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![]() NOTIZIE EST #8 - BALCANI 20 dicembre 1997 GLI STATI UNITI E I BALCANI Dove va la politica americana nei Balcani? Chi vuole saperlo, deve seguire i passi di Robert Gelbard. Il signor Gelbard agisce in maniera evidente con meno esibizionismo del suo predecessore, Ricard Holbrooke, ma il suo stile diplomatico non è assolutamente da meno di quello di Holbrooke per quanto riguarda le tattiche da "bulldozer". Chi sa leggere la mappa politica di questo angolo del mondo, è in grado di riconoscere la scrittura personale di Gelbard nel nuovo attivismo americano nei Balcani. Da quando, con la seconda amministrazione Clinton, la politica dei quadri del Dipartimento di Stato è finita nelle mani di Madelein Albright, per questa regione del mondo non c'è stata a Washington una decisione più ricca di conseguenze della nomina l'anno scorso di Gelbard alla carica di "inviato speciale del presidente degli USA e del segretario di stato per l'applicazione degli accordi di Dayton". FICCARE IL NASO DAPPERTUTTO La presenza americana negli spazi della ex-Jugoslavia ha subito nel frattempo una radicale trasformazione. L'influenza americana è diventata più decisa e incomparabilmente più aggressiva. Sotto la direzione di Gelbard, presso il Dipartimento di Stato agisce un team di quadri nuovo di zecca, che si occupa esclusivamente di "affari bosniaci". Una direzione speciale per la Bosnia è stata creata anche alla Casa Bianca. A partire dall'autunno, al Dipartimento di Stato funziona anche un Ufficio per le questioni dei crimini di guerra che, tra le altre cose, si occupa anche della coordinazione del supporto al Tribunale dell'Aja. Di Bosnia si occupano attualmente almeno cinque "inviati speciali" dell'amministrazione Clinton. In questo momento sono come minimo dieci i ministeri e gli enti statali americani (tra cui anche il Ministero delle Finanze, il Ministero del Commercio, perfino la Direzione federale per la navigazione aerea) direttamente coinvolti negli "affari bosniaci". La maggior parte delle più importanti agenzie internazionali che agiscono in Bosnia, ivi incluse quelle umanitarie e le altre di tipo "civile", è attualmente controllata da funzionari americani. Gli americani si trovano anche a Brcko, e l'americano Mark Kroker è stato incaricato di riorganizzare tutte le forze di polizia in Bosnia. Il personale dell'ambasciata americana a Sarajevo è stato recentemente triplicato. Corrono voci secondo le quali l'ufficio CIA in Bosnia è quello con il maggior numero di personale nella regione. Fonti diplomatiche affermano inoltre che non molto tempo fa hanno soggiornato segretamente in Bosnia i direttori rispettivamente della CIA e della DIA. Consiglieri americani addestrano forze militare in tutta la Bosnia, specialisti finanziari americani aiutano a fare quadrare il bilancio statale, mentre gli esperti in media riorganizzano i mezzi di comunicazione. Soldati americani distribuiscono volantini nei quali si suggerisce alla popolazione come votare in occasione delle elezioni. Americani prendono decisioni su chi deve dirigere la polizia e chi deve assumere la direzione dei vari canali televisivi. A una reporter del "Los Angeles Times", Tracey Wilkinson, è sembrato il mese scorso di trovarsi, invece che nella Bosnia centrale, in America Centrale, dove le forze americane alla metà degli anni ottanta istruivano gli eserciti "in nome della pace e della democrazia". Solo le condizioni climatiche sono diverse. Tutto questo ventaglio di attività americana non può, naturalmente, essere attribuita unicamente all'influenza di Gelbard. Al cambio della guardia "americana" in Bosnia si è arrivati quando sono giunti alla carica di segretario di stato e di consigliere per la sicurezza pubblica rispettivamente Madeleine Albright e Sendi Berger, già noti in passato per essersi occupati di questioni bosniache. Ma la scelta di Gelbard e il suo stile personale sono la personificazione di questo radicale cambiamento. Gelbard si è assunto il compito di dare una lezione a Carlos Vestendorp, fin dall'inizio del mandato di quest'ultimo, su come bisogna svolgere il proprio lavoro in Bosnia. Gelbard si è assunto anche il compito di dire ai croati sospettati di avere commesso crimini di guerra che saranno processati al più tardi entro cinque mesi [...]. Gelbard verosimilmente è responsabile in prima persona della politica di destabilizzazione della Repubblica Serba di Bosnia e ha anche deciso personalmente del destino delle stazioni di polizia e di quelle televisive (il suo spirito di sacrificio nello svolgere questi compiti è arrivato fino al punto di farlo impegnare personalmente per assicurare alla televisione di Banja Luka la trasmissione gratuita della popolare telenovela sudamericana "Cassandra", perché la sua interruzione avrebbe danneggiato la popolarità di Biljana Plavsic [...]. L'IMPERATIVO BOSNIACO Quello che è essenziale, in questo discorso, per gli jugoslavi è che la Serbia e la Jugoslavia, dal punto di vista americano, rientrano nella "periferia della Bosnia". E poiché la Bosnia è importante, è importante anche la Serbia, nella misura in cui è importante che non le si consenta di rovinare i giochi degli americani in Bosnia. Perfino la questione del Kosovo è in secondo piano rispetto all'imperativo bosniaco della politica americana. Susan Woodward [che ha lavorato a lungo come consulente dell'ONU - n.d.t.], esperto dell'Istituto Brookings di Washington rammenta a "Vreme" che nel piano di lavoro di Gelabard è stato inserito in un secondo momento anche il Kosovo. Questo "approccio regionale" non è caratteristico solo degli americani. Anche l'Ufficio dell'alto rappresentante in Bosnia è stato incaricato degli affari del Kosovo in occasione della seconda conferenza di Londra, conformemente alla logica del regionalismo. Woodward, nel frattempo, ha raccolto informazioni secondo le quali Gelbard ritiene che tra l'America e l'Europa, più precisamente tra gli USA e l'UE, debba esservi una divisione dei compiti e che sia logico, visto che Washington si è presa carico della Bosnia, che gli europei si occupino più approfonditamente del Kosovo. Sia gli uni che gli altri, nel frattempo, sono rimasti nelle ultime settimane con l'impressione di essere stati colti di sopresa dallo sviluppo improvviso e indesiderato degli eventi in Kosovo. La politica ufficiale degli Stati Uniti nei confronti del Kosovo è in questo momento quella di afermare che il Kosovo è parte della Jugoslavia e che ogni soluzione del problema del Kosovo deve essere trovata in tale contesto. Steven Berg, professore della prestigiosa università Brandais presso Cambridge, buon conoscitore della situazione nei Balcani e coautore di un nuovo libro sui conflitti nella ex-Jugoslavia che preso verrà dato alle stampe, afferma che ai leader albanesi del Kosovo questo è stato detto, in maniera chiara e univoca, in più occasioni. E' stato loro detto, allo stesso tempo, anche a quale parte andranno le simpatie degli americani nel caso di una soluzione violenta del problema del Kosovo. Tutto questo ricorda in una certa misura il dilemma di fronte al quale si sono trovati gli sloveni e i croati, che si sono anch'essi sentiti dire in maniera univoca dagli americani che gli USA sono a favore dell'unità della Jugoslavia. Ma era stato detto loro anche che nel caso in cui la Jugoslavia fosse andata con la forza verso la modifica dell'unione territoriale del paese, l'Occidente avrebbe riconosciuto la loro indipendenza. Berg afferma che nel caso del Kosovo c'è una differenza rispetto alla Slovenia e alla Croazia, e cioè che gli americani capiscono perfettamente che uno scoppio di violenza nel Kosovo susciterebbe una situazione di disordine in tutti i Balcani, si estenderebbe anche alla Macedonia, dove attualmente si trovano truppe americane. Gli americani, inoltre, vigilano con attenzione affinché i leader albanesi del Kosovo, con tutte le simpatie di cui godono per le strettezze cui sono costretti da parte dei serbi, non si sentano incoraggiati a ricorrere alla lotta armata come strumento politico. Le truppe americane inn Macedonia sono, secondo Berg, un filo sul quale è possibile intrecciare prontamente all'occasione una politica american di appoggio al separatismo del Kosovo. Per questo motivo, secondo le sue parole, alcuni politici nel Congresso americano già ora si dichiarano a favore del ritiro delle truppe americane dalla Macedonia [che proprio in questi giorni è stato prolungato per un periodo improrogabile di nove mesi - n.d.t.]. Ma finché quei soldati sono lì, gli americani scoraggeranno le aspirazioni a una secessione dalla Jugoslavia con mezzi violenti. IL CARRO DAVANTI AL CAVALLO Questo esperto americano rientra comunque nel non vasto campo dei critici della politica balcanica americana che criticano quest'ultima dal punto di vista della confusione dell'ordine delle priorità. L'attuale politica americana, secondo la quale la Serbia è importante solo nella misura in cui influisce sulla situazione bosniaca, è completamente errata, afferma Berg. "La chiave della pace nei Balcani è la Serbia. Washington, tra l'altro, mette il carro davanti al cavallo dando più importanza alla Bosnia che alla Serbia. Dimentica che è il cavallo a trainare il carro e il cocchiere è quello su cui bisogna avere innanzitutto influenza". Steven Berg in questo momento si trova di fronte all'università di Brandeis, impegnato in una grande azione per convincere le fondazioni americane che agiscono all'estero a impegnarsi in maniera estesa in Jugoslavia con programmi per lo sviluppo della società civile e per la democratizzazione. [...] Lodando le proteste dello scorso inverno contro i brogli elettorali, intanto, qualcuno di piuttosto importante nel governo americano è giunto alla convinzione che in Jugoslavia esista una massa critica di persone interessate a cambiamenti democratici. Per questo motivo dalla primavera scorsa è presente in Jugoslavia la USAID (United States Agency for International Development), un'organizzazione creata ai tempi del noto "piano Marshall". Questa organizzazione ha organizzato il mese scorso a Belgrado un grande congresso di economisti jugoslavi e mondiali sulla transizione e le riforme di mercato, cercando di dare forza e influenza in questo paese alle persone favorevoli alle riforme politiche ed economiche. La sua strategia è quella di appoggiare le iniziative della "società civile" e gli sforzi delle organizzazioni non governative per il progresso della democrazia e delle libertà politiche. Si tratta di un tipo di aiuti creato su misura per le esigenze dei paesi socialisti, ovvero di quello che in America verrebbe definito il "secondo mondo". Dove, dunque, non c'è bisogno di "sviluppo" nel senso classico in cui un aiuto allo sviluppo è necessario per il terzo mondo, ma dove è invece necessario lavorare a favore della democratizzazione e dei diritti civili. Susan Woodward afferma che i governi di norma si impegnano là dove ritengono di potere avere un'influenza attiva. Se risulta che ci sono persone che è utile appoggiare, il governo americano invierà le sue agenzie per aiutarle. Se la coalizione "Zajedno" non si fosse sciolta, la USAID, secondo Susan Woodward, avrebbe speso più soldi e avviato più programmi in Jugoslavia. [...] I PIANI DI GELBARD PER MILO DJUKANOVIC E' da tempo immemorabile che in Jugoslavia ci si domanda se gli americani a Belgrado appoggiano, nonostante tutto, Slobodan Milosevic, considerandolo come l'"uomo forte" che è pronto ad adempiere quello che ha promesso a Dayton. Fonti di "Vreme" a Washington affermano che nell'amministrazione, fino a tempi recenti (fino ai primi insuccessi in occasione delle elezioni presidenziali in Serbia) ha regnato la convinzione che Milosevic sarebbe riuscito senza sforzo a vincere le elezioni e che ne sarebbe seguito un periodo di almeno due anni di stabilità, nel corso dei quali avrebbe adempiuto alcune promesse. Ora sembra che non otterranno quanto è stato loro promesso, se non nel caso in cui Milutinovic riuscirà a sconfiggere Seselj il 7 dicembre [l'articolo è stato pubblicato il 4 dicembre - n.d.t.]. Per questo, afferma una fonte vicina al Dipartimento di Stato, nel team di Gelbard stanno frettolosamente cercando una soluzione alternativa in termini di idee e di persone. Una decina di giorni fa, Bob Gelbard, sempre secondo la stessa fonte, ha chiesto e ottenuto di incontrarsi con Milan Panic, cercando di convincerlo a impegnarsi attivamente nelle vicende politiche della Jugoslavia. Il businessman serbo-americano [in passato primo ministro serbo e candidato alla presidenza della repubblica, sconfitto per un soffio da Milosevic nel 1992 - n.d.t.] non si è dovuto fare pregare molto per qualcosa che lui stesso desidera, ma ha colto il momento per sfruttare l'occasione di chiedere al governo americano un aperto segno di appoggio (come lo aveva chiesto, senza ottenerlo, nel 1992). A quanto pare, avrebbe chiesto come segnale di un aperto sostegno americano al candidato dell'opposizione la cancellazione di parte del "muro esterno" di sanzioni ancora in vigore contro la Jugoslavia. Quel che più o meno tutti sanno, è che le sanzioni sono una palude nella quale nessuno osa inoltrarsi. A Washington sono convinti che le sanzioni siano l'unica risorsa rimasta per esercitare pressioni su Milosevic e pertanto nessuno nell'amministrazione ne prende in considerazione l'eliminazione. Negli ambienti americani si sente piuttosto parlare del fatto che la principale speranza degli americani in Jugoslavia è Milo Djukanovic [il primo ministro del Montenegro, recentemente eletto presidente in elezioni contestate dal suo opponente per brogli elettorali - n.d.t.] e che la strategia americana a breve termine per esercitare pressione su Milosevic si baserà soprattutto sulla vittoria elettorale di Djukanovic in Montenegro. Come siamo venuti a sapere dal Dipartimento di Stato, Milo Djukanovic a gennaio o a febbraio visiterà Washington dove gli verrà riservata un'accoglienza di rango più alto di quello che si meriterebbe il suo status di leader di una repubblica federata. (da "Vreme", 4 dicembre 1997) |