«"Abbiamo trovato a casa di Massari e Rosas materiale che è indubbiamente legato all’attività terroristica in Val di Susa" spiega Maurizio Laudi, illustrando l’inchiesta avviata mesi fa dai carabinieri del Ros».

(La Repubblica
8/3/98)

C’è squatter e "squatter"

Nei giorni che seguono gli arresti di Edo, Silvano e Soledad, l’attenzione di tutti viene dirottata forzatamente dalla situazione valsusina a quella torinese. Sulla ribalta è stato infatti lanciato un nuovo personaggio: "lo squatter". Tanto che, progressivamente, non sarà più necessario parlare di "Lupi Grigi". Nel giro di qualche settimana, in sordina, i giornalisti possono addirittura ridimensionare la posizione dei tre arrestati: se inizialmente avevano inchiodato "graniticamente" i tre al ruolo di "Lupi Grigi", a poco a poco cominceranno a descriverli come fiancheggiatori della supposta banda di sabotatori e infine si troveranno costretti a dire che, tutt’al più, potrebbe trattarsi di emuli.

I padroni dell’Alta velocità, in tal modo, ottengono una importante vittoria: il loro progetto ecoterrorista non è più l’argomento principale attorno al quale ruotano le altre questioni, ma passa in secondo piano.

Tuttavia per gli altri protagonisti dell’operazione repressiva si creano dei problemi accessori, non sempre facilmente gestibili. Problemi generati anche dall’imperizia dei carabinieri e della Digos torinesi, che infarciscono tutta l’operazione con clamorosi errori. Colti di sorpresa per la casuale scoperta da parte di uno degli inquisiti di una microspia posta all’interno della propria vettura, le forze dell’ordine si vedono costrette ad agire con rapidità, quindi ad improvvisare. Il loro primo grossolano errore è quello di arrestare Edoardo Massari e Soledad Rosas all’interno di una casa occupata. Ma, quel che è peggio, invece di limitarsi all’arresto dei tre, danno il via ad una serie di vandaliche perquisizioni ed infine tentano di chiudere tre spazi occupati. Per almeno una settimana, i tutori dell’ordine appesantiscono oltre misura il clima torinese. Sembra quasi che cerchino con cura di provocare, per misurarla, la reazione degli anarchici e dell’ambiente delle occupazioni, seminando scientemente rabbia e disordine.

  Ed ecco che, in modo più o meno spontaneo, cominciano a manifestarsi in città alcune pratiche che contengono potenzialmente il germe dell’incontrollabilità. Le vetrine spaccate nelle lussuose vie del centro cittadino di per sé non costituiscono gran cosa, ma riescono a spezzare per qualche istante il quieto tran tran cittadino. I negozianti sono preoccupati: se gli autori di questi gesti non verranno puniti potrebbe crearsi un pericoloso precedente. In fondo, quanto è stabile la pace sociale in una città come Torino? Uno dei problemi più grossi è costituito dal movimento delle occupazioni o anche da tanti altri esclusi che potrebbero, all’improvviso e spinti dalle più differenti motivazioni, far esplodere la propria rabbia indirizzandola contro chi rappresenta nella forma più scintillante il lusso dei pochi inclusi. L’ebbrezza del porfido è contagiosa, i decenni passati l’hanno dimostrato. Si tratta solo del caso più clamoroso. Tutto il periodo che si apre a Torino con gli arresti di Edoardo, Soledad e Silvano sarà scosso da episodi che potrebbero avere una identica possibilità di allargamento. Alla rabbia diffusa si sovrappongono però le ideologie presenti nel movimento, tentando di controllarla e indirizzarla. Come vedremo, ci riusciranno in buona parte, nonostante la presenza di vari incontrollabili che, per scelta lucida o solo perché sopraffatti dalla rabbia, rifiuteranno di farsi limitare provocando a volte polemiche "interne".
DOCUMENTI N. 1 - 2 - 3 - 4 - 5 Ma "il movimento" torinese, come accoglie questi arresti? Anche grazie alla stupidità dimostrata dalle forze dell’ordine, si fa strada l’opinione che si tratterebbe dell’ennesima provocazione a danno dei posti occupati. A portare avanti questa tesi sono gli squatter e gli autonomi torinesi, che per una volta si trovano d’accordo, mentre solo due spazi occupati metteranno in evidenza a caldo la situazione che si era venuta a creare in Val Susa. Di fatto la protesta si concentra per lo più sugli occupanti arrestati, sugli sgomberi, sulla violenza della polizia, mentre ben pochi si spingeranno più in là per cercare di capire cosa sta in effetti succedendo. In tal modo si finirà col dare una mano a tutti coloro che hanno l’interesse di nascondere in ogni maniera ben altre potenzialità: quelle dello scontro reale che si poteva aprire in Val Susa.
«Il centro della città è rimasto paralizzato per ore, vetrine di negozi prestigiosi sono andate distrutte e alcuni degli angoli più suggestivi di Torino si sono riempiti di scritte, sporcizia e macerie»

(Il Giornale 7/3/98)

A questo punto si innesca un meccanismo simile a quello che gli inquirenti hanno voluto produrre in Val Susa con la farsa dei "Lupi Grigi", fatti diventare — per estensione — i responsabili di tutti i sabotaggi messi in atto contro l’Alta velocità. A Torino viene ripetuta la medesima operazione. Ancora una volta, poi, ad aiutare la repressione preventiva ci pensano alcuni dei protagonisti. Così come in Val Susa i giornalisti hanno approfittato di alcune sbavature degli ignoti sabotatori, per rinchiudere in una identità fastidiosa la rivolta, castrandola dei suoi attributi, adesso approfittano di una identità già abbondantemente confezionata e propagandata a Torino da alcuni partecipanti alle occupazioni: l’identità squatter.
DOCUMENTO N. 1 Gli squatter costituiscono infatti solo una delle varie componenti del movimento delle occupazioni di Torino. Ma nel giro di pochi giorni tutti gli occupanti di Torino e d’Italia, e non solo gli occupanti ma tutti i sovversivi in generale, verranno ribattezzati "squatter" sulle prime pagine dei giornali nazionali. Circoscritta e definita l’identità dei ribelli, la prossima mossa consiste nel manipolarne le motivazioni: non si parla più dei sabotaggi in Val Susa, non si parla più dell’Alta velocità, ma filosofi e intellettuali vengono chiamati a versare fiumi di inchiostro per descrivere il "disagio giovanile" che rende inquieta la vita nelle metropoli. Anche in questo, l’ideologia squatter contribuisce non poco a rendere plausibile l’equivoco. Infatti gli squatter, cioè coloro che si definiscono tali, costruiscono la propria identità su di una pratica — l’occupazione di spazi vuoti da "autogestire" —, non sulle ragioni che li spingono ad agire, facendo di uno strumento il perno attorno a cui ruota la loro vita. Nulla di quanto accade all’esterno riesce a coinvolgerli se non dopo essere stato filtrato dalla mentalità e dal gergo squat. Sia che lo vogliano oppure no, quelle quattro mura in cui vivere finiscono col diventare tutto il loro mondo, tutto ciò che sta loro a cuore. L’ideologia squatter rappresenta la versione urbana moderna del vecchio sogno comunitario caro ai figli dei fiori: trovare un piccolo fazzoletto di territorio dove trascorrere il resto dei propri giorni nel modo migliore, più simpatico e trasgressivo possibile. In fin dei conti, non si tratta di una grossa pretesa.
«Squatter all’attacco strage di vetrine»

(La Repubblica
7/3/98)

«Gli "squatter" divisi tra linea dura e distensione»

(Corriere della sera
30/3/98)

Ecco come accade che le reali ragioni dell’arresto dei tre anarchici passino per gli squatter in secondo piano rispetto all’affronto rappresentato dall’intrusione delle forze dell’ordine nel proprio tempio. L’indignazione che trabocca dai loro volantini, in cui si denuncia lo scempio compiuto dagli sbirri all’interno degli spazi perquisiti e sgomberati, mostra lo stupore di chi scopre improvvisamente che la vita non è affatto bella come credeva, se non nelle proprie illusioni ideologiche. E non appena gli squatter si decidono ad uscire dal proprio ghetto, ogni qualvolta cioè vengono spinti dalle circostanze, per necessità di sentirsi vivi o per bisogno di giustificarsi, ecco che la loro azione si indirizza tutta verso la rappresentazione. Assillati dalla preoccupazione di non perdere i posti così faticosamente ottenuti, trovandosi per questa ragione perennemente in bilico tra rivolta e marginalità, gli squatter prediligono forme d’azione spettacolari, da attingere nel patrimonio delle avanguardie artistiche del passato. Tuttavia ciò che gli squatter riprendono da queste è ben distante da quella forte tensione che intendeva superare i limiti dell’espressione artistica per sfociare nella rivolta; al contrario, è la trasformazione di ogni azione sovversiva in mera opera d’arte, la rivendicazione dell’impunità implicita nello status d’artista. E se nel maggio francese di trent’anni or sono gli insorti più cauti e "ragionevoli" occupavano il teatro dell’Opéra per poter rappresentare una libertà puramente virtuale, gli squatter contemporanei propongono di invadere il set del nuovo film di Amelio, interrompono la conferenza stampa di Harvey Keitel, prendono accordi con Dario Fo, mostrando la loro devozione nei confronti di quell’ambiente artistico che essi riconoscono come il solo luogo in cui tutto è permesso giacché nulla è reale.
«I "Lupi grigi" presi nei centri sociali».

(La Stampa 7/3/98)

Di fatto sono gli stessi squatter — assieme agli autonomi e a chi accetta la loro stessa interpretazione dei fatti — ad aiutare gli inquirenti a spostare l’attenzione dalla Val Susa a Torino, dalla questione dei sabotaggi contro il mostruoso progetto dell’Alta velocità — di interesse generale — a quella degli spazi occupati, che così impostata non può che suscitare un interesse parziale. Ed anche in questo caso, buona parte del movimento si mostra incapace di reagire all’ingabbiamento spettacolare. Più i giornali indicano gli occupanti come pazzi disadattati e pericolosi, più costruiscono l’immagine fittizia dello "squatter", più molti occupanti si rinchiudono in questo ruolo e lo amplificano, ovviamente con alcune varianti. Ma ciò che mette d’accordo tutti i giornalisti e alcuni di loro è proprio il rafforzamento di quella identità che separa gli squatter dalla realtà dei desideri e che concede loro il copyright esclusivo di alcune pratiche radicali.
DOCUMENTI N. 6 - 7

DOCUMENTO N. 8

DOCUMENTO N. 9

Ovviamente, i giornali attribuiranno loro tutti i comportamenti sovversivi emersi nel corso delle settimane, compresi quelli verso cui gli squatter hanno sempre mostrato d’essere allergici. Non possono infatti accantonare del tutto gli altri strumenti di lotta, ma proprio quei fatti più interessanti e più gravidi di possibilità — pensiamo ad esempio all’azione nel supermercato — vengono ricondotti dagli stessi partecipanti alla logica tipicamente squatter della performance autopromozionale. Nel momento poi in cui gli squatter si vedono costretti ad affrontare il problema dei sabotaggi, le loro analisi sprofondano nel ridicolo. Tentando di ricondurre tutto al proprio vissuto, sulla Val di Susa non sapranno dire altro che la frequentavano per liberare i nanetti da giardino, sottolineando che i sabotaggi sono "autoprodotti", e altre amenità del genere.
«'La cosa che più ci interessa non è essere risarciti, ma sapere cosa ci aspetta d’ora in poi».

(I commercianti su La Stampa 10/3/98)

Il cerchio è chiuso: gli squatter fanno teoria del proprio vissuto e mettono in pratica ciò che teorizzano. Sono coerentemente immobili e girano impazziti attorno al proprio ombelico, il cosiddetto vissuto, scavando una trincea sempre più profonda che ne sancisce l’identità.

Da qui in poi, fino ai fatti che nuovamente produrranno un mutamento della situazione, viene simulata in maniera pressoché concorde una guerra privata tra gli "squatter" e le autorità. Il resto della città non potrà che restare a guardare, limitandosi tutt’al più a parteggiare per gli uni o per gli altri.

«Aprire uno spazio di discorso e, prima di tutto, trovare il linguaggio per comunicare, per rompere la dimensione simbolica e socializzare le potenzialità positive che i centri esprimono. Le amministrazioni pubbliche non possono limitarsi a lasciar loro soltanto spazi degradati. Non si può considerarli come indiani nelle riserve e dargli un po’ di whisky per bruciargli il cervello. E gli stessi squatter devono evitare di chiudersi in una spirale soltanto negativa. Si può forse trasformare la rabbia in azione sociale, non omologata ma positiva».

(Marco Revelli, consigliere comunale Rifondazione Comunista)