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Kosovo: in attesa del giorno fatale

di Dejan Anastasijevic

Mentre gli albanesi del Kosovo guardano le immagini trasmesse via satellite da Durazzo e Tirana, con un misto di vergogna e di rabbia, i serbi sognano una casa e un locale a Salonicco

Le immagini della gente armata per le strade delle città in rivolta dell'Albania sono uno dei maggiori motivi del timore diffuso che la "polveriera" del Kosovo possa essere fatta esplodere dagli avvenimenti in corso nel paese confinante. L'eventualità che centinaia di migliaia di "lunghe canne", saccheggiate dalle caserme e dalle stazioni di polizia di tutta l'Albania, facciano la loro comparsa nella regione ha dato impulso alle tesi ormai un po' impolverite di un potenziale vasto conflitto regionale, che comincerebbe in Kosovo, coinvolgerebbe la Macedonia e la Grecia, e subito dopo si allargherebbe alla Turchia, alla Bulgaria e chi sa a chi ancora. Di "questo scenario del giorno fatale" sono da lungo terrorizzati i ministeri degli esteri di tutto il mondo e quindi non vi è da meravigliarsi che la comunità internazionale si sia affrettata a prendere misure per spegnere l'incendio.
Nello stesso Kosovo, intanto, una larga maggioranza delle persone con cui si parla fa un cenno sprezzante con la mano quando si sente domandare se ci sono armi provenienti dall'Albania. "E come se ce ne sono - sono già armati fino ai denti", dice un abitante di Gracanica, che chiede di non pubblicare il suo nome. "Non molto tempo fa uno schipetaro è andato dall'esercito a chiedere se poteva comprare un carrarmato e quando gli hanno chiesto cosa se ne sarebbe fatto ha risposto: 'Per i pezzi di riserva'". Gli albanesi, invece, alla stessa domanda ribattono ricordando subito il principio dichiarato di una lotta non violenta per l'indipendenza, che anche dopo le recenti azioni della misteriosa "Armata di liberazione del Kosovo" viene condiviso dalla maggior parte delle forze politiche albanesi. "Non siamo armati noi, ma i serbi", affermano gli abitanti del villaggio di Mramor (la cui popolaizone è al cento per cento albanese), a poca distanza da Prishtina. A intervalli regolari di qualche mese, dicono, la polizia fa il giro del villaggio e perquisisce a fondo le case e i poderi, mentre i semplici rastrellamenti, mirati contro singole famiglie, hanno smesso di contarli ormai da lungo tempo.

LE VIE DELLE ARMI: "Le armi ancora non sono arrivate, e questo per due motivi", dice una bene informata fonte (serba), che insiste per essere lasciata anonima, (in genere, in Kosovo, è incredibilmente difficile trovare qualcuno, serbo o albanese, disposto a dire, con il proprio nome e cognome, qualunque cosa che sia diversa dalle solite frasi fatte). "Il primo motivo è che in questi giorni la neve ha coperto i passi di montagna e quindi i tragitti tradizionalmente seguiti dai contrabbandieri non sono transitabili. Il secondo motivo è che l'esercito e la polizia hanno praticamente sigillato il confine". Eppure anche il nostro interlocutore ammette che né il fattore metereologico, né quello militar-poliziesco riusciranno a impedire a lungo l'afflusso di armi: l'estate è alle porte e il blocco dell'esercito non puo' durare per sempre. "I fucili non inonderanno subito il Kosovo, ma penetreranno lentamente, più dalla Macedonia che dall'Albania", afferma. "Si tratta, d'altronde, di un problema a lungo termine e noi qui i problemi a lungo termine non li risolviamo".
L'effetto politico dei fermenti albanesi è per ora più concreto e si riflette soprattutto nell'improvviso indebolimento dell'influenza di Adem Demaqi, il leader del nuovo Partito Parlamentare del Kosovo, che negli ultimi mesi ha manifestato l'aperta ambizione di prendere il posto di Ibrahim Rugova, fino a poco tempo fa intoccabile, alla guida del movimento albanese per l'indipendenza. La combinazione da parte di Demaqi di un inflessibile nazionalismo (per il quale ha passato venti anni in prigione) e di flessibilità politica (di cui Rugova manca) ha con ogni evidenza fatto una buona impressione a Sali Berisha, come è stato reso evidente dalla televisione di Tirana, che per mesi ha "pompato" Demaqi nello stesso modo in cui la RTS (televisione serba - n.d.t.), ha "pompato" la JUL. Ora il presidente albanese ha problemi più seri a cui pensare e la televisione di Tirana trasmette delle immagini del tutto diverse, mentre Demaqi, che si è eccessivamente legato al regime di Tirana e che ha espresso un appoggio senza riserve a Berisha durante i primi giorni della rivolta, ha segnato il proprio destino politico. Nella LDK (Lega Democratica del Kosovo - il partito indipendentista albanese guidato da Rugova - n.d.t.) riescono con difficoltà a nascondere il sollievo per l'indebolirsi dell'influenza di Demaqi. "Quello che succede in Albania non è positivo, ma la mancanza di unità tra i kosovari è ancora peggio", ci ha detto un alto funzionario di questo partito, chiedendo esplicitamente di non essere citato per nome. "Demaqi è un politico poco serio, che cambia posizione ogni ora, e la maggior parte degli albanesi adesso lo può vedere con chiarezza", ha continuato.
Quello che la maggior parte degli albanesi del Kosovo ancora non vede è che l'indipendenza promessa da Rugova non è così vicina come viene loro fatto credere, ci ha spiegato un diplomatico occidentale che soggiorna spesso nel Kosovo come "osservatore della situazione". "Quando qualcuno a Bruxelles o a Washington dichiara che gli albanesi del Kosovo devono ottenere il diritto all'autodeterminazione, ma che ciò non deve comportare la separazione, la prima parte della frase viene pubblicata sulla prima pagina di Bujku (il quotidiano vicino a Rugova), mentre la seconda parte viene completamente taciuta. Ho l'impressione che mentano sistematicamente al proprio popolo, assicurandogli che l'Occidente appoggia il progetto separatista". Da fonti diplomatiche si sente raccontare anche come i leader della LDK definiscano il responsabile del Centro Informativo Americano a Prishtina "l'ambasciatore americano", definizione che costituisce per questo diplomatico una continua fonte di imbarazzo, poiché secondo la gerarchia egli ha solo lo status di primo segretario (tre gradini più in giù).

SALONICCO E BELGRADO: Come i cosiddetti comuni abitanti albanesi del Kosovo guardano agli avvenimenti in Albania abbiamo avuto modo di riscontrarlo nel villaggio di Mramor, di cui abbiamo già parlato prima. Lì la rivolta viene considerata come il frutto del lavoro comune dei servizi segreti di Serbia, Grecia e Macedonia, mentre le immagini che la CNN e la BBC trasmettono dall'Albania vengono descritte come esempi di informazione in malafede, inventata e tendenziosa. Sotto questa collera traspare qualcosa di simile alla vergogna. "Ora il mondo guarda e dice: ecco come sono gli albanesi", afferma incollerito un insegnante locale. "Non può essere la verità. Non siamo così, siamo un popolo civilizzato che rispetta tutti i valori della cultura europea". I serbi, invece, ritengono che gli albanesi siano davvero così: "E' una nazione selvaggia", dicono a Gracanica, a cinque chilometri da Mramor. E tuttavia l'ansia per quello che riserva il futuro è più forte della felicità per i guai dei vicini albanesi. Questa sensazione di incertezza, aumentata da una sempre maggiore mancanza di fiducia in Belgrado, è quella dominante tra i serbi del luogo. "Abbiamo visto come Milosevic ha abbandonato i serbi di Krajina e Bosnia, abbiamo visto come Belgrado ha accolto i profughi da quelle regioni", dice un funzionario del governo provinciale, nato in Kosovo. Alla domanda se intende piantare le tende a Belgrado risponde: "Non se ne parla nemmeno. Non mi trasferirei lì neanche morto. Mi sono messo insieme ad alcuni amici e in questi giorni stiamo aprendo una ditta a Salonicco".

da "Vreme", 5 aprile 1997