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Alcune riflessioni sulla situazione albanese

di Ilario Salucci

Riceviamo e volentieri pubblichiamo questa interessante anticipazione dal numero di giugno di "Bandiera Rossa" (mensile dell'Associazione Bandiera Rossa, direttore: Sergio D'Amia direttore responsabile: Antonio Moscato. Redazione: via B. Varchi, 3, Milano tel./fax: 02/39323665).

La rivoluzione albanese1
Un aneddoto relativo alle giornate del luglio 1789 a Parigi narra come re Luigi domandasse a un proprio consigliere "E' una rivolta?", ed ottenesse in risposta: "No Sire: è una rivoluzione". Quanto sta succedendo nel sud dell'Albania è una vera rivoluzione popolare con un contenuto democratico-radicale, con la costruzione di un proprio potere di fronte e contro il potere esistente. E' la diretta interferenza delle masse negli eventi storici, eventi che in tempi normali sono fatti da uomini d'affari, ministri, burocrati, parlamentari e giornalisti. Traendo la propria forza dall'organizzazione di base dimostra la capacità dei popoli non solo a protestare e resistere, ma a insorgere armi alla mano e senza limiti: se l'assenza di tradizioni "attiviste" e di collettivi rivoluzionari pone un'ipoteca sullo sbocco di questo movimento insurrezionale, non può di per sé cambiare la caratterizzazione di quanto sta avvenendo in Albania.
A sinistra, in Italia, molto si è faticato a riconoscere questo dato di base. La propaganda dei mass media borghesi sul "movimento di mafia" ha trovato qualche sostenitore (Dakli del Manifesto) e l'armamento di massa ha scioccato parecchi settori imbevuti da un quindicennio di pacifismo puro e semplice.
Le "trasgressioni" generalizzate - l' "anarchia", il "caos" quando non sono la concretizzazione del "terrore bianco" degli sgherri di Berisha, o da elementi del crimine organizzato - sono un elemento chiave (e con molto seguito a livello di massa) nella propaganda contro il movimento insurrezionale del sud albanese. Queste "trasgressioni" generalizzate costituiscono sicuramente un grande problema per lo sviluppo dell'insurrezione, in quanto disorientano e rendono più conservatori dei settori di massa, offrendo argomenti ai nostalgici dell' "ordine" e della ricostituzione dello Stato. Tuttavia non devono essere attibuite all'insurrezione (che fa apparire, ma non provoca le "trasgressioni"), ma alle condizioni sociali che hanno fatto nascere l'insurrezione. Nel quadro di affondamento del potere statale, vi sono persone che cercano di riappropriarsi di ruoli e beni a livello individuale prendendo "ciò che a loro appartiene" non tanto perché mancano di spirito di solidarietà, quanto perché hanno subito per anni privazioni materiali e manipolazioni.
L'assenza di una direzione politica definita dell'insurrezione ha sospinto taluni su Liberazione a leggere gli avvenimenti albanesi tutti secondo la lente del Partito Socialista - con delusioni, e importanti ripensamenti a partire da metà maggio2. Nel cogliere le radici della debolezza politica dell'insurrezione albanese è da tenere a mente che il movimento operaio e contadino di questo paese non ha quasi nessuna tradizione di mobilitazione e organizzazione indipendente - ad eccezione solo della guerra partigiana e delle mobilitazioni del 1990-1991. Prima della seconda guerra mondiale vi era solo un minuscolo settore industriale senza nessuna organizzazione operaia, e il movimento comunista si venne formando a partire esclusivamente da nuclei di elementi intellettuali che evolvevano da posizioni di tipo nazionalista, grazie al lavoro internazionale negli anni '20 dell' "Organizzazione Macedone Rivoluzionaria dell'Interno - Unificata" di Dimitar Vlahov3 sviluppato con il giornale "La Federazione Balcanica", e grazie, negli anni '30, all'intervento dell' organizzazione trotskista greca "Archeiomarxista". La grande maggioranza di questi quadri fu sterminato dalla cricca di Hoxha durante la guerra e nel periodo immediatamente successivo. Sotto il regime del cosiddetto Partito Comunista Albanese - Partito del Lavoro d'Albania non solo nessuna organizzazione indipendente era permessa (l'unico sciopero che si produsse in 45 anni fu in un campo di lavoro forzato negli anni '50, immediatamente represso), ma il livello di repressione interna che continuò fino alla morte di Hoxha nel 1985 ha avuto caratteri di ferocia e di massa confrontabili solo con quelli staliniani nell'URSS degli anni '30 (e caratteri di paranoia politica largamente superiori a quelli staliniani). E' solo a partire dall'autunno 1996 che un processo di organizzazione autonoma dei lavoratori albanesi inizia a manifestarsi, grazie a due scioperi generali all'inizio di ottobre e a fine dicembre, con le mobilitazioni in tutto il paese per il fallimento delle finanziarie nel gennaio-febbraio successivo, con la formazione di comitati di sciopero e con l'insurrezione del marzo 1997.
Il cosiddetto Partito Socialista e il suo leader Fatos Nano è stato totalmente estraneo a questa dinamica, e vi si è opposto nelle scelte chiave, preferendo qualche illusorio compromesso con Berisha a favore del proprio apparato. Questo il senso dell'accettazione del governo di unità nazionale, il rigetto della parola d'ordine della cacciata di Berisha e della restituzione dei soldi rubati, il non riconoscimento dei Comitati del Sud, e la farsa delle trattative sulle elezioni del 29 giugno. Da parte loro i Comitati popolari del sud sono dei collettivi di organizzazione e amministrazione degli insorti, con un funzionamento molto democratico (pur non essendo strutture di democrazia diretta): esprimono il "livello medio" dell'insurrezione e i sentimenti della maggioranza degli insorti. Da un lato mantengono l'instabilità e portano avanti le rivendicazioni degli insorti, dall'altro legittimano partiti e istituzioni (collaborando con essi) che sono naturalmente contro l'insurrezione: questo carattere contraddittorio esprime la dinamica di un'insurrezione che dopo l'instaurazione del governo di unità nazionale non dispone di un progetto politico, ma che non cede di fronte ai mille tentativi di disarmo. I Comitati sono - con tutti i loro limiti - l'espressione del movimento di massa, ed i loro componenti sono confrontati quotidianamente a scelte strategiche d'importanza capitale: i rapporti con le istituzioni, con il Partito Socialista, il tipo di mobilitazione da effettuare, se costituirsi in organizzazione politica nuova, ecc. Questi dibattitti, questi confronti e scontri, l'esperienza straordinaria che si accumula in queste settimane sono un patrimonio immenso per le masse albanesi e non solo per loro.
L'importanza storica ed internazionale di questa rivoluzione albanese risiede nel fatto che è la prima insurrezione dal 1989 nell'Europa dell'Est - la prima azione di massa che scompagina un apparato statale nell'Europa "post-socialista".
Ciò costituisce la prova irrefutabile che la barbarie capitalista è generatrice della propria catastrofe. L'Albania è stata un "laboratorio" per l'Europa. Nel paese nella cui capitale 200.000 persone accolsero nel 1991 il ministro degli affari esteri statunitensi Baker, nel paese della povertà assoluta, nel paese della polizia politica prima di Hoxha poi di Berisha, centinaia di migliaia di persone del meridione hanno preso il loro destino nelle loro mani, hanno preso d'assalto caserme e prigioni, hanno affrontato i pretoriani del regime (la famigerata Shik) e hanno vinto. La storia ha scelto tra tutti i paesi europei l'Albania, l' "anello più debole della catena", per seminare il primo grande panico tra i potenti dopo il loro trionfo del 1989. La preoccupazione delle grandi potenze non riguarda le conseguenze sulla lotta nazionale albanese in Kossovo e Macedonia4, ma della possibile estensione al resto dei Balcani di fenomeni come insurrezioni popolari e affondamento degli apparati statali. E' la coesione e la credibilità del "nuovo ordine mondiale" che sono minacciati in Albania, e non la pace, o ancor meno la democrazia in generale. Questa è la ragione per cui per proteggere qualche tonnellata di "aiuti umanitari" una Forza Militare Multinazionale diretta dall'Italia scarica in Albania 80.000 tonnellate di materiale di guerra5.

Il laboratorio Albania
Antonio Marchini Marchia, rappresentante della Commissione delle Comunità Europee in Albania dall'ottobre 1991 all'ottobre 1993, così si esprimeva nel 1994:
«In virtù [della] sua potenzialità economica e [della] sua disponibilità, nonché per la sua dimensione ridotta (paragonabile a quella della Toscana), l'Albania offre alla Comunità europea il miglior banco di prova della politica comunitaria verso l'Europa centrale e orientale [...] L' Albania ha corrisposto in modo molto incoraggiante all'impegno della Comunità europea nei suoi confronti. [...] L' Albania è stata il solo paese, tra tutti quelli dell'Europa centrale e orientale, che è riuscito finora a rispettare le prescrizioni del Fondo Monetario Internazionale [...] E' notevole che l' Albania sia riuscita a far ciò senza compromettere la stabilità sociale e la continuità governativa. Eppure i colpi che, in meno di due anni, la popolazione albanese ha dovuto incassare sono stati durissimi e ravvicinati. Ricorderò, in particolare, l'abolizione, nel 1992, della norma che garantiva ai lavoratori messi in disoccupazione l'80% del salario; poi la liberalizzazione generalizzata dei prezzi dei prodotti alimentari, tranne pochi prodotti di prima necessità; in seguito la liberalizzazione dei prezzi anche per i prodotti di prima necessità, con la sola eccezione del pane; e infine, nel luglio 1993, il raddoppio del prezzo del pane, alimento di base della popolazione, di cui l'albanese è di gran lunga il maggior consumatore in Europa. Gli albanesi hanno dimostrato un'eccezionale capacità di resistenza. [...] Nel breve volgere di due anni la situazione dell'Albania è radicalmente cambiata rispetto a quella che si presentava agli occhi di chi arrivava in questo paese nell'autunno 1991, cioè quando sono iniziati gli aiuti della Comunità europea. I progressi compiuti superano le più ottimistiche previsioni. [...] gli investimenti privati... non hanno ancora raggiunto un livello adeguato... scoraggiati... dalla non ancora totalmente scomparsa abitudine di vedere nel profitto qualcosa di anormale e di ingiusto»6
Poi, in questo paese di ascetiche virtù e cristiana rassegnazione, dove si concentrava il più alto "aiuto" occidentale pro-capite di tutto l'Est europeo, la vicenda del fallimento delle "piramidi" finanziarie è giunta con gli effetti apocalittici conosciuti.
La generalizzazione di questo tipo di finanziarie avviene nel 1994, sulla base del bisogno di capitali liquidi nel processo di privatizzazione. Inizialmente, grazie agli aiuti internazionali, il tasso di profitto di varie attività commercili e di quella edilizia superava largamente il 100% - oltre ai larghi provenienti derivanti dai commerci illeciti con l'ex Jugoslavia, benzina alla Serbia e armi alla Bosnia: in questo modo la situazione regge fino alla fine del 1995. Poi interviene la diminuizione degli aiuti internazionali, la "pace" di Dayton in Bosnia e la fine dell'embargo internazionale alla Serbia. Di fronte alla diminuizione dei profitti nei settori "tradizionali" queste finanziarie si rivolgono allora alla "torta" delle privatizzazioni industriali7; in più nella nuova legge bancaria del febbraio 1996 il Fondo Monetario Internazionale impone l'abolizione dei controlli della Banca Centrale d'Albania sulle riserve di queste finanziarie. L'anno 1996 è l'anno di maggior raccolta dei fondi, ed anche l'anno del tracollo. Le finanziarie occultano il loro fallimento per assicurare alla cricca di Berisha la vittoria ad ogni costo nelle elezioni del maggio 1996 (le finanziarie sponsorizzano il Partito Democratico, e quest'ultimo conia lo slogan "con noi tutti vincono"), e per completare l'opera di rastrellamento in mano alla giovane borghesia albanese di immense proprietà immobiliari nelle città costiere ("vendi la tua casa e investi nelle finanziarie: diventerai ricco!" dicevano gli slogan pubblicitari - le proprietà così ottenute serviranno o a scopi speculativi o come base per investimenti nel business turistico, potenzialmente molto grosso in Albania). Dall'autunno inizia il tracollo delle stesse: settimana dopo settimana sei falliscono, ed altre quattro sono sull'orlo della bancarotta. I risparmi di circa il 30-40% degli albanesi (per circa 1 miliardo di dollari) è così "sparito"8.
Il significato profondo della vicenda delle finanziarie è quella dell'accumulazione di capitale monetario da rendere disponibile ai processi di privatizzazione dell'economia e il funzionamento di uno "pseudo-welfare state" (legato al sostegno del partito al potere) come ammortizzatore della spaventosa miseria delle masse albanesi9. In questo senso è un processo che si ritrova all'opera in tutto l'Est europeo.
La campagna dei mass-media sulla "stupidità" albanese oltre che occultare questo dato rafforza quella odiosamente razzista contro le popolazioni balcaniche ("gli albanesi sono tutti criminali") e semina il veleno di un razzismo di classe ("gente ignorante, disoccupati o poveri lavoratori stupidi", l'Espresso: "Albanesi beoti" e il CorSera dixit: "con aliti da osteria", variante del dispregiativo inizio-Novecento di ciuccalitri per indicare in parti d'Italia la razza operaia) - perfettamente applicabile anche in Italia dove varianti degli schemi piramidali si conobbero negli anni '60 e '8010.
L'altra campagna odiosamente razzista che si è sviluppata in Italia è quella sull' "invasione" albanese. Dei debiti dell'Italia verso la popolazione albanese derivanti dal passato pochi han parlato: dai crimini di guerra commessi dalle truppe italiane in Albania (di cui nessun responsabile è stato mai giudicato), alla penosa vicenda delle riparazioni di guerra, ai tanti nostri connazionali salvati dai contadini albanesi dopo l' 8 settembre 194311 . Ma al di là di quest'ordini di considerazioni - pur doverose - la questione decisiva è il funzionamento perverso dell'internazionalizzazione capitalistica: apertura delle frontiere per le merci e i capitali, chiusura delle stesse per la forza-lavoro12. Solo così vengono mantenuti differenziali salariali abissali e la possibilità di enormi sovraprofitti per gli investitori occidentali. Il flusso di emigrazione verso l'Italia è l'altra faccia - ineliminabile se non a prezzi come quelli fatti subire il Venerdì santo 1997 nel Golfo di Otranto - dei destini "magnifici e progressivi" delle industrie e dei finanzieri italici, e dei lauti profitti ottenuti con i cosiddetti "aiuti umanitari".

L'imperialismo italiano
"I Balcani sono le nostre colonie, ma non bisogna mai dirlo", consigliava alcuni decenni orsono il conte Carlo Sforza. L'importanza dei Balcani per l'Italia degli anni '90 viene riassunta nel 1994 da un diplomatico italiano, Ludovico Incisa di Camerana, con queste parole:
«La storia delle relazioni tra l'Italia il mondo danubiano-balcanico ... è una storia di grandi opportunità e di occasioni mancate. Ora l'apertura dell'Europa dell'Est rimette tutto in gioco nel meglio, un ruolo guida dell'Italia nell'ambito di una missione europea, o nel peggio, una posizione subordinata e passiva dell'Italia nella regione e un peso politico decrescente nell'ambito dell'Unione Europea [...] gli interessi italiani sono palesi ... l'Italia, dopo la Germania, ma prima della Francia e del Regno Unito, è il patner più importante dei paesi della regione: lo dimostra il volume del suo interscambio con tali paesi senza eccezioni... L'interesse italiano ad un riassetto pacifico dei Balcani è quindi prioritario: solo la rimozione dei fattori locali di conflitto permette all'Italia di seguire nella regione una strategia a tutto campo [...] con una cooperazione leale con la Germania [che] lascia uno spazio più apparente a sud, nell'area più povera e conflittuale e quindi più impegnativa, all'Italia [...] le iniziative italiane vengono considerate... un'anticamera di un futuro ingresso a Bruxelles. Un'anticamera che nell'attesa si può trasformare in un laboratorio di idee e di realizzazioni [...] è anche grazie alla sua capacità di impostare una vera politica balcanica e danubiana che l'Italia si può guadagnare a Bruxelles i galloni della serie A»13.
Più brutalmente, nel pieno della crisi albanese, un fondo del Corriere della Sera sostanzialmente affermava che "l'Italia doveva diventare adulta", sostenendo il rischio di missioni militari con tutte le eventuali conseguenze (perdite umane) del caso. Meno brutalmente la campagna di stampa generalizzatasi in questi mesi in Italia ha fatto leva sulla necessità della "pacificazione" in terra d'Albania (per permettere uno sbocco "democratico" alla crisi), e su quella di aiuti umanitari a popolazioni più che bisognose. Molti, opponendosi alla spedizione militare italiana, hanno assunto tuttavia la giustezza di questi due obiettivi, subordinandoli a una politica volta alla rimozione di Berisha e ad un intervento targato ONU - solo a queste precondizioni, affermano questi settori, sosterremo l'intervento militare italiano14
Un approccio di questo tipo elimina con troppa disinvoltura alcuni dati basilari. La natura già oggi di tipo coloniale che sussiste tra Italia ed Albania - simile a quella instauratasi negli anni '20 e illustrata dal conte Sforza15.
La natura coloniale di questo rapporto è illustrato dalla rapina sistematica compiuta dal padronato italiano verso la popolazione albanese16 - taluno ha affermato, sicuramente esagerando ma non di troppo, che il 50% dell'economia albanese è controllata, direttamente o indirettamente, dall'Italia. Questa penetrazione economica si è avviata e si mantenuta grazie ai buoni uffici di varie istituzioni dello Stato italiano e non sarà mai sottolineato a sufficienza il ruolo nefasto dei cosiddetti aiuti umanitari - in cui oltre all'aspetto truffaldino sono stati decisivi i contatti avviati e i rapporti di subordinazione instauratisi17. Dal punto di vista logistico la conoscenza del territorio albanese, da cui l'Italia mancava dal 1943, è stata acquisita grazie all'operazione disarmata "Pellicano", e la subordinazione degli apparati militari albanesi è uno degli obiettivi - rivendicato pubblicamente - dell'odierna missione militare. Per chi si pone da un punto di vista antimperialista non solo, o non tanto, l'atteggiamento verso Berisha è l'elemento su cui giudicare la politica estera del governo italiano, ma i rapporti di subordinazione a cui l'Albania è stata costretta. In altri termini: Berisha è importante solo nella misura in cui è l'espressione del berishismo, intendendo con questo un sistema di potere che si fa interprete degli interessi italiani e tedeschi, chino ai comandi degli "esperti" del FMI, e disposto all'uso di qualsiasi strumento repressivo per realizzare questi obiettivi. Berishismo che può ben sopravvivere senza Berisha (e questo è l'attuale orientamento dell'amministrazione statunitense).
L'accettazione da parte di taluni dell'obiettivo della "pacificazione" in Albania - eventualmente attraverso un intervento delle Nazioni Unite - è ancor più sconcertante: è l'obiettivo della sconfitta dell'insurrezione; il disarmo della popolazione insorta per mantenere il monopolio militare allo Stato. E' negare che le masse albanesi possano avere voce in capitolo sui loro destini - non ci risulta infatti che nessuno dei sostenitori della "pacificazione" si battano per il disarmo degli apparati statali, la Shik, la Guardia presidenziale, la polizia, tutte forze che hanno gettato nel caos l'Albania e sono lo strumento militare della grande e piccola criminalità.
Quindi non è per il passato, ma per il presente coloniale italiano verso l'Albania che è da rigettare la missione militare inaugurata in aprile. Un presente coloniale con il quale la borghesia italiana gioca una sua importantissima partita. La capacità dell'imperialismo italiano a muoversi, oltre che economicamente, anche politicamente e militarmente nell'Europa sud-orientale è uno dei test decisivi per misurare il grado di "maturità" dell'Italia18, almeno quanto il rispetto dei famosi parametri finanziari di Maastricht. Un presente coloniale da combattere sul terreno umanitario, sviluppando un'attività totalmente indipendente dagli apparati statali (Ministero degli Esteri, Cooperazione italiana); sul terreno politico, dando il proprio sostegno e stringendo quanti più rapporti con gli organismi espressione del movimento insurrezionale.
Il Partito della Rifondazione Comunista è l'unico soggetto che può essere credibile agli occhi delle masse lavoratrici italiane per una battaglia internazionalista conseguente: per tradizioni anti-imperialiste, per una battaglia per la difesa e l'allargamento dell'attuale stato sociale (senza la quale le iniziative a favore degli immigrati si riducono a puro moralismo multi-etnico, multi-culturale e così via seguendo), per la difesa delle condizioni di vita dei lavoratori - in Italia e altrove19.
Il rigetto della nuova impresa albanese dell'imperialismo italiano va a onore del nostro partito. E' ora che si sviluppi una riflessione approfondita su avvenimenti che anziché essere specifici, sono invece premonitori di altri sismi sociali nei Balcani e nell'ex-URSS, e una battaglia articolata a livello di massa per portare nelle piazze la nostra opposizione e richiedere il ritiro della spedizione italiana in Albania20.

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Note:

1Mio dovere è esprimere un debito alle analisi di Georges Mitralias e di Nicos Yannopoulos, apparsi su Inprecor di aprile e maggio 1997, e di Alan Woods, di Socialist Appeal-GB (alcuni estratti dei suoi articoli sono apparsi in Guerre&Pace, maggio 1997).
2Concordiamo integralmente con il fondo di Fabrizio Casari, su Liberazione del 15.05.1997, e ci auguriamo che questo suo intervento stimoli interventi e approfondimenti - anche da diversi punti analitici - nel partito. Il nostro vuole essere un contributo in tal senso.
3D. Vlahov era personalmente membro del P.C. Bulgaro, ma la sua adesione non era pubblica.
4Ciò non implica alcuna sottovalutazione della questione nazionale nei Balcani, la cui soluzione è precondizione per ogni collaborazione regionale fra i vari paesi. Relativamente all'Albania, ci permettiamo di rinviare alle considerazioni di carattere non solo storico di A. Pipa, The interplay of Serbian, Albanian and Kosovar stalinism in the Kosova tragedy, Albanica, 1, 1990.
5Per quanto riguarda l'Italia una spesa di 120 miliardi in tre mesi di intervento militare per portare in prima battuta 4 miliardi di aiuti!
6Si veda Politica Internazionale, n. 3, luglio-settembre 1994.
7La maggiore finanziaria albanese, la Vefa, la più vicina a Berisha, e con grossi interessi italiani al suo interno, controlla più di 240 imprese di ogni specie.
8Si veda Stefano Bianchini, in Il Manifesto del 13.03.1997, Emin Barci in trad. italiana Guerre&Pace, maggio 1997 (tratto da Koha Jone), e Fon Nazi, idem (tratto da WarReport).
9Sulla situazione economica delle masse albanesi si veda il rapporto Human Development Report - Albania 1996 dell'United Nations Development Program (http://www.tirana.al/hdr96/hdrindex.html): a titolo d'esempio un salario medio operaio di 84 dollari, una retribuzione media nel settore statale inferiore a 50 dollari, mezzo milione di pensionati a 38 dollari al mese, che scende a 10 per gli ex lavoratori agricoli, 500.000 emigrati in un paese che contava 3.400.000 abitanti, ed altri 200.000 disoccupati che vivono tuttora in Albania, ecc. Si veda anche la bella intervista di "Teuta", capo-reparto di un'azienda tessile di Tirana, in: K. Barjaba-G. Lapassade-L. Perrone, Naufragi albanesi, Roma, 1996, pp. 101-122.
10Gli "schemi piramidali" sono un'invenzione della finanza statunitense degli anni '30.
11Non esiste un solo studio sull'occupazione italiana dell'Albania - e questo la dice lunga sulla rimozione italiana delle sue responsabilità in Albania; a livello giornalistico l'unico quotidiano ad essersi impegnato con respiro sul tema storico dei rapporti italo-albanesi è Il Manifesto (E. Collotti, il 06.04.1997); sulle riparazioni di guerra si veda G. P. Tozzoli, L'ultima frontiera dello stalinismo, Milano, 1989, pp. 164-173; un commosso ricordo dei destini di migliaia di soldati italiani dopo l'8 settembre è stato fatto da Tommaso Di Francesco, in Il Manifesto, 19.03.1997. Inutile dire che nessuno studio è apparso in Italia sulla Brigata Gramsci, fatta da militari italiani passati alla resistenza partigiana albanese dopo l'8 settembre.
12Andrebbero analizzate a questo proposito anche la creazione di sovrappopolazione agricola in Albania, accentuata dalla politica di Tirana, e la creazione di un enorme sottoproletariato urbano che è una massa di manovra per la cricca di Berisha: non potendo per motivi di spazio sviluppare questo punto rinviamo a A. Segré, La rivoluzione bianca, Bologna, 1994 e sul versante giornalistico il reportage apparso sul Corriere della Sera il 18 maggio 1997.
13 Relazioni Internazionali, novembre 1994.
14Si veda il documento di AssoPace, Ics ed altri in Il Manifesto del 25.03.1997; anche la mozione parlamentare del PRC contro la spedizione militare in Albania riprende alcuni punti di questo ragionamento (Liberazione, 06.04.1997)
15Con similitudini anche nei dettagli: così negli anni '20 l'Italia di Mussolini fece grosse pressioni sul governo albanese perché le forniture militari e l'addestramento delle forze di polizia e militari fossero affidate all'Italia; identiche pressioni si sono avute negli anni '90; allora Zogu, a capo dell'Albania, per sfuggire in parte al soffocante abbraccio italiano, si sottrasse a tutte le pressioni e si rivolse alla Gran Bretagna; così negli anni '90 Berisha fece lo stesso, rivolgendosi agli Stati Uniti. Inutile ricordare che in queste settimane l'Italia si è presa, a questo proposito, la sua rivincita.
16Si veda Il Manifesto, 11.04.1997 e S. Cararo in Guerre&Pace, maggio 1997.
17Si veda V. Russo, Avvenimenti, 12.02.1997, C. Macchi, idem, 26.03.1997, G. Ragozzino, Il Manifesto, 26.03.1997 e A. Spagnoli in Guerre&Pace, maggio 1997.
18Con questo non vogliamo cancellare i fattori di concorrenzialità interna all'Unione Europea, e i divergenti interessi dell' imperialismo italiano verso quello tedesco - contraddizioni che però operano in questa fase ancora a un livello latente.
19Sul caso Cotonelle, impresa che produce biancheria intima e che ha sede in Val Camonica (provincia di Brescia), e che ha attuto una delocalizzazione in parte verso l'Albania, si veda l'articolo apparso il 06.05.1997 sul Corriere della Sera, e ben ripreso il giorno dopo da Liberazione per ciò che riguarda il versante albanese; e il numero del 1997 di AltreRagioni, che si sofferma invece sul versante camuno della vicenda.
20Concordiamo con le proposte specifiche avanzate da M. Ferrando, Liberazione, 30.03.1997.


Brescia, 19 maggio 1997