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ALBANIA QUESTA SCONOSCIUTA

di Kosta Barjaba e Gigi Perrone*

Capire le radici culturali del popolo albanese e le vere cause all'origine della rivolta contro Berisha è l'unico modo per frenare il dilagante razzismo e impedire che l'avventura neocoloniale oltre Adriatico si trasformi nella "Algeria dell'Italia"

L'usuale approccio italiano alla "questione albanese" non serve molto a conoscere la realtà; così come viene presentata dalla stragrande maggioranza degli organi d'informazione sta edificando le basi "culturali" per fare del Paese delle aquile un protettorato italiano, non per capirlo. A costo di cadere in una banalità ricordiamo che siamo di fronte all'inestricabile, vecchia matassa della "questione balcanica" e che a quel contesto bisogna far riferimento, per capire qualcosa di questo piccolo e complesso Paese, con un futuro sempre più oscuro e preoccupante.

1. Le radici culturali dell'Albania

Se si ha modo di dare uno sguardo alla produzione letteraria albanese, o più semplicemente di interloquire con un albanese, di qualsiasi status e tendenza politica, contro ogni comune copione italiano si "apprende" che la popolazione albanese non è di 3,6 milioni, ma di almeno 8; questo fa parte del senso comune albanese. Nel calcolo sono infatti inclusi kosovari, albanesi della Macedonia e della diaspora, tutti di "stirpe illira", dello "stesso sangue", "come Carlo Magno", vi sentirete dire. Ogni albanese si sente usurpato dai vicini ed è pronto a tutto per allargare i confini del proprio Paese, o meglio per ridisegnarne i "confini naturali", per "fare giustizia": è questo il brodo culturale in cui il Paese è cresciuto.

Enver Hoxha aveva puntato sull'identità nazionale tutte le sue carte e il successivo sistema pluripartitico, che si è ben guardato dal prendere le distanze da questa scelta, avrebbe ben presto sperimentato i "limiti della democrazia". Il timoniere però conosceva bene il "suo" popolo e altro non fece che incanalarsi nel solco di una tradizione laica che affondava le radici e sincretizzava nello spirito religioso del paese: "La religione dell'Albania è la causa albanese", diceva il poeta cattolico Vaso Pasha; e aggiungeva: "Non indugiate in chiese o moschee, verso il prete o il pope non avete nessun dovere, unica ragione di speranza è amare il vostro Paese".

É in questo solco culturale che bisogna cercare le possibili risposte alla questione albanese. Chi abbia realmente intenzione di capire deve rendersi conto che la partita politica albanese non si gioca sul solo tavolo della "Piccola Albania"; la preoccupazione è che a entrare in ballo sia la "Grande Albania", e non è da escludersi che questa sia l'ultima carta che lo screditato presidente intende giocare: la paura/minaccia dell'estensione del conflitto a tutti i Balcani.

2. Le strategie di Berisha impediscono la pacificazione

Berisha ha parlato immediatamente di "rivolta etnica", di "sud dominato da bande armate" e di "comunisti che guidano una rivolta armata contro il legittimo governo" democraticamente eletto. Il suo obiettivo è stato quello di scatenare una guerra civile, mettendo il nord del Paese contro il sud, ma non gli è riuscito: solo la stampa italiana ha dato eco a quest'altra inesattezza.

Da quel momento Berisha "ha puntato al caos armato: ha aperto i depositi di armi ordinando a chi li controllava di abbandonarli; ci sono ormai testimonianze di molti ufficiali in merito. Ha creato un terremoto, perché quando arriva un terremoto, i conflitti politici vengono rimandati a dopo l'emergenza", dice Fatos Lubonja, del Forum democratico albanese. La sopravvivenza politica di Berisha dipendeva unicamente dall'intervento occidentale e su di esso ha puntato tutte le sue carte. Ha convinto l'Italia, tramite il suo amico Dini, del classico: o me o la catastrofe. Prova ne sia che subito dopo aver ricevuto rassicurazioni sull'intervento, oltre a rafforzarsi con una polizia personale pagata 400 dollari mensili, contro salari medi di 100 ha richiamato i suoi pargoli che già aveva messo in salvo nel Paese amico.

Tutto ciò gli ha permesso:

- di usare la mano forte contro l'opposizione, come d'altronde già faceva dal '92, appena salito al potere (dall'1 al 7 febbraio più di 1.500 arresti e decine di morti e feriti, mentre Berisha dichiarava che "la situazione è tranquilla");

- di sospendere il barlume di diritti politici esistenti (4.3.97: censura alla stampa, coprifuoco, chiusura di scuole ecc.);

- di presentarsi come l'unico uomo che poteva governare il Paese.

Strategie politiche degne della peggiore cultura autoritaria ("enverista", si dice in Albania), di cui Berisha è il migliore interprete. Una politica sostenuta, sebbene in forma ambigua, da molti settori italiani, specialmente da quelli dell' informazione, dove riesce proprio difficile distinguere i confini della disinformazione da quelli della scelta consapevole.

3. L'ambasciatore Foresti

Nel '92 la comunità internazionale non rispettò il sacro principio dell'autodeterminazione dei popoli, come non lo ha fatto nelle ultime elezioni del '96, documentate come truffaldine dagli osservatori internazionali, ma avallate dall'ambasciatore italiano, che si è opposto e ha intrigato perché non fossero ripetute, come molti chiedevano, statunitensi compresi. Questo coinvolgimento ha impedito di riconoscere ciò che era evidente e al governo Prodi d'intraprendere una politica conseguente; su Berisha si era infatti puntato per la "transizione" e lo "sviluppo democratico del Paese". I passi successivi sono stati lineari e, quindi, disastrosi. Così Foresti è divenuto inopportunamente l'attore principale nella gestione della crisi, pregiudicando l'opera del governo italiano, che andava a essere sempre più inviso all'opposizione, in quanto garante di una politica palesemente di parte. Anche per questo vischioso appoggio il "governo d'unità nazionale" presieduto da Bashkim Fino nasce debole.

Mossa politica, anche questa, di difficile interpretazione. Berisha si era sempre opposto all'eventualità di tale governo: la scelta gli è stata in parte imposta e da quel momento ha tentato di funzionalizzarla ai propri progetti, cercando di vanificare ogni mossa politica del nuovo governo, sino all'uso delle armi per impedire che Fino visitasse il "suo" nord.

Si evidenzia sempre più come molto dipenda dalle dimissioni di Berisha, richiesta che non viene unicamente dagli ambienti d'opposizione, ma da più parti; chiunque non sia compromesso nel suo governo a "democrazia autoritaria" sa che il vero impedimento alla normalizzazione del Paese è il presidente, il quale continua imperterrito a rafforzare il proprio potere personale e avvelena la vita politica del Paese con un controllo personale degli apparati dello Stato; mentre continua l'antico uso della famigerata polizia segreta, che imperversa con schedature, minacce e repressione di chiunque non sia allineato. Ma in Italia non si ascolta nemmeno l'opposizione interna allo stesso Partito Democratico, che con un appello ufficiale di 20 deputati ha invitato il presidente a non imporre la sua personale volontà a tutto il Partito.

Durante le elezioni del maggio '96 l'opposizione albanese inviò questo appello alla comunità internazionale: "mandate oggi 500 osservatori politici per le elezioni, per non mandare domani 5.000 soldati per garantire la pace". Dobbiamo dedurre che il governo italiano preferisca la politica delle armi alle armi della politica?

Un Paese disastrato e gettato sul lastrico da una politica ferocemente liberista e corrotta è passato da "un lavoro per tutti" alla "disoccupazione di tutti", con l'aggiunta di una gestione clientelare e personalistica. La "democrazia" albanese ha operato una selezione capovolta: è prevalso il peggio in tutti i settori; non c'è settore dove non viga la corruzione come metodo. E va ricordato che tutti i principali settori della corruzione portano allo Stato: dal traffico dei clandestini a quello della droga o del commercio delle armi (cfr. il nostro Naufragi albanesi, ed. Sensibili alle Foglie). L'Università è stata depurata di tutti i dissidenti, sino a costringere alla perdita d'identità per mantenere il proprio lavoro o a far sparire intere facoltà; la metà degli studenti vi entra solo per raccomandazione; financo la patente di guida o un semplice certificato si possono avere solo per raccomandazione (senza averne il titolo). Per non parlare dei visti d'espatrio o delle concessioni governative.

4. Le connivenze degli imprenditori italiani

Gli imprenditori italiani, tutti, presentati dai media come dame di carità e non come uomini d'affari, conoscevano bene tutto ciò; ben sapevano che le finanziarie erano truffaldine e a chi erano legate; ben sapevano della collusione tra finanziarie e governo. E sapevano che riciclavano denaro sporco: insieme con l'ambasciatore italiano, ne avevano discusso poco prima del crac! E va aggiunto che, sino al giorno prima che il popolo insorgesse, per loro, come per Berisha e per l'ambasciatore italiano (e purtroppo anche per molte ONG) tutto andava bene.

Essi sono stati a dir poco conniventi. Quando, nell'autunno del '96, una delegazione del FMI aveva denunciato le finanziarie come una "barriera allo sviluppo" e ne aveva consigliato la chiusura, essi hanno taciuto, come hanno taciuto quando il loro amico presidente, rivolgendosi al popolo tramite la Tv, si faceva garante e smentiva, quanto ormai il popolo rumoreggiava, con queste parole: "Non è denaro sporco, è il denaro più pulito che esista al mondo".

Molti di loro erano di casa al Partito Democratico di Berisha, anche quando (8.1.95) questi festeggiava beffardamente fallaci traguardi: inflazione al 3,8%, tasso di crescita all'8,5%, disoccupazione al 12,1%; fittizi traguardi che permettevano al tiranno di Tropoja di lanciare la "privatizzazione totale" dell'economia gettando da un lato sul lastrico larghe fasce di popolazione, e consentendo dall'altro maggiori margini di profitto alle loro aziende. Ben sapevano che era fumo negli occhi, visto che, tre giorni dopo, il FMI smentiva questi dati, parlando invece di inflazione al 6%, disoccupazione al 30% e tasso di crescita negativo al 5%. E andava tutto bene anche il 31.1.97, quando il FMI parlava di un'Albania con un'inflazione al 17,4% e di una disoccupazione al 56%. Forse bisogna prendere atto che se per il popolo, con salari e pensioni da fame, le cose andavano male, per alcuni le cose andavano davvero benissimo!

Il governo italiano non poteva non essere informato di tutto ciò, e se, paradossalmente, non lo fosse stato, non ci si potrebbe che attendere le dimissioni dell'ambasciatore. Un atto dovuto, in una società democratica, oltre che un segnale politico di cui il Paese delle aquile oggi ha bisogno.

5. Gli arrivi del '97 tra luoghi comuni e criminalizzazione

Questa volta gli albanesi non hanno colpito con la "spettacolarità" dei loro visi scavati, malnutriti e attoniti; né con i loro vestiti sdruciti e tutti eguali. Questa volta le diversità si sono notate: ricchezza e povertà erano ben visibili, il benessere dei pochi e la fame di tanti erano evidenti. L'opera dell'economia di mercato si è vista.

Certo è che, se non si pone rimedio alle cause dell'esodo (politiche, economiche e sociali), l'Albania rischia di svuotarsi, ma non per volontà dei partenti, la cui partenza è stata coatta, di tipo politico, né più né meno nobile di quella economica, certo, solo diversa. Per quanto ci riguarda, consideriamo la loro una scelta personale; ma ricordino gli "intolleranti colti e differenzialisti" che non ci sono barriere - alte per quanto possano essere - che tengano, a difesa dei propri privilegi e contro la fame e la paura.

La politica albanese è uno specchio per tutto l'Occidente liberista; un fallimento di cui non si vuole prendere atto. Una società a guida democratica avrebbe potuto imparare molto. Invece si è preferita dapprima la spettacolarizzazione, con i riflettori puntati su una popolazione armata sino ai denti e in preda a una presunta follia omicida/suicida generalizzata; poi, in uno sbalorditivo e vergognoso crescendo, un intero popolo in cerca d'aiuto veniva stigmatizzato come "mafioso, delinquente, criminale". Nessuno voleva vedere che a sparare erano intere regioni; nessuno si è domandato se per caso non sparassero anche per la democrazia; un modo come un altro per accreditare la cultura altrui come subalterna, abusiva, inferiore e per fare il gioco berishiano. Eppure questo popolo è insorto contro un'impressionante truffa che ha fatto sparire i risparmi di migliaia di famiglie, le rimesse di 600.000 migranti - 1/6 dell'intera popolazione - e con essi, per molti, la possibilità di sopravvivenza.

Diversamente dal '91, allorché si visse un'entusiasmante partecipazione popolare - tale da far recedere il governo italiano dall'iniziale decisione di espellerli in massa, cosa che fece poi in agosto - questa volta l'accoglienza è stata freddina. Certamente le cause sono state diverse, ma indubbiamente non è stata estranea l'opera dei media, con il loro martellamento quotidiano che ha fatto associare agli immigrati albanesi i più comuni mali sociali moderni (droga, prostituzione, ordine pubblico, ecc.). Da nostre indagini in Puglia, gli albanesi risultano contendere il primato di popolazione meo gradita financo ai Rom, da sempre allo spiacevole vertice della classifica dell'intolleranza.

Le lacerazioni create nell'occasione nel tessuto sociale italiano, ad oggi, si sono fatte sentire solo parzialmente. La modificazione del senso comune si coglie in ogni occasione ed è retorico e ideologico presumere che "la sinistra" ne sia indenne, una sinistra sempre più composta da "gente comune". Tutto ciò denuncia la mancanza di progetti e programmi interculturali e di un'educazione al "decentramento del punto di vista" capaci di fungere da barriera preventiva alle smagliature della barbarie, a partire da quell'informazione che è oggi la principale responsabile della creazione di un "immaginario negativo" del fenomeno immigrazione, degradato a uno dei principali "problemi" del Paese.

6. L'insipienza della politica italiana.

Questa emergenza annunciata ha messo in drammatica luce carenze e inadempienze istituzionali, più volte denunciate dall'associazionismo; si è assistito all'incredibile assenza di strutture pubbliche, con il solito volontariato a supplire alle inadempienze istituzionali e a gestire l'inferno. Una condizione che permette di far passare per "invasione" l'arrivo di esigui gruppi di persone che cercano, principalmente, di salvare la propria vita.

Certamente si è trattato anche d'imperizia; si è data una buona dimostrazione che ci troviamo in pieno regime di basso impero, se il governo è riuscito a farsi rubare la scena dalle vergognose lacrime di un attore consumato come il sig. Berlusconi. Ma basta vedere il comportamento del governo italiano di fronte a una tragedia come quella del canale d'Otranto per capire che si tratta di una "questione di cittadinanza": difficile immaginare il sig. ministro Andreatta e tutte le élite politiche godersi santamente la Pasqua, se quegli 89 disgraziati fossero stati statunitensi. In quanti si sarebbero affrettati a chiederne le dimissioni?

Il governo "amico" è riuscito a inanellare un'incredibile serie d'errori. Dapprima ha ritardato gli interventi, poi ha cincischiato alla ricerca di soluzioni extra legem, allorché ha dichiarato di non voler "concedere asilo", contro leggi dello Stato (legge 39/90 e 774/54, con la quale si ratificava la Convenzione di Ginevra) che attendono d'essere applicate; poi ha concesso dei "visti a tempo"; infine il capolavoro del "pattugliamento" col conseguente, prevedibile "incidente" .

Ultimo in ordine di tempo, l'invio dell'esercito senza alcun chiarimento su quali debbano essere i suoi compiti e con la benedizione della destra che ha invece ben chiari i propri obiettivi: puntellare il "legittimo governo". Non crea alcun sospetto che siano quelle stesse destre che da anni avvelenano il clima sociale, anteponendo la scarsità e indivisibilità delle risorse disponibili e diffondendo il "razzismo differenzialista", le forze che ora plaudono a una iniziativa da un miliardo di lire al dì? Non crea alcun sospetto la composizione della "forza di pace", principalmente soldati italiani, greci e turchi, ossia di Paesi che hanno questioni in sospeso con l'Albania?

Una spedizione militare non può che rafforzare le strutture istituzionali, in questo caso quelle più oscure, gli apparati dello stato che sfuggono al controllo democratico e che hanno portato al disastro attuale. Non potrà che scavalcare i già anemici circuiti democratici della società civile, oppressi dalla "democrazia" berishiana, sino a farli morire e con essi ogni speranza e anelito di rinascita. Sono le strutture della società civile che bisogna vivificare, se realmente si vuole un sistema democratico in Albania. Non ci risulta, purtroppo, che si facciano sforzi in questa direzione, visto che non si chiede con fermezza nemmeno il ripristino della libertà di stampa quale precondizione per preparare democratiche elezioni. Si fa finta di non sapere che le uniche informazioni che circolano nel Paese (su stampa, radio e Tv) sono quelle gradite al presidente; gli albanesi sono informati di cosa avviene nel loro Paese dalla Tv italiana; ma anche in essa Berisha, sempre più spavaldo, ottiene troppo spazio, che usa per sparare contro l'opposizione, tentando di confonderla con le "bande armate" e in ciò ben sostenuto dai media italiani.

Quali e quanti guasti sta creando nel tessuto sociale tutto ciò? É pensabile parlare di elezioni a breve col bavaglio alla stampa? L'Albania, tra i suoi tanti difetti, ha anche quello di leggere i quotidiani: com'è pensabile che non si parli di ripristino dell'informazione, a partire dal Koha Jone, la cui sede è stata data alle fiamme dalle bande armate di Berisha, mentre si continuano a perseguitare redattori e direttore? Tutte le scuole sono state chiuse; quelle aule da cui sono partiti tutti gli aneliti di libertà, dapprima contro il monopartitismo e poi contro Berisha. Berisha sa bene quale ruolo abbiano le università in Albania e quale sia la differenza tra arrivare alle elezioni (se ci si arriverà) con gli atenei chiusi o aperti. La sua ascesa politica iniziò con l'incarico datogli dall'allora presidente Ramiz Alia - del quale era fedele alleato, essendone stato fortemente favorito nella sua scalata sociale, salvo abbandonarlo appena fiutata la direzione del vento vincente - come mediatore (nel '90) con gli studenti che occupavano le università. Nel 96/97, lui presidente, di fronte allo sciopero degli studenti di Agirocastro ha cercato dapprima di snobbarli e poi di trattarli con i soliti metodi, inviando la temuta polizia segreta (Shik), efficiente come al tempo del dittatore Hoxha.

In questo panorama, le forze democratiche e di sinistra italiane, evidentemente prive di memoria storica e dimentiche financo di Bosnia e Somalia, non trovano di meglio che perdersi dietro alla retorica del quanto la spedizione debba essere umanitaria e quanto militare. Volevano uscire da questo dubbio? Dessero uno sguardo al porto di Brindisi, a navi, uomini e mezzi pronti a partire, e se non erano ciechi avrebbero capito. E diano uno sguardo ai costi: calcolino cosa si possa fare con la stessa somma, e poi ci spieghino a cosa servono: 770 paracadutisti della Folgore e del battaglione Tuscania, gli incursori del Col Moschin, 500 fanti di marina del battaglione S. Marco, 300 fanti del reggimento meccanizzato Sassari, un reparto di lagunari e (principalmente) 16 carri armati Leopard. Forse da essi si sentiranno più garantiti i nostri "capitani d'industria" e il loro piccolo esercito (i "loro operai") che per mille lire al giorno "difendono i loro posti di lavoro".

7. Quale tipo di aiuti

É risaputo che il Paese delle aquile ha bisogno di aiuti immediati: nessuno smentisce questa urgenza. In Albania ci sono gli uomini e le intelligenze per la ricostruzione. Mancano le risorse finanziarie, c'è gente che non ha stipendi da mesi (impiegati, funzionari, medici, infermieri, ecc.), ma che è in grado di distribuire gli aiuti meglio di chiunque altro venuto dall'esterno, sempre che si mettano a disposizione i mezzi di trasporto necessari (quanti camion si acquistano con il costo di un Leopard?). Nulla di rivoluzionario, tutte cose che sono state fatte presenti da ampi settori della società e della politica (Forum democratico). Una circolazione di merci che può innescare una domanda di beni e il relativo interesse a produrli. Allo stato, il solo che muove finanze e mezzi è il piccolo tiranno con alle spalle la società piramidale VEFA.

Insospettisce pertanto la retorica di alcuni settori, ancor più quando tirano in ballo l'operazione "Pellicano", addotta a fulgido esempio di cooperazione. É bene dirlo a chiare lettere: l'iniziativa si arenò nella rete dei forti, delle clientele e della corruzione, e fu uno splendido esempio di aggregazione di future lobby senza avviare, come si constata ora, alcuna fase di reale transizione. Non è il caso di ripeterla.

Allo stato è necessaria una pausa di riflessione, "non avere fretta", come ha detto l'incaricato dall' OSCE Vranitzky, e lasciare da parte i ricorsi retorici alla dignità del Paese, come purtroppo ha fatto il presidente del Consiglio Romano Prodi. Quella patriottica "dignità" avrebbe dovuto essere mostrata piuttosto davanti allo spettacolo di poche migliaia di persone, additate al mondo intero come orde d'invasori, che non si sapeva come sistemare.

Crediamo che non sia lontano dal vero chi ha detto che l'Albania potrà diventare l'Algeria dell'Italia. Andarvi in questo momento e senza la necessaria estrema chiarezza e cautela, è solo irresponsabile. Sarebbe drammatico dover un giorno ricordare il fatidico "lo avevamo detto", in seguito a un avvenimento che faccia precipitare gli eventi, innescando una spirale di odio razziale di cui abbiamo avuto in questi giorni un preoccupante saggio.

C'è innanzitutto bisogno di pacificazione e "recupero d'immagine": come far dimenticare i morti del canale d'Otranto e le montagne d'immondizia scaricate sull'orgoglio albanese? Non si vogliono capire le profonde radici di quell'orgoglio nazionale che è stato (ed è) alla base della tradizionale "fierezza" albanese.

Ci colpirono - ma non ci meravigliarono - le risposte ad alcune interviste condotte sulle due sponde (Albania e Italia), in un confronto tra gli arrivi in Italia del marzo e quelli dell'agosto '91. Tante erano le delusioni per un progetto fallito, per la fiaba televisiva miseramente infrantasi di fronte alla brutalità della polizia italiana; i più gridavano vendetta; i delusi vivevano l'esperienza come un "affronto nazionale". Una reazione lineare con cultura e tradizioni di un popolo vissuto nell'isolamento e nella filosofia autocelebrativa: "Con pochi libri a disposizione e tutti altamente ideologizzati, gli albanesi venivano educati a una sorta di filosofia autocentrica, fondata sulla fierezza di possedere le radici più antiche rispetto agli altri popoli europei e sulla plurisecolare capacità di non piegarsi all'invasore" (K. Barjaba).

Un altro passo deve essere quello di concedere visti di soggiorno (per lavoro stagionale, per cercarlo ecc.) a coloro tra i rifugiati che ne facessero richiesta. Servirebbe, tra l'altro, a tirar fuori dai reclusori donne, bambini e uomini, colpevoli solo di non voler morire.

Nel mondo moderno si muore nell'indifferenza dei più; è necessario, quanto difficile, farsi sentire. Le condizioni dell'Albania, paradossalmente, sono divenute visibili a tutti grazie a questa disastrosa "protesta", ma il grido di dolore del popolo, in questi lunghi anni, non era mai cessato.

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* Kosta Barjaba è un docente (licenziato) dell'Università di Tirana; Gigi Perrone insegna all'Università di Lecce. Insieme all'etnometodologo francese Lapassade hanno pubblicato alcuni mesi fa anche il volume Naufragi albanesi (Ed. Sensibili alle foglie, L. 22.000), una delle pochissime opere di approfondimento sull'Albania disponibili. Il libro analizza i fattori che determinano l'immigrazione, contiene una lunga intervista a un'operaia sulle condizioni dei lavoratori albanesi prima e dopo il cambio di regime e descrive le condizioni dell'Albania nel momento cruciale del passaggio dal governo socialista a quello di Berisha, con un interessante poscritto del 1996 sui radicali cambiamenti degli ultimi anni.