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![]() TRE DECENNI DI MANIFESTAZIONI NEL KOSOVO (2a parte) di Denisa Kostovic Quando ancora non era passato un anno dalla morte di Josip Broz Tito e dal tempestoso manifestarsi della rivolta nazionale in Kosovo nel 1981, dell'intero complesso del problema del Kosovo spiccava solo un elemento: la sensazione di pericolo della popolazione serba della Provincia. Se c'era qualcosa di comune tra serbi e albanesi, oltre al territorio che condividevano, era la sensazione acuta di insoddisfazione per la situazione nel Kosovo. L'inefficacia nel sanzionare secondo la legge gli incidenti etnici, da una parte, e la loro esagerazione da parte dei media, dall'altra, ha creato una psicosi la quale ha fatto sì che entrambe le parti cominciassero a vedersi come vittima una dell'altra. Questo fatto ha rappresentato proprio la più grave eredità degli anni ottanta in Kosovo. Nel frattempo, con l'ascesa del nazionalismo serbo il diritto a essere riconosciuti come vittima è stato riconosciuto a solo una delle due parti: quella serba. Il diritto a essere vittime ha portato con se anche il diritto esclusivo al controllo sul territorio. L'abolizione dell'autonomia del Kosovo sotto gli auspici dei massimi livelli dello stato serbo, nonostante l'opposizione degli albanesi del Kosovo, ha messo a nudo il nocciolo del conflitto del Kosovo sotto una nuova luce. Un nazionalismo si trovava di fronte all'altro. Entrambi i nazionalismi - quello serbo e quello albanese - si nutrivano uno dell'altro e la possibilità di un accordo serbo-albanese sul Kosovo si è arenata nelle sabbie mobili del nazionalismo. Tuttavia, il conflitto irrefrenabile dei due nazionalismi contrari che non rinunciano ai propri obiettivi massimi, dimostra che un accordo serbo-albanese, unitamente al completo rispetto delle paure legittime di entrambe le parti, è pur sempre l'unico modo di superare il circolo vizioso che imprigiona il Kosovo. Nel periodo compreso tra l'agosto 1981 e l'agosto 1982, 10 giornali e riviste illustrati che escono in Serbia hanno pubblicato complessivamente 1685 articoli sul Kosovo, e la TV di Belgrado ha emesso 412 programmi dedicati alla provincia. Le altre testate della Jugoslavia, Serbia esclusa, hanno pubblicato altri 2253 articoli dedicati al Kosovo. Solo nel corso del 1982 si sono tenute 36 riunioni di organizzazioni socio-politiche che hanno avuto come tema di discussione principale l'"unità". Si è parlato e scritto molto nei media, si è discusso nelle riunioni dei comitati della Lega dei comunisti, ma nella Provincia non si è avuto alcun progresso verso la pacificazione della situazione. CONDANNE E ARRESTI: I pubblici funzionari dichiaravano che in Kosovo la situazione era sotto controllo. Nel frattempo, gli studenti albanesi celebravano gli anniversari delle dimostrazioni. E ancora una volta sono stati scritti slogan con chiare rivendicazioni: Kosovo-Repubblica. L'Università di Prishtina è stata l'obiettivo principale della critica. Alla vecchia definizione di "fortezza del nazionalismo" se ne sono aggiunte di nuove. Ai professori e ai docenti è stato rinfacciato il fatto che non condannavano i loro colleghi. E' stata avviata una campagna contro "gli opportunisti, i carrieristi e i 'taciturnologhi'". Sono cominciati gli arresti e i processi agli albanesi del Kosovo. Ma la fuga dei serbi e dei montenegrini continuava sempre più intensa. Solo nel 1982 sono emigrati 5.180 serbi e montenegrini, e nei primi tre mesi del 1983 altri 1.180. Il loro malcontento si faceva sempre più insistente. Negli albanesi, d'altra parte, cresceva l'impressione che la situazione stesse tornando a quella dei tempi di "Rankovic". Sia presso i serbi che presso gli albanesi si faceva sempre più forte un'impressione di insicurezza. Entrambe le parti hanno cominciato a considerarsi come vittime dell'altra parte. La dirigenza comunista albanese ha attuato una "differenziazione" tra gli albanesi. Le purghe e la resistenza che vi hanno fatto seguito hanno impedito la creazione di un consenso nella comunità albanese. Si sono fatte sentire le prime messe in guardia da parte dei funzionari del Kosovo, i quali segnalavano che gli arresti e i fermi tra i giovani erano "controproduttivi a lungo termine". Invece di suscitare biasimo contro chi ne era oggetto, hanno suscitato solidarietà. In un contesto tradizionalmente contraddistinto da famiglie ampie e da estesi rapporti di parentela, le misure repressive intraprese contro migliaia di albanesi del Kosovo hanno colpito direttamente un vasto numero di persone. La questione dell'irredentismo albanese è stata presa abbondantemente per moneta corrente. E' cominciata la diffidenza verso gli albanesi del Kosovo. La richiesta che il Kosovo diventasse una repubblica non è stata presa come un passo in direzione dell'integrazione dei kosovari nella comunità jugoslava, ma piuttosto come un passo verso la separazione dalla SFRJ (Repubblica Socialista Federativa di Jugoslavia) e verso un'eventuale unione all'Albania. Eppure, le dichiarazioni dei giovani albanesi del Kosovo in quel periodo testimoniano del fatto che erano coscienti del fatto che lo standard di cui usufruivano in Kosovo era di gran lunga migliore della qualità della vita dei loro confratelli in Albania. E inoltre non trascuravano certo né l'apertura della SFRJ verso l'Occidente né la possibilità di viaggiare all'estero come cittadini della SFRJ. D'altra parte, l'Albania ha sostenuto ben volentieri gli albanesi del Kosovo, ma non ha espresso pretese territoriali nei confronti della SFRJ; al contrario, parallelamente all'aspro giudizio rispetto alla politica condotta nel Kosovo, è stato palese l'interesse dell'Albania per il mantenimento di buoni rapporti di vicinato con la SFRJ. La collaborazione economica tra SFRJ e Albania non è stata messa in questione. Presso l'opinione pubblica jugoslava non viene mai ricordata la paura giustificata dell'Albania di essere costretta, nel caso di un'unione con il Kosovo, a mettere in conto anche l'influenza dell'ideologia con la quale è stata in guerra. La versione "enverista" del comunismo in Albania era sacra. L'unione con il Kosovo non avrebbe avuto nessuna utilità se il prezzo da pagare avesse dovuto essere quello della rinuncia alla via ideologica del grande "duce" albanese. DIFENSIVA: Già nei primi anni '80, nei commenti pubblicati da "Rilindja", organo del Partico Comunista del Kosovo, che altrimenti aderiva alla linea politica della Lega dei Comunisti di Jugoslavia e alla condanna della "controrivoluzione" degli albanesi, hanno cominciato ad apparire articoli di carattere chiaramente difensivo. Timidamente, ma in maniera chiara, venivano criticate le posizioni di cui erano imbevuti i testi e le caricature pubblicati dalla stampa belgradese. Il concetto più ripetuto era quello del rifiuto dell'identificazione di tutti gli albanesi con l'irredentismo. Si protestava contro le caricature nelle quali l'oggetto principale dell'ironia era l'aquila - il simbolo nazionale degli albanesi. [...] Lentamente cresceva la sensazione di una discriminazione nei confronti degli albanesi. Veniva evocata la politica severa nel campo dell'educazione, ma anche la censura e l'insufficiente numero di libri in albanese. E' cominciato un processo di omogeneizzazione nazionale in Kosovo. Nel frattempo, alla testa degli albanesi del Kosovo si è insediata una dirigenza che rimaneva ancora fermamente su posizioni di collaborazione con la dirigenza serba e quella jugoslava e di rifiuto di quella che ufficialmente veniva chiamata "controrivoluzione". POLIZIA: Dalla metà degli anni '80 gli avvenimenti in Kosovo, e quelli relativi al Kosovo, hanno subito un'accelerazione. Duecento intellettuali serbi di primo piano hanno firmato una petizione indirizzata al Parlamento della RS di Serbia e a quello della SFRJ, nella quale si condanna l'"indifferenza" rispetto al genocidio del popolo serbo in Kosovo. Si esigeva un cambiamento della costituzione. In Kosovo hanno cominciato a organizzarsi dei gruppi di protesta di serbi e montenegrini. Presto è arrivata anche la loro prima discesa su Belgrado. I serbi e i montenegrini del Kosovo chiedevano una difesa diretta agli organismi repubblicani e federali. Alla fine di quell'anno è giunto anche il Memorandum dell'Accademia Serba delle Scienze e delle Arti: secondo gli accademici, tra le altre cose, in Kosovo, già dal 1981, era cominciata una guerra totale contro i serbi. Presso l'Unione degli scrittori di Belgrado si sono tenute delle serate di protesta in segno di solidarietà con i serbi e i montenegrini del Kosovo. La chiesa ortodossa ha espresso solennemente le proprie lamentele per la situazione nella "antica Serbia", chiedendo tuttavia allo stesso tempo un intervento da parte della dirigenza politica serba per porre fine al trasferimento di serbi dal Kosovo. Nell'aprile del 1987, l'allora presidente del Presidium della Lega dei Comunisti di Serbia, Slobodan Milosevic, ha dichiarato la fine dell'incertezza nel Kosovo. Di fronte a un gruppo di protesta di serbi e montenegrini di Kosovo Polje ha proclamato: "Nessuno vi può picchiare". Anche se pronunciato di fronte a un gruppo relativamente ristretto di gente, il messaggio è echeggiato nella più ampia Serbia. "Alla televisione ripetevamo continuamente il discorso di Milosevic. Ed è stato questo a lanciarlo", racconta Dusan Mitevic, allora vicedirettore della TV di Belgrado. Era il prologo della "rivoluzione antiburocratica" e dell'installazione di Milosevic al potere come leader nazionale. La posizione espressa a Kosovo Polje suonava difensiva. Ma con il tempo proprio questa posizione è diventata il grido di lotta del nazionalismo serbo, che desiderava cambiare radicalmente non solo la situazione nel Kosovo, ma anche dell'intera Jugoslavia, ponendosi come principale obiettivo la sua dissoluzione. L'eruzione del nazionalismo serbo ha avuto una genesi pluriennale, che risale ancora alla metà degli anni settanta. Allora la dirigenza serba aveva avuto l'iniziativa del "Libro bianco" con il quale si dimostrava la posizione costituzionale insostenibile della Serbia "prigioniera delle provincie". Queste ultime venivano considerate come uno "stato nello stato", poiché avevano diritto di veto in Serbia, ma anche a livello federale. Veniva di conseguenza considerato come intollerabile il fatto che le provincie avessero diritto di voto nel Parlamento della Serbia, mentre la Serbia non aveva alcuna influenza sulle decisioni degli organi provinciali. Sebbene nelle provincie questa posizione venisse considerata come nazionalista, la stessa dirigenza è stata successivamente in Serbia criticata per il tradimento degli interessi nazionali. Provocazioni individuali, combinate con prezzi di acquisto molto attraenti per le proprietà dei serbi e dei montenegrini - i prezzi dei terreni e delle case in Kosovo erano da due a due e mezzo volte più alti che nella Serbia centrale - hanno spinto molte famiglie serbe a trasferirsi nella Serbia centrale. La loro partenza dal Kosovo è stata avanzata dal nazionalismo serbo come una dimostrazione del fatto che la nazione serba è minacciata e che era ormai venuto il momento di provvedere a una sua difesa. Allo stesso tempo, affinché tale argomento fosse convincente era necessaria una totale "demonizzazione" degli albanesi. Prima che la situazione dei serbi nel Kosovo venisse presa saldamente nelle proprie mani dall'ala dura dei comunisti serbi, l'atmosfera antialbanese in Serbia si è surriscaldata fino al punto di ebollizione. EVENTI: Verso la metà del 1985 il caso Martinovic ha scosso l'opinione pubblica serba. Martinovic è stato portato all'ospedale con una bottiglia nel retto e delle sue condizioni ha accusato due albanesi. Il fatto che questa aggressione sia stata presentata come un esempio flagrante della minaccia alla quale erano esposti i serbi in Kosovo ha messo in ombra l'inchiesa su questo fatto. I serbi e i montenegrini che arrivavano dal Kosovo raccontavano a Belgrado che le loro proprietà erano oggetto di attacchi, che si bruciavano loro il raccolto, le pietre tombali e i monumenti storici, che le loro donne venivano violentate dagli albanesi. In un'atmosfera talmente surriscaldata le emozioni hanno cominciato ad avere il sopravvento sui fatti. Le statistiche dimostrano che il numero delle violenze interetniche in Kosovo era decisamente inferiore a quello dei fatti di violenza nell'ambito di ciascun singolo gruppo etnico e che il numero di fatti di violenza complessivi nella provincia era minore di quello della Federazione. La paranoia serba ha raggiunto l'apice nel settembre 1987. Un soldato di nazionalità albanese, Aziz Keljmendi, ha ucciso in quel mese cinque soldati in una caserma di leva. Sebbene le vittime fossero praticamente di tutte le nazionalità jugoslave, una delle quali serba, il fatto è stato interpretato come esplicitamente antiserbo. Sono stati mandati in frantumi i vetri dei locali di albanesi in tutta la Serbia, ma anche in Macedonia e Montenegro. La Serbia si è messa in moto, si "riuniva il popolo" sulle piazze delle città serbe. Si celebrava l'unione della Serbia. Si dichiarava l'intenzione di liberare il Kosovo e se ne vantava il carattere serbo: "il Kosovo è l'anima della Serbia", "il Kosovo - sacra terra serba", "Non daremo il Kosovo" - l'irredentismo e il separatismo albanesi non sono più stati temi di discussione. La questione del Kosovo è diventata esclusivamente una questione di controllo serbo sul territorio del Kosovo stesso. Dal complesso del problema del Kosovo è stato isolato un solo elemento: la sensazione di essere minacciati diffusa tra i serbi e i montenegrini. Allo stesso tempo, a questo elemento veniva contrapposto quello della sensazione di essere miacciati diffusa tra gli albanesi del Kosovo. E questa sensazione è andata sempe più aumentando parallelamente alle accuse avanzate contro gli albanesi di essere gli unici colpevoli della emigrazione della popolazione non albanese dal Kosovo. Il nazionalismo serbo non riconosceva agli albanesi il diritto di sentirsi minacciati e con ciò nemmeno il diritto di partecipare alle decisioni sullo status del Kosovo. Nel frattempo, una nuova ondata di dimostrazioni degli albanesi del Kosovo ha dimostrato a chiare lettere che essi avevano qualcosa da dire. STARI TRG: A differenza delle precedenti dimostrazioni degli albanesi del Kosovo, la protesta questa volta è stata avviata dai minatori. Nel novembre del 1988 duemila minatori di Stari Trg, una cittadina nei pressi di Titova Mitrovica, hanno dato vita a una marcia pacifica lunga 55 chilometri. A loro si sono aggiunti i giovani. La loro meta finale era la sede dei comunisti kosovari a Prishtina e la loro richiesta era quella di annullare il cambiamento della dirigenza politica provinciale reinstaurando alla sua carica il primo uomo dei comunisti del Kosovo, Azem Vlasi. La sua opposizione alla cancellazione dell'autonomia era stata la ragione della sua sostituzione. Si trattava della stessa dirigenza che si era impegnata a combattere il nazionalismo albanese, poiché era ben conscia del fatto che l'avanzare la questione del Kosovo come repubblica avrebbe potuto portare alla cancellazione dell'autonomia. Per questo motivo aveva puntato a combattere il nazionalismo albanese. Nel frattempo, l'esplodere del nazionalismo serbo, che fruttava la sensazione di minaccia diffusa tra i serbi e i montenegrini del Kosovo, aveva portato alla fine dell'autonomia. Contro il nazionalismo serbo la dirigenza provinciale del partito non poteva nulla. Questa dirigenza costituiva l'ultima via di comunicazione attraverso la quale era ancora possibile un dialogo sul Kosovo, ma anche'essa si è infranta. Nel febbraio dell'anno seguente gli albanesi del Kosovo hanno nuovamente protestato. Oltre mille minatori di Trepca hanno cominciato uno sciopero della fame durato otto giorni, rifiutando di uscire dal sottosuolo. Alla protesta si sono uniti gli studenti e gli operai. Lo sciopero generale si è allargato all'intero Kosovo. La richiesta principale è stata quella di non retrocedere dal principio della Costituzione del 1974 e di revocare la nuova dirigenza albanese che aveva accettato le modifiche costituzionali. Il partito comunista del Kosovo ha cominciato rapidamente a perdere membri, mentre le tessere venivano restituite in massa in segno di protesta. E' stato l'inizio della fine delle posizioni comuniste presso gli albanesi del Kosovo e del raggruppamento intorno a un obiettivo unitario - innanzitutto la difesa dell'autonomia e subito dopo anche l'indipendenza del Kosovo. Il processo di cancellazione dell'autonomia si è inesorabilmente realizzato. Nell'edificio del parlamento provinciale, circondato da carri armati e da unità della polizia, sono stati approvati gli emendamenti relativi alla modifica della costituzione. I propugnatori dell'autonomia sono stati sottoposti a "isolamento", a interrogatori informativi, arrestati ed estromessi dalla vita pubblica. In quella seduta del parlamento provinciale, a quanto raccontano, c'erano numerosi "ospiti". Il Parlamento del Kosovo ha praticamente votato per il proprio autoscioglimento. La cancellazione dell'autonomia ha seguito la proceudra prevista. Il Parlamento della RS di Serbia ha approvato a sua volta gli emendamenti alla Costituzione della Serbia. In Kosovo le proteste degli albanesi contro la cancellazione costituzionale dell'autonomia si sono trasformate in dimostrazioni di massa. La presidenza federale ha inviato i carri armati per riportare la calma in Kosovo. Negli scontri sono morti 22 dimostranti e due poliziotti. Nonostante questo la Serbia ha celebrato in maniera grandiosa i sei secoli della battaglia di Kosovo Polje e la sua unificazione, mentre il Kosovo assomigliava sempre più a un effettivo campo di battaglia. La situazione è andata rapidamente deteriorandosi. Il passaggio dal 1989 al 1990 si è svolto sotto il segno delle proteste. 40.000 albanesi hanno dimostrato richiedendo l'annullamento dello stato di emergenza, riforme democratiche ed elezioni libere. Una delle richieste principali era quella della liberazione di Azem Vlasi, che era stato arrestato con l'accusa di avere organizzato lo sciopero dei minatori. Il Kosovo era sull'orlo della guerra civile. Correvano notizie che i dimostranti aggredissero i treni, gli autobus, le automobili... Le unità di polizia inviate a soffocare le proteste venivano fatte oggetto di lanci di pietre. Secondo ogni evidenza gli albanesi cercavano la rivincita per la cancellazione dell'autonomia nel momento della massima frustrazione nazionale. Scontri di dimensioni molto più ampie erano ormai nell'aria. CAMBIAMENTO DI TATTICA: Nel frattempo, nel giro di una notte, nella primavera del 1990, la tattica degli albanesi è precipitosamente cambiata. I metodi di protesta violenti, ma anche la lotta nazionale, sono stati ripudiati. E' cominciato il periodo di resistenza pacifica degli albanesi del Kosovo. L'insoddisfazione per le modifiche costituzionali non è diminuita, ma è cambiato il modo di esprimerla. Migliaia di candele accese in segno di protesta. Pentole e tegami percossi all'inizio dell'ora di coprifuoco, sirene delle fabbriche fatte andare nel bel mezzo del giorno in onore dei morti. La trasformazione della protesta da violenta in pacifica ha comportato un ritorno alla resistenza pacifica che avevano inaugurato i minatori albanesi. In Kosovo sono cessati gli scontri diretti. Ma nel frattempo lo scontro tra i due gruppi nazionali si è fatto totale. La cancellazione dell'autonomia contro la volontà degli albanesi del Kosovo ha portato a un'esplosione del nazionalismo albanese. Così come per i serbi gli albanesi del Kosovo sono stati di importanza chiave per l'affermazione della propria identità, la resistenza alle autorità serbe è diventata il punto di riferimento per l'identità e l'omogeneizzazione degli albanesi. Hanno deciso di reagire alla repressione con una lotta non violenta e la creazione di un potere e di una società paralleli: scuola, sanità, cultura... Una resistenza alle autorità serbe è stata opposta in Kosovo nel corso degli anni '80 da parte di vari gruppi illegali di orientamento marxista-leninista, ai quali probabilmente l'idea di un'unione con l'Albania era vicina. Dall'inizio degli anni '90 la resistenza contro le autorità serbe è diventata universale tra gli albanesi del Kosovo. Dopo la cancellazione dell'autonomia e la dissoluzione della SFRJ, l'obiettivo che gode di un totale consenso tra la popolazione albanese è quello dell'indipendenza del Kosovo. Allo stesso tempo, questo obiettivo rimane irraggiungibile, soprattutto per il fatto che la comunità internazionale ha affermato senza eccezioni che non ci saranno modifiche dei confini. Dopo la dichiarazione d'indipendenza, gli albanesi del Kosovo considerano Belgrado come la capitale di uno stato "straniero". Ma le mai diminuite repressioni della polizia serba contro gli albanesi dimostrano che questo stato "straniero" è decisamente presente in Kosovo. Il potere in Kosovo è in mani serbe, ma per i serbi e i montenegrini del Kosovo non si è "fatto giorno". Al contrario. In una petizione inviata recentemente a Slobodan Milosevic, decine di migliaia di serbi e montenegrini del Kosovo hanno dichiarato: "Nulla è cambiato". La comunità internazionale ha detto a chiare lettere che senza una soluzione del Kosovo e il rispetto dei diritti degli albanesi non verrà cancellato il "muro esterno" di sanzioni contro la Serbia. (da "Vreme", 11 ottobre 1997) |