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![]() LIRA E MOSCHETTOdi Sergio CararoDietro l'intervento in Albania c'è l'ambizione di una media potenza come l'Italia di ritagliarsi la propria fetta nella spartizione dei nuovi mercati balcanici. Per farlo, anche lo strumento militare può tornare utile.
I Balcani rappresentano per l'Italia la prima vera proiezione internazionale dopo il 1989 nel tentativo di costruirsi una propria area di influenza sia negli spazi lasciati scoperti dalle altre potenze (in Albania, in Romania) sia in competizione con queste (come in Slovenia e Croazia). In questi anni emerge con tutta evidenza il rapporto di competizione-concertazione con la Germania e gli Stati Uniti nella regione. Dentro la crisi che investe tuttora l'area balcanica (Albania, Bulgaria, Romania, Serbia, Macedonia) la borghesia italiana e i suoi esperti strategici vedono l'occasione per consolidare la propria presenza economica, politica e, perché no, militare. L'esigenza di stabilità politica, investimenti economici, integrazione militare che verrebbe dall'Est dell'Europa, secondo alcuni di questi novelli apologeti della "quarta sponda", dovrebbe essere raccolta dall'Italia. "L'Italia dovrebbe essere particolarmente sensibile a questo grido di dolore" scrive un commentatore italiano "perché è suo interesse nazionale che venga colmato quel vuoto strategico aperto al centro del continente" (Stefano Cingolani sul "Corriere della Sera" del 27.1.97). Appelli alla ridefinizione rapida del ruolo imperialista dell'Italia come questo sopracitato, trovano sponde ben disposte nei custodi della nuova politica estera italiana, anche in quelli del governo dell'Ulivo. "Dopo la fine della guerra fredda si è aperto uno spazio al centro dell'Europa e noi siamo candidati ad occuparlo per ragioni di contiguità geografica, di legami storici e di presenza economica" ha dichiarato il sottosegretario agli Esteri, Piero Fassino (PDS) , dopo un giro nell'Europa dell'Est che ha fatto parlare di nuova ostpolitik italiana. Ma quale è il segno di questa ostpolitik? "Consentire che ognuno persegua i propri interessi nazionali in un rapporto cooperativo, non conflittuale" precisa Fassino in una successiva intervista ("Corriere della Sera", 4.11.96). Del resto la definizione degli "interessi nazionali" dell'Italia - da almeno cinque anni al centro del dibattito e delle elaborazioni degli esperti strategici e della rivista "Limes" - è stato il tema di un convegno organizzato a luglio '96 dal Centro Alti Studi della Difesa dal titolo "Il nuovo scenario internazionale e gli interessi nazionali italiani". La regione balcanica e il bacino mediterraneo sono emersi in più interventi come "aree naturali" degli interessi nazionali italiani ("Sole 24 Ore", 23.11.96). AMBASCIATORI, MANAGER E SOLDATI La penetrazione economica, l'attivismo diplomatico e la presenza militare sono le tre direttrici con cui l'Italia sta inserendosi sempre più - dopo la prima fase di incertezza - nella regione dei Balcani. Questa politica significa anche misurarsi con gli interessi strategici delle altre potenze, interessi in alcuni casi convergenti e in altri divergenti. All'inizio del '94, l'allora primo ministro Ciampi negò agli USA le basi militari per gli aerei spia della CIA che vennero poi ospitati proprio in Albania. Un segno dei tempi, sicuramente. L'onda lunga della nuova competizione è alla base "dell'impuntatura" del governo italiano per l'ingresso nel "Gruppo di Contatto" in occasione della crisi bosniaca (che portò successivamente agli accordi di Dayton) e allo scontro sui progetti di ricostruzione della ex Jugoslavia tra Italia da una parte e Germania-Francia dall'altra. I franco-tedeschi e gli Stati Uniti hanno puntato soprattutto su Croazia e Bosnia (e recentemente anche sulla Serbia), mentre l'Italia vuole estendere i piani di intervento e ricostruzione anche alla Macedonia e al Kosovo. Sulla Serbia, l'Italia da sempre si è candidata a essere l'interlocutore economico e politico di riferimento per Belgrado, ma Francia, Germania e Stati Uniti hanno lavorato pesantemente per tagliare l'erba sotto i piedi agli investitori italiani e fare man bassa del mercato della Federazione Jugoslava (Serbia e Montenegro). La fine della guerra fredda ha posto dunque alla politica estera italiana nuove competenze e nuovi scenari con cui misurarsi. La corsa alla "nuova frontiera" dei mercati dell'Europa dell'Est vede impegnati anche i capitali italiani, che con 7,3 miliardi di dollari sono il quinto paese per investimenti complessivi nell'Est, ma sono i primi nella penetrazione economica in Albania, Romania, Croazia. L'attivismo finanziario e industriale del "polo economico" del Nordest e del "Sudest" italiano verso i Balcani è cresciuto enormemente negli anni '90. L'intervento italiano nei Balcani e nell'Est sta ormai dentro il cromosoma della politica estera italiana degli anni '90 e non sarà certo un imperialismo diverso dagli altri negli obiettivi, nei progetti e, se sarà necessario, nelle forme. Da tempo gli esperti strategici e i gruppi economici italiani stanno lavorando all'individuazione di aree di spartizione geoeconomica in cui dosare i fattori di concertazione e quelli di competizione interimperialista. Cinquant'anni dopo la Seconda guerra mondiale, la crisi balcanica e il Mediterraneo si presentano come un terreno di sperimentazione dei nuovi rapporti di forza tra le varie potenze e dunque sollecitano le ambizioni anche di una media potenza come l'Italia.
Berisha L'AMERIKANO Nel marzo del 1992 Sali Berisha, leader del Partito Democratico Albanese "gemellato" con il Partito Democratico degli Stati Uniti (e da questo abbondantemente e apertamente finanziato) nonché intimo amico dell'ambasciatore americano a Tirana William Ryerson, in un tripudio di bandiere albanesi e americane "vince" le elezioni presidenziali. Per "riconoscenza" accetterà di installare in Albania quei due aerei-spia della CIA, con relative squadre di tecnici, agenti e consiglieri, che l'Italia non ha voluto ospitare sul proprio territorio. Inoltre, nell'ottobre del '93 viene siglato un accordo di cooperazione militare bilaterale tra Stati Uniti e Albania, il primo accordo militare di questo tipo dopo la fine della guerra fredda. Il rapporto preferenziale con gli Stati Uniti si limita però al piano militare e a quello politico. Di soldi e investimenti dagli USA in Albania ne arrivano ben pochi. Sul piano economico il principale investitore resta l'Italia, che ne approfitta per condizionare anche politicamente le prospettive e la situazione interna albanese. Pur mantenendo legami con il Partito Socialista Albanese finito all'opposizione, le autorità italiane alimentano e sostengono il regime di Sali Berisha, assecondandone anche le ambizioni più pericolose. Nella seconda metà del '96 Berisha sembra aver rafforzato i propri legami con la Germania (anche nel '92 era stato in visita ufficiale a Monaco di Baviera e aveva invocato il bombardamento della Serbia); pare inoltre che abbia tentato di "alzare il prezzo" per rinnovare la concessione di due basi militari americane in Albania. Da qui potrebbe nascere lo "stato di disgrazia" in cui Berisha è caduto presso i suoi ex tutori statunitensi. pellicani e presidenti Nel settembre del 1991, tra l'Italia e l'Albania viene siglato un accordo (accordo Andreotti-Bufi) che prevede 113 miliardi di lire in aiuti alimentari per l'Albania e - contemporaneamente - un accordo tra il governo albanese e la maggiore società petrolifera italiana, l'AGIP, per la concessione di prospezioni off shore davanti alle coste albanesi. Si tratta della concessione per "esplorare bacini petroliferi marini" su 3.000 chilometri quadrati di mare albanese per 25 anni. Gli "aiuti" italiani verranno gestiti da un corpo di spedizione militare italiano composto da 500 soldati e 260 tra ufficiali e sottufficiali ("Operazione Pellicano") che occupano i porti di Durazzo e Valona, mentre una flotta militare italiana pattuglia il mare davanti all'Albania per impedire il flusso di emigranti verso le coste italiane. L'Operazione Pellicano doveva durare tre mesi (da settembre a dicembre 1991): durerà invece fino al dicembre 1993. Nel novembre del 1992, le autorità albanesi affidano il piano di privatizzazione dell'economia alla banca d'affari italiana "Mediocredito centrale", mentre il governo italiano vara un nuovo piano di "aiuti" per 217,5 miliardi di lire (di cui 121 sono "crediti d'aiuto" che obbligano l'Albania ad acquistare merci italiane). Comincia la nuova conquista dell'Albania Nel dicembre 1992, nel corso di una visita di Stato in Albania, il presidente della Repubblica italiana Scalfaro rilascia delle gravissime affermazioni contro la Serbia e di aperto sostegno alle ambizioni nazionaliste panalbanesi. Scalfaro, che era accompagnato dal ministro della Difesa e, stranamente, non dal ministro degli Esteri, chiede "piena e vera autonomia per il Kosovo" , dichiara che in caso di crisi l'Italia sosterrà "l'amica Albania" e appoggia la richiesta del presidente Berisha per l'invio di truppe ONU o NATO (ritenute dunque la stessa cosa) nel Kosovo. Un mese prima, in Germania, Berisha aveva chiesto alla NATO il bombardamento di Belgrado e tre giorni dopo aveva raggiunto un accordo militare con la Turchia. Cinque mesi dopo, nel maggio 1993, Berisha, approfittando dell'attenzione dei media internazionali sulla visita di Papa Woytila in Albania, coglierà l'occasione per rinnovare i proclami sulla "liberazione" del Kosovo e sui diritti nazionali degli albanesi in Macedonia. A maggio del '94 il gruppo bolognese Busi inaugura a Tirana lo stabilimento che imbottiglierà la Coca Cola. Accanto agli imprenditori italiani c'è Berisha, che decanta i rapporti tra Italia e Albania e le "meraviglie del mercato". Nello stesso anno la nuova Costituzione che Berisha voleva imporre all'Albania viene respinta con il 53,6% dei voti in un referendum popolare. Durante i brogli elettorali del giugno '96 il governo italiano si limita a esprimere preoccupazioni formali, ma accetta come buoni i risultati e rinnova a Berisha il suo pieno sostegno: "Si è puntato su di lui per troppo tempo, fino alla fine, pensando che fosse un baluardo di libertà contro gli ex comunisti..... Si è pensato a Berisha come ad un democratico di tipo europeo da appoggiare contro i nostalgici della dittatura " sostiene con il senno di poi Achille Occhetto, attuale presidente della Commissione Esteri della Camera ("Corriere della Sera", 14.3.97). ALBANIA, nostro SUD da sfruttare L'Italia, attualmente, è il primo partner commerciale dell'Albania. L'acquisizione di imprese albanesi da parte di società italiane riguarda settori ad alta intensità di lavoro e bassa intensità di capitale (calzature, tessile, articoli sportivi) o servizi (villaggi turistici, ristorazione). Un esempio di come i lavoratori sotto-salariati albanesi siano inseriti in una divisione internazionale del lavoro, le cui filiere partono e ritornano in Italia, è il caso della Filanto, che in Albania ha aperto nel '92 uno stabilimento con 700 operai e 3.000 lavoranti a domicilio. In Albania vengono portate le materie prime, lì vengono lavorate e poi riportate in Italia dove vengono rifinite e poi esportate secondo un processo piuttosto definito e ormai comune in tutte le aree a bassi salari: "Ogni settimana giungono con il traghetto da Otranto due Tir della Filanto. Scaricano le tomaie che vengono semilavorate nella fabbrica di Tirana e quindi riportate con gli stessi mezzi nelle fabbriche salentine perché le scarpe siano ultimate ed esportate in tutto il mondo. Obiettivo della società salentina è arrivare ad una produzione di oltre 10.000 paia di calzature di media qualità, tutte destinate a essere riesportate, portando a 3.500 i dipendenti. Ad essi vengono corrisposti mediamente intorno ai 5.000 lek, circa 70.000 lire." ("Mondo Economico", 22.5.93) I salari albanesi sono dunque pari al 5% di quelli italiani...
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