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![]() La rivoluzione albanese in pericolodi Alan WoodPubblichiamo la traduzione parziale di un nuovo articolo dello studioso marxista inglese Alan Wood. Abbiamo selezionato dall'originale le parti in cui Wood accusa i socialisti albanesi di fare il gioco di Berisha e quelle in cui descrive le lotte di potere tra le potenze occidentali. Il testo integrale inglese lo potete trovare nel sito Albania in revolt[...] I leader del PS hanno svolto un ruolo deleterio. Dopo essere stati usati da Berisha come una copertura per reinstaurare parzialmente il proprio potere, si sono lamentati quando li ha poi presi a calci nei denti. In un articolo recentemente comparso nel giornale del partito, Zeri i Popullit, intitolato "Berisha: il principale ostacolo alla democrazia" (18/9/7) ammettono francamente che, in effetti, hanno dato al dittatore un appiglio per salvarsi e poi si lamentano della sua ingratitudine: "[Berisha] ha ancora attaccato il Partito Socialista [PS], attribuendogli la colpa della situazione," si lamentano, "basandosi sugli stessi argomenti del passato. Nel farlo, egli dimentica di avere stipulato un accordo politico con il PS e di avere accettato che il governo emerso da questo accordo avesse un rappresentante dell'opposizione come primo ministro del paese. Berisha si attribuisce demagogicamente il merito dell'accordo del 9 marzo che ha salvato il paese da uno spargimento di sangue. In realtà, Berisha non può vantare alcun merito per questo accordo, ma è il principale colpevole per lo spargimento di sangue. Ha firmato questo accordo spinto dalla paura di pedere il potere con l'arrivo dei ribelli a Tirana. Quando si è accorto di non essere in grado di sopprimere l'insurrezione ricorrendo all'Esercito, perché l'esercito lo aveva abbandonato, è stato costretto a firmare l'accordo del 9 marzo". Qui sta l'essenza dell'intera questione. Quando le masse avevano ormai virtualmente rovesciato il vecchio stato in marzo, i leader dell'opposizione, invece di mettersi alla testa dell'insurrezione per dare il colpo finale alla bestia ferita, le hanno pietosamente offerto il loro aiuto. Berisha è stato "costretto" a stipulare un accordo con loro, annunciando la formazione del cosiddetto Governo di Riconciliazione Nazionale, perché era sul punto di essere rovesciato; per usare le parole dell'articolo: "il suo Esercito si è sciolto come neve d'estate, mentre le forze di polizia abbandonavano i losro posti nei momenti più difficili". Nel linguaggio tipico dei riformisti di destra sempre pronti a collaborare con i nemici della classe lavoratrice, sostenendo di farlo nell'"interesse nazionale", continuano "Il tempo dirà dove sarebbe finito Berisha dopo la tempesta che ha seminato, dirà chi avrebbe distrutto e chi invece ha salvato l'Albania (!). Tuttavia, il PS non ha agito secondo la logica di Berisha. Ha agito per salvare il paese e a tale scopo ha sacrificato qualcosa dei suoi interessi di partito". Quello che ha sacrificato non è stato "qualcosa dei suoi interessi di partito", ma gli interessi della classe lavoratrice, della rivoluzione e del popolo dell'Albania. L'odiato vecchio regime era stato rovesciato dal popolo in armi. Senza di questo, il PS sarebbe rimasto politicamente marginalizzato e il suo segretario generale sarebbe ancora in prigione. Ma i leader del PS, che non hanno avuto alcun ruolo nell'insurrezione, si sono affrettati a salvare l'uomo che ancora ieri li aveva fatti picchiare, arrestare e imprigionare. Vedendo l'abisso spalancarglisi innanzi, Berisha ha passato il controllo nominale del governo al Partito Socialista (ex-stalinisti). Ma in realtà questi ultimi costituiscono il governo solo nominalmente. I fucili sono nelle mani dei ribelli e dei sostenitori di Berisha, che usano i leader socialisti come una facciata di comodo, dietro alla quale stanno unendo le proprie forze con l'obiettivo di riconquistare il potere. La situazione reale è stata rivelata dall'incidente che si è recentemente verificato quando il parlamento ha cercato di sollevare dal suo incarico il capo della polizia, generale Agim Shehu, uno stretto collaboratore di Berisha, accusato da molti di essere responsabile degli atti di brutalità compiuti contro la gente. Un portavoce presidenziale è intervenuto per dire che solo Berisha, e non il governo, ha il diritto di licenziare il capo della polizia. In altre parole, Berisha è contento di lasciare apparire pubblicamente i socialisti come il governo, in modo che si assumano la responsabilità di tutte le decisioni impopolari, mentre il potere reale rimane fermamente nelle sue mani [...] Nord e sud L'insinuazione che il conflitto in Albania sia una lotta tra diversi "clan" e costituisca una divisione tra Nord e Sud è un'altra bugia, studiata al fine di presentare gli albanesi come barbari primitivi e per portare a ingiustificati paralleli con la Somalia. La questione è stata affrontata molto bene in un articolo di Adrian Klosi, ripubblicato da un giornale tedesco: "Superficialmente", scrive, "il conflitto in Albania appare come un confronto tra nord e sud. Molti giornali hanno deciso che si tratta di una lotta tra clan. Tuttavia, una descrizione più corretta sarebbe quella secondo la quale si ha una situazione in cui i cittadini del sud, insieme a unità dell'Esercito regolare e a membri dei servizi segreti, che erano controllati dal presidente, combattono contro il governo". Klosi continua spiegando che, storicamente, i clan o le tribù hanno svolto un ruolo importante in Albania e che per molti secoli tutti coloro che hanno governato il paese sono dipesi dai rispettivi clan: "Il regime stalinista di Enver Hoxha e quello dei suoi successori erano basati sui potenti clan del sud. Da questo punto di vista, Berisha, che viene appoggia dal nord, in particolare dalle montagne della regione di Tropoje, non costituisce un'eccezione. Tuttavia, nonostante le considerevoli differenze tra il territorio delle persone che parlano ghego nel nordo e i toschi del sud, non vi è mai stata un'aperta guerra tribale tra il nord e il sud dell'Albania. Raffrontato con l'economicamente vitale e relativamente prospero sud, il nord montagnoso e pastorale - con l'eccezione di Scutari - è rimasto povero e arretrato. Anche quando la Legge sulla lingua del 1972 ha dichiarato il tosco l'unico dialetto ufficiale dell'Albania, il nord ha perso. Nella regione intorno alla capitale Tirana, le differenze tra il nord e il sud si sono dissolte in seguito ai massicci movimenti e riduzioni di popolazione dopo la Seconda guerra mondiale. [...] Gli interessi stranieri La Grecia ha avuto in passato mire territoriali sulla parte meridionale dell'Albania, che chiama "Epiro del Nord", dove si trova un'ampia minoranza greca i cui interessi Atene pretende di difendere. Lo scopo reale della borghesia greca sono stati rivelati da George Krystos, proprietario del giornale di destra Eleftheros Tipos, che è stato sufficientemente stupido da dire ad alta voce quello che altri si limitano a pensare: "Dobbiamo avere un intervento dinamico, in modo da potere plasmare gli sviluppi. Ora è giunto il momento per noi di rafforzare il nostro ruolo nei Balcani". La rumorosa propaganda relativa ai presunti maltrattamenti della minoranza greca nell'Albania del sud sono un'altra bugia, calcolata per preparare l'opinione pubblica greca a un intervento contro la rivoluzione albanese. Ha ricevuto una risposta da molte affermazioni rese da greci che vivono in Albania e che sono dalla parte della rivoluzione, alla quale partecipano attivamente. Non abbiamo paura dei giovani che si sono ribellati", ha dichiarato al giornale Eleftherotipia un greco che parla albanese mentre passava il confine per entrare in Grecia. Ha chiesto di rimanere anonimo per timore di rappresaglie da parte delle autorità greche. "Loro [i ribelli] non colpiscono la gente. Ma abbiamo paura dell'esercito e della polizia di Berisha. I greci e gli albanesi hanno lo stesso nemico: Berisha. Lottiamo insieme", è stato uno dei commenti ripetuti più spesso a radio Sky da molti albanesi che si trovavano nel centro di Atene il 7 di marzo. "Ora la gente esige qualcosa di più che semplicemente il proprio denaro. Vogliono la democrazia", ha detto Toma Sava, un immigrato di Himara, nel sud dell'Albania. Ma Atene ha sempre appoggiato Berisha e, attraverso la bocca del suo ministro degli esteri, ammette apertamente che lo scopo fondamentale delle sue truppe è quello di disarmare il popolo. Tra l'altro, circa 350.000 albanesi vivono in Grecia senza permesso di soggiorno, venendo sfruttati e sottoposti a un trattamento più che brutale e degradante da parte delle autorità greche e della polizia. Atene è stata rapida nell'offrire di inviare truppe in Albania, ma ha voluto inviarle nel sud. Gelosi della loro egemonia e subodorando qualche inghippo, gli italiani si sono immediatamente opposti, chiedendo che le truppe greche si limitassero a intervenire al nord. Ne è seguita un'aspra guerra di parole, che ha visto entrambe le potenze "umanitarie" accusarsi l'un l'altra di imbrogli. Il quotidiano di Atene To Vima riportava un articolo intitolato, significativamente, "La guerra segreta contro la Grecia", nel quale si riportavano i contenuti di un rapporti riservato dei servizi segreti italiani, che ha provocato una protesta da parte del Ministro degli Esteri greco. Il rapporto accusava Atene di volere garantirsi un "ruolo privilegiato" nella "futura soluzione della crisi", di "giocare" con l'origine greca di "importanti personalità politiche albanesi", di un'attività diplomatica nel sud dell'Albania e di "frequenti visite in Grecia da parte di alcuni capi ribelli" (To Vima, 13/4/97). Simitis, il premier greco, (naturalmente) nega tutte queste affermazioni e richiede che il documento venga ritirato. Il governo Prodi, imbarazzato, ha cercato di appianare la disputa. I comandanti militari italiani hanno accetto di "ritirare" il documento senza ufficialmente ripudiarne i contenuti. Da parte sua, il governo turco osserva attentamente gli sviluppi. Recentemente, anche la Turchia ha aumentato il proprio ruolo di superpotenza regionale, intervenendo in Asia Centrale, nel Caucaso e perfino in Iraq. Non può essere felice di fronte alla prospettiva che il suo nemico tradizionale, la Grecia, espanda la sua influenza nei Balcani, dove ha delle ambizioni proprie. Significativamente, la Turchia ha un patto di difesa militare con l'Albania ed è stata la prima a riconoscere l'indipendenza della Repubblica di Macedonia, che Atene ha fatto tutto il possibile per prevenire. Prevedibilmente, i turchi hanno inviato un contingente di 600 uomini che ha preso parte alla spedizione albanese, un gesto amichevole per nulla apprezzato ad Atene. In un'intervista con Le Monde (5/4/97), il Ministro degli Esteri greco Tsohatzoupoulos ha affermato che mentre il suo governo (naturalmente) ha "salutato con favore" la partecipazione delle truppe turche (nello stesso modo in cui avrebbero "salutato con favore" la peste bubbonica), egli ha messo in guardia i turchi a non utilizzare la crisi albanese per interferire nei Balcani. "La Turchia non è direttamente coinvolta, perché non è un paese balcanico". Nella stessa intervista, il Ministro degli Esteri greco è stato reticente anche in merito ai veri motivi dell'intervento. Mentre il premier Prodi si è trovato in difficoltà nel riassicurare tutti che la missione è di carattere esclusivamente umanitario e non si ripropone di interferire con gli affari interni dell'Albania, Tsohatzoupoulos si è affrettato, in stivali chiodati, ad annunciare che lo scopo dell'intervento è quello di disarmare i ribelli e solo in secondo luogo quello di garantire gli invii di aiuti. Questi piccoli incidenti dicono moltissimo sulle reali motivazioni di questi "umanitari". In realtà, l'argomento degli aiuti è molto debole, dato che nulla in Albania lascia pensare a carenze di cibo, o addirittura alla fame. Ovviamente c'è una buona dose di disordine e la gente ne ha sofferto. Ma è sufficiente a giustificare un intervento armato di questo tipo? Tra l'altro, quando la Croce Rossa ha inviato un carico di aiuti medici all'Albania del sud, qualche settimana fa, il carico è stato trattenuto a lungo alla frontiera, non da parte dei ribelli, ma dalle autorità greche. Infine, la Croce Rossa ha inviato i propri rappresentanti dai comitati rivoluzionari all'interno dell'Albania per ottenere la loro assistenza nello spostare gli aiuti. Tutte le potenze straniere difendono la loro interferenza negli affari interni di uno stato che dovrebbe essere sovrano con un argomento piuttosto che un altro, nascondendo continuamente i propri interessi particolari. L'Italia si lamenta di un'"invasione" di rifugiati, nonostante il totale sia di sole 14.000 persone, molto meno che nel 1992. Questa, insieme al ben noto argomento "umanitario", è la posizione ufficiale italiana. Ma una lettura attenta di tutte le dichiarazioni ufficiali, rivela un quadro diverso. In RFE/RL Newsline (N. 10, Parte II, 14 aprile 1997) abbiamo letto quanto segue: "Funzionari di Roma affermano che è la prima volta che l'Italia del dopoguerra ha avuto l'opportunità di prendere il comando di una forza di intervento europea. Politici ed esperti di tutto il continente sostengono che l'Albania ha dato all'Europa nel suo complesso l'opportunità di dimostrare di avere imparato dai propri errori nelle guerre jugoslave e che ora è in grado di mettere a posto le cose in un altro turbolento paese dei Balcani". Va innanzitutto notato che viene dato per scontato che l'"Europa" ha il diritto di intervenire per "mettere in ordine le cose" in un paese sul quale, teoricamente, non ha giurisdizione. Cosa accadrebbe se la Russia o la Cina decidessero di inviare un esercito nell'Irlanda del Nord o nei Paesi Baschi (anch'esse aree instabili) per "mettere in ordine le cose"? O si arrogassero il diritto di intervenire in Italia per risolvere il "problema" del Nord? O negli Stati Uniti per trovare uno sbocco al problema, "fonte di instabilità", delle minoranze nere e ispaniche oppresse? E' lo stesso atteggiamento insolente di cui hanno dato prova gli USA quando hanno deciso che l'Iraq non ha alcun diritto di effettuare voli sul suo territorio o di vietare ad altri paesi di commerciare con Cuba. L'argomento secondo cui l'intervento è stato richiesto dal governo di Tirana non vale più di tanto, perché il governo non è stato eletto, non ha poteri e non controlla né il nord né il sud. La realtà è che l'Albania si trova in condizioni di rivoluzione, nelle quali le forze del popolo armato si confrontano con un regime repressivo che rimane aggrappato al potere dietro la facciata di una "coalizione" senza potere e sta tentando di fare in modo che gli eserciti stranieri facciano quello che da solo non è in grado di fare: disarmare la popolazione. Chi non lo capisce, non riuscirà a capire nulla di quanto accade in Albania. Risulta chiaro da centinaia di dichiarazioni, come la seguente: "Il Primo Ministro Bashkim Fino ha dichiarato alla AFP, in un'intervista, che verranno create unità speciali di polizia e che le autorità hanno cercato l'aiuto italiano per equipaggiare la polizia, in maniera tale da riuscere a salvare l'Albania dall'anarchia. E il Ministro degli Interni Belul Cela ha riportato nel suo paese il messaggio, quando rivolgendosi al parlamento ha detto: "Abbiamo deciso di colpire duramente tutte le bande armate per ristabilire l'ordine". Fino ha detto che le elezioni, promesse dal Presidente Berisha per giugno nel tentativo di scongiurare la crisi, non si potranno tenere se i ribelli armati non renderanno le armi saccheggiate dalle caserme. "Sarà molto difficile tenere elezioni se tutti sono armati", ha affermato Fino. "Il ristabilimento dell'ordine è una priorità per il governo". "Fino ha detto che Tirana ha presentato al governo italiano un elenco degli equipaggiamenti di cui le forze dell'ordine hanno bisogno per riportare sotto il proprio controllo la situazione. Veicoli corazzati, giubbotti antiproiettile e equipaggiamenti speciali di sostegno alle unità di polizia figurano ai primi posti della lista. 'L'aiuto alla polizia ha la priorità anche sugli aiuti umanitari', ha affermato Fino" (servizio della AFP citato da RFE/RL Newsline, N. 10, Part II, 14 aprile 1997). Quando le potenze parlano di "Europa nel suo intero", tra l'altro, in una certa misura di un'esagerazione. Le principali potenze dell'UE si sono tenute bene alla larga da questa situazione, preferendo lasciarne la gestione alla Grecia e all'Italia, che si sono miopemente affrettate a impegnarsi. Come dicono gli inglesi: "gli stolti corrono là dove gli angeli hanno paura di mettere i piedi". Gran Bretagna e Francia hanno certamente "imparato dai loro errori" in Bosnia. Ecco perché hanno detto: "Dopo di voi, signori". I pericoli sono evidente per chiunque abbia mezza oncia di intelligenza. L'argomento dell'aiuto umanitario viene rifiutato perfino dalle stesse organizzazioni umanitarie, che smentiscono gli sciocchi discorsi sul "salvare" l'Albania: "Potrebbe rivelarsi più facile da dire che da fare. Alcuni osservatori, inclusi alcuni addetti alla distribuzione di aiuti che già lavorano in Albania, affermano che la missione è destinata al fallimento fin dall'inizio. Sostengono che l'Albania abbia bisogno di ordine, non di forniture. Gli addetti agli aiuti sostengono che nel paese ci può essere anche carenza di medicine e che tra i poveri e gli anziani vi sia bisogno di aiuto, ma fanno anche notare che non c'è carestia né fame. Sono a favore del controllo dei banditi e della reinstaurazione delle strutture statali. Non si combatte l'anarchia con i sacchi di farina", ha commentato un addetto agli aiuti" (ibid.). La lotta contro gli elementi criminali è ovviamente necessaria, come l'instaurazione di strutture statali e di una normale vita sociale. Ma la questione è: quali strutture statali? Gran parte del caos è stato deliberatamente provocato dagli uomini di Berisha. Per superare questa situazione è necessario che i comitati eletti si colleghino a livello nazionale, che si organizzino come un potere statale alternativo dei lavoratori e che mandino in frantumi il vecchio stato. Non vi è altro modo. Anche la promessa di elezioni non può risolvere il problema, perché si presenta immediatamente la questione di chi si prenderà carico di indire le elezioni? Cosa garantisce che saranno corrette? Come potranno svolgersi, se lo potranno, con il paese diviso in due fazioni armate? Una contraddizione che non può essere sciolta e che è stata riassunta da Fino stesso quando ha detto: "Se vedremo che le elezioni non si possono tenere perché la popolazione è armata, dobbiamo guardare anche all'altro lato del problema, e cioè che le armi non verranno restituite fino a quando si terranno le elezioni". (RFE/RL Newsline, No. 10, Part II, 14 aprile 1997).
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