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IL RITORNO DEL FASCISMO

Riportiamo qui sotto alcuni brevi brani tratti dal libro di G.P. Tozzoli, "Il caso Albania", Franco Angeli, 1989, nei quali si descrive la penetrazione economica del fascismo italiano in Albania. Le analogie con la situazione dei nostri anni sono in alcuni casi sorprendenti:

"[...] Secondo gli storici di Tirana, le premesse della dominazione erano già cominciate a metà degli anni Venti con la conclusione degli accordi per la creazione della Banca Nazionale d'Albania, accompagnati da un "prestito" di cento milioni di franchi oro e altre provvidenze creditizie nel settore agricolo e finanziario. Così, quando sopravvenne l'occupazione, lo "sfruttamento" sarebbe diventato subito "intensivo" mediante una serie di misure per l'estrazione di materie prime da destinare all'industria italiana, per trasformare l'Albania in un mercato complementare di assorbimento di prodotti provenienti dall'Italia, per legare i due paesi attraverso l'unione economica, doganale e monetaria stipulata nell'aprile del '39. I danni provocati dalla politica fascista vengono quindi costantemente indicati nella perdita da parte albanese dei dazi non sufficientemente compensati da un indennizzo annuale di 15 milioni di franchi oro; nell'invasione di merci italiane; nell'adeguamento delle tariffe doganali, che causarono l'aumento dei prezzi di beni di largo consumo. Altre conseguenze negative: l'allineamento del franco albanese alla lira secondo la parità fissa di 1 a 6,26, con il risultato che la stabilità della moneta albanese venne a dipendere da quella della moneta italiana; la sopravvalutazione di quest'ultima e la riduzione per il franco albanese della copertura in oro e divise straniere per effetto dell'unione economica; il monopolio da parte italiana di quasi tutto il commercio estero albanese; l'investimento di gran parte delle risorse monetarie della Banca Nazionale in Buoni del Tesoro o in altri titoli di stato e la destinazione preferenziale del credito verso le imprese italiane operanti nel territorio annesso alla Corona".

Tozzoli prosegue nella sua descrizione, affermando che "[...] furono decine le ditte che si trasferirono in Albania o che vi sorsero [...]. Vi figurano le Aziende di stato per le ricerche petrolifere, l'estrazione mineraria, la lavorazione dei metalli, la chimica, lo sfruttamento dell'energia elettrica, la bonifica agraria e l'accorpamento di fondi rurali; numerosissime le imprese private che si dedicarono alle più svariate attività, come la fabbrica dei materiali di costruzione, l'industria del legno, le distillerie, la commercializzazione dell'olio d'oliva, gli zuccherifici, le prime fabbriche tessili, la costruzione di strade, l'attività edilizia e dei trasporti. Un elenco davvero impressionante [...], accanto al quale c'era naturalmente anche un programma di installazioni militari, come caserme, ponti, porti, aeroporti, edifici per gerarchi e manutengoli". Secondo l'autore, tra gli albanesi hanno beneficiato di tale politica solo i latifondisti e la borghesia dei commercianti. "Danneggiata fu viceversa la categoria dei piccoli imprenditori industriali, le cui attività non poterono reggere la concorrenza delle ditte italiane e delle importazioni provenienti dall'Italia, date le favorevoli condizioni dell'accordo doganale e perché di migliore qualità e a prezzi più convenienti. In analoghe difficoltà venne a trovarsi l'artigianato locale nel cui settore furono molti i sarti, i calzolai, i falegnami, i ciabattini, i ramai, i fabbri, gli orefici, a dover chiudere le loro botteghe [...] gà a partire dal primo anno. Ma gli effetti più gravi dell'"oppressione" sarebbero ricaduti sulla classe dei lavoratori: operai e contadini. I primi furono destinati, si afferma, ai lavori pesanti, in quanto non qualificati; la discriminazione si estese oltre che agli orari di lavoro alle paghe (fino a sette franchi agli italiani, poco più di un franco e mezzo agli albanesi)".