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  Intervista a Tony Royle

Royle racconta i principali risultati della sua lunga esperienza di studio

McDonald’s è una delle multinazionali più diffuse nel mondo: alla fine del 2000 operavano, sparsi in 116 diversi paesi, più di 25 mila negozi specializzati nella ristorazione veloce. Intorno alla metà degli anni ottanta la McDonald’s International era diventata la prima catena di fast food in Giappone, Germania, Regno Unito, Canada e Australia. Nel decennio successivo, più della metà dei ristoranti della company erano al di fuori degli Stati Uniti e incidevano in maniera preponderante sui profitti dell’intero gruppo.

Nonostante quest’enorme diffusione, la multinazionale è rimasta sorprendentemente fedele al sistema originario introdotto dai fratelli McDonald’s e perfezionato da Ray Kroc. Il colosso dell’hamburger ha fatto della standardizzazione una virtù, non solo per i prodotti venduti, ma anche per le pratiche manageriali di gestione del personale. Per più di 50 anni McDonald’s ha sostenuto una cultura antisindacale, incentrata su un «management psicologico» (impostato sul rapporto personale) e sul reclutamento di personale molto giovane, per lo più alla prima esperienza di lavoro, facilmente ricattabile e di solito poco interessato a mantenere a lungo la propria occupazione.

Fin da quando è nata, McDonald’s ha sempre avuto un atteggiamento manageriale ostile nei confronti dei sindacati. Qual è stato l’impatto di questa cultura con i sistemi di regolazione europei?
Quando apparve per la prima volta in Europa negli anni settanta, McDonald’s cercò di mettere in atto la stessa cultura antisindacale già sperimentata negli Usa: ciò non poté avvenire in maniera lineare e, pertanto, la multinazionale dovette intraprendere negli anni una serie di adattamenti ai sistemi nazionali europei, in particolare in quei paesi in cui i sindacati sono storicamente molto forti. Quando aprì il suo primo ristorante in Germania nel ’71, il conflitto con le organizzazioni dei lavoratori ebbe ripercussioni notevoli sull’opinione pubblica. Per evitare gli effetti della pubblicità negativa, McDonald’s fu costretta a cambiare politica e a sedersi al tavolo delle trattative con la Ngg, il sindacato tedesco della ristorazione.

I rappresentanti di quella federazione di categoria capirono perfettamente, sin da quella prima occasione di confronto, che si trattava soltanto di una decisione di comodo, per non rovinare l’immagine dell’azienda, e che non avrebbe rappresentato alcun cambiamento sostanziale nell’atteggiamento di chiusura della multinazionale. Nell’aprile 2002 il contratto collettivo della ristorazione tedesca, scaduto pochi mesi prima, non è stato rinnovato dalla Ngg, ma da un sindacato giallo molto vicino alla multinazionale americana (Ganymed, con appena 1.500 iscritti, ndr).

Del resto, anche in Svezia, dove pure la politica della direzione centrale è formalmente orientata a mantenere buoni rapporti con il sindacato, l’atteggiamento ostile nei confronti dei lavoratori persiste, perché la situazione nei ristoranti è affidata a manager che, soprattutto quando si tratta di franchisees, fanno di tutto per mantenere il controllo sulla manodopera.


L’atteggiamento della multinazionale, dunque, si traduce in un basso tasso di sindacalizzazione anche in paesi come la Svezia, in cui il numero di iscritti alle confederazioni è in media molto alto.
Assolutamente sì. Persino nei paesi in cui le organizzazioni dei lavoratori hanno una presenza stabile e forte, il tasso di sindacalizzazione presso McDonald’s è molto inferiore non soltanto alla media nazionale, ma anche allo stesso settore hotel e ristoranti e spesso al comparto fast food. Questo dipende in larga misura dall’atteggiamento ostile dell’azienda, che cerca di evitare in tutti i modi interferenze da parte del sindacato, ma anche dalle caratteristiche della forza lavoro impiegata: si tratta di persone molto giovani, con poca esperienza e con un atteggiamento strumentale nei confronti di un lavoro che sanno non durerà a lungo.

Risultato: anche nei paesi scandinavi, dove si registrano i tassi di sindacalizzazione più alti d’Europa (tra l’80 e il 90 per cento), abbiamo da McDonald’s scarsi tassi di sindacalizzazione. Al contrario, è l’Italia, assieme all’Austria, a vantare le percentuali d’adesione più alte, entrambi intorno al 20 per cento.

Come spiega questa particolarità italiana?
Le ragioni sono più d’una. Credo che in Italia i lavoratori siano in genere più politicizzati, sanno più di altri di avere il diritto di scioperare e di mobilitarsi per migliorare le proprie condizioni di lavoro. Penso che questa sia una caratteristica italiana e, in parte, anche francese. Questo spiega, per esempio, perché Francia e Italia sono gli unici due paesi in cui recentemente ci sono stati scioperi da McDonald’s. Tuttavia, questa non è l’unica spiegazione. In Italia l’età media dei lavoratori è più alta che nel resto d’Europa, probabilmente a causa del tasso di disoccupazione elevato, soprattutto nel Mezzogiorno.

Il turn over di questo tipo di lavoratori è più basso e, di conseguenza, la possibilità d’iscriversi al sindacato è maggiore. Va ricordato, inoltre, che quando McDonald’s si è insediata in Italia, lo ha fatto per lo più rilevando fast food che operavano già da diverso tempo sul territorio e che in una certa misura erano già sindacalizzati. Burgy, solo per fare un esempio, ha una cultura diversa da quella di McDonald’s, meno ideologicamente contraria al sindacato.

Ci sono altre spiegazioni dietro a questi alti tassi di sindacalizzazione presenti in Italia?
Beh, la legislazione sindacale italiana rende sicuramente più facile la possibilità che i lavoratori si organizzino in rappresentanze a livello di unità produttiva. Ovunque in Europa, laddove i lavoratori sono in grado d’istituire rappresentanze in McDonald’s, il tasso di sindacalizzazione aumenta clamorosamente, in alcuni casi addirittura del 50 per cento. Di fatto, tutti i 2 mila lavoratori iscritti in Germania sono occupati in ristoranti in cui esiste un work council.

È per questo motivo che McDonald’s tenta in ogni modo d’impedire la costituzione di rappresentanze di base. In Germania è capitato addirittura che sia stato chiuso un intero ristorante perché i lavoratori erano riusciti a organizzare la propria rappresentanza sindacale.

Il tasso di sindacalizzazione non è tuttavia sufficiente, di per sé, a spiegare la forza relativa dei diversi sindacati nazionali da McDonald’s.
Assolutamente no. In alcuni paesi il sindacato è molto attivo e riesce ad avere più iscritti che altrove, ma non è affatto detto che sia in grado di raggiungere buoni accordi collettivi. In Italia, possiamo registrare la percentuale maggiore di iscritti al sindacato in McDonald’s, ma il contratto collettivo di settore, che pure ha diversi elementi positivi, non è certo il migliore rispetto agli altri paesi. La Norvegia ha un tasso di sindacalizzazione molto basso, soprattutto se comparato al tasso medio nazionale, ma il contratto è molto buono e garantisce paghe piuttosto alte.

Quali sono, dal punto di vista degli stipendi, i paesi messi peggio?
Sono gli Usa, il Regno Unito e l’Irlanda ad avere le paghe più basse. In questi paesi il tasso di sindacalizzazione è prossimo allo zero e non esistono contratti collettivi di settore. Ma livelli salariali molto bassi riguardano anche la Germania e l’Austria, che hanno tassi di sindacalizzazione relativamente maggiori. Ciò è dovuto in larga misura alle caratteristiche della forza lavoro in questi paesi: in Germania e in Austria lavorano da McDonald’s soprattutto gli immigrati dai paesi dell’Est e questi sono spesso costretti ad accettare paghe più basse rispetto agli altri lavoratori.

Il suo ultimo saggio, non ancora tradotto in italiano, si basa su interviste in profondità ai lavoratori e al management di McDonald’s in Germania e nel Regno Unito. Leggendo brani tratti dalle interviste condotte sui manager impressiona il fatto che, nonostante le diversità culturali e i differenti sistemi regolativi presenti nei due paesi, essi utilizzino esattamente le stesse parole per descrivere il sindacato.
Sì, è vero, è piuttosto impressionante. È come se McDonald’s avesse loro iniettato il ketchup nelle vene. Il condizionamento ideologico e culturale è fortissimo. Per capire le strategie della company basta pensare a ciò che è accaduto in un paese come il Giappone, che ha abitudini alimentari e strategie manageriali assolutamente differenti da quelle che McDonald’s tenta d’esportare nel mondo e dove all’inizio i tentativi d’insediamento della multinazionale incontrarono notevoli resistenze.

Il primo ristorante giapponese della multinazionale venne aperto nel ’71, con una partecipazione locale del 50 per cento. Fu proprio in quel periodo che, durante una conferenza universitaria, Den Fujita, che possedeva la quota nazionale dell’attività, arrivò ad affermare che i giapponesi erano bassi e avevano la pelle gialla perché per duemila anni non avevano mangiato altro che pesce e riso. Disse in quell’occasione – e non credo scherzasse – che se avessero mangiato hamburger e patatine nei ristoranti McDonald’s sarebbero diventati più alti, biondi e con la pelle bianca. Non so se nel frattempo i giapponesi sono diventati più alti, ma so per certo che McDonald’s è cresciuto molto in quel paese e oggi vi si contano più di 2.500 ristoranti, con un giro d’affari inferiore soltanto agli Usa.



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