambini newyorkesi, in nome dei milioni
di loro coetanei obesi. (Altro bersaglio delle cause legali sono i
produttori di merendine responsabili dell'obesità infantile. È verso
i bambini infatti che le catene di fast food hanno compiuto i maggiori
sforzi. Basti pensare che negli Stati uniti hanno aperto 70.000 spazi
giochi nei propri ristoranti, per attirare le famiglie con bambini.
E si sa che i sapori gustati da piccoli destano nostalgia per tutta
la vita a venire).
Ogni anno l'obesità provoca 300.000 morti ed esige una spesa sanitaria
di 117 miliardi di dollari, 230.000 miliardi di vecchie lire. Ma mentre
negli Usa esistono solo quattro grandi produttori di sigarette, vi
sono migliaia di catene di fast-food e che vendono 320.000 prodotti
differenti. In più, ogni fumatore fuma solo una marca di sigarette,
mentre una persona va di solito in diversi ristoranti fast-food. Perciò
è molto difficile provare che una singola catena sia responsabile
di una singola obesità. Quindi i salutisti americani hanno adottato
un'altra tattica: accusano produttori e fast-food di mentire nella
loro pubblicità. È noto per esempio che le patatine fritte di McDonalds
erano così buone perché erano cotte nel grasso
di bue. Dopo le proteste dei vegetariani, la compagnia ha smesso
di usare grasso di bue. Però, nonostante la sua pubblicità dicesse
il contrario, continuava a usare grassi di origine animale. Così ha
accettato di pagare 10 milioni di dollari come donazioni a gruppi
vegetariani.
Le preoccupazioni salutiste - scriveva il Wall Street Journal - fanno
sì che la fascia di età tra i 18 ai 34 anni (la più assidua frequentatrice
di fast food), si stia adesso spostando sui quick casuals, catene
di panini di alta qualità , come Panera Bread, Corner Bakery, Pick
Up Stix, Fazoli's, Chipotle Mexican Grill
(quest'ultima controllata da McDonald's) che ormai attrae il 37% di
quel gruppo di consumatori, disposti a spendere tra i 4 e i 7 dollari
per un panino invece dei 3-4 dollari che costa un pasto da un fast-food.
Per capire lo smarrimento salutista di cui è preda McDonald's, basti
pensare che il mese scorso la sua filiale francese ha pubblicato sul
periodico femminile Femme Actuelle una pagina di pubblicità titolata
«McDonald's sta causando obesità ai bambini?», per rispondere a statistiche
che mostrano che in 10 anni i bambini obesi sono raddoppiati in Francia
passando dall'8 al 16%. In questa pagina, la nutrizionista indipendente
Agnes Mignonac scriveva che finché un bambino faceva esercizio fisico
e mangiava in modo sano, andare da McDonald's una sola volta alla
settimana non sarebbe stato dannoso (implicando che andarci più volte
è nocivo).
Questa pubblicità ha sì scatenato i fulmini della casa madre americana
contro la filiale europea, ma dimostra quanto questa corporation sia
ormai nel mirino di tutti i dietologi. Tutti i fattori su elencati
contribuiscono alle difficoltà di McDonald's, però c'è qualcosa di
più profondo nella fulmineità della traiettoria di questa multinazionale
che sembra scandire da sempre i nostri paesaggi
urbani, e invece risale solo a metà degli anni `50. Fu nel
1954 che il commerciante Ray Kroc ebbe l'idea di «clonare» (cfr. Walter
Benjamin e «il problema della riproducibilità tecnica dell'opera d'arte»)
il chiosco dei due fratelli McDonald's a San Bernardino in California.
Il primo clone fu aperto nel 1955 a Des Plaines (nella periferia di
Chicago), Illinois. La società fu costituita nel 1959 e da allora
- come è giusto - la sede centrale della multinazionale dell'hamburger
è rimasta a Chicago, la città che era diventata grande con i mattatoi.
Nel 1965 Mc Donald's fu quotata a Wall Street. Nel 1968 Jim Delligatti,
che gestiva una dozzina di franchising della McDonald's a Pittsburgh,
inventò il BigMac. Nel 1973 un altro operatore in franchising creò
il McMuffin all'uovo e nel 1979 fu
lanciato l'Happy Meal per bambini (sono queste le date epocali che
scandiscono la storia moderna). Nel 1984 un locale fu lanciato in
Kuwait e infine il primo locale italiano aprì nel 1985 (sì, così tardi:
oggi sono 250 i McDonald's nel nostro paese). Tra il 1959 e il 1990
l'ascesa della McDonald's è stata così fulminea che, secondo un sondaggio
degli anni `90, il suo simbolo - il doppio arco - è il secondo più
riconosciuto al mondo (il primo posto spetta ai cinque anelli olimpici),
superando persino la croce del cristianesimo.
Il libro The Mcdonaldization of society di George Ritzer sancì questo
successo, facendo della multinazionale dell'hamburger il modello della
civiltà americana (il libro fu tradotto in Italia nel 1997 da Il Mulino
col titolo Il mondo alla McDonald's). McDonald's sta al cibo come
il fordismo sta all'automobile. McDonald's realizza l'egualitarismo
taylorista, reso possibile dalla standardizzazione portata all'estremo.
C'è chi non sopporta McDonald's perché è identico ovunque. Ma è proprio
la sua ubiquità, il suo essere sé medesimo
a Johannesburg come a Rio de Janeiro, che ne fa il modello universale
di «standardizzazione del gusto». McDonald's piace proprio perché
è indistinguibile, infinitamente replicantesi: nell'ambito dell'alimentazione,
ai suoi hamburgers potrebbero applicarsi tranquillamente le straordinarie
pagine che Karl Marx scriveva sulla moneta come equivalente universale
nell'economia generale. Non per nulla, di recente gli economisti hanno
cercato di determinare il potere d'acquisto nei diversi paesi del
mondo comparando i differenti prezzi del BigMac: il BigMac è un equivalente
generale.
In questo senso, i tentativi di McDonald's di camuffarsi, a seconda
dei paesi nel McFalafel o nel Maharaja Mc, sono destinati al fallimento
perché contraddicono l'idea stessa che è stata alla base della fulminea
espansione di McDonald's nel mondo. Anche se la casa di Oak Brooks
cerca di giocare queste specialità locali nello stesso modo in cui
l'industria discografica mondiale sfrutta le musiche etniche (la musica
celtica per esempio; che è l'identità resa fruibile fuori dal proprio
contesto identitario). Il problema è che la fase attuale è caratterizzata
dalla crisi del fordismo e del taylorismo, non solo perché le fabbriche
non usano più quei modelli organizzativi, ma perché gli individui
non trovano più appetibili quei modelli
di consumo sociale. Ecco perché McDonald's si trova davanti a un compito
impossibile, quella d'inventare l'hamburger post-moderno
Thanx to Manfo
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