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![]() NOTIZIE EST #44 - JUGOSLAVIA/KOSOVO IL KOSOVO E GLI INTERESSI DI USA ED EUROPA Gli eventi del Kosovo, largamente programmati in anticipo, aprono nuovi spazi per un conflitto indiretto tra Europa e Stati Uniti nei Balcani. La sanguinosa operazione "antiterroristica" (più di 80 vittime, per due terzi civili, nessun terrorista arrestato) condotta dalle forze del Ministero degli Interni serbo nella zona di Drenica, in Kosovo, tra fine febbraio e i primi di marzo, sebbene ufficialmente motivata come risposta a un'improvvisa imboscata tesa a forze di polizia dall'UCK (l'Esercito di Liberazione del Kosovo), è stata in realtà un evento che tutti gli osservatori della zona anticipavano da almeno una ventina di giorni. Intorno al 10 di febbraio, infatti, mentre gli Stati Uniti premevano con sempre maggiore intensità per un attacco contro l'Iraq, numerosi giornali serbi, macedoni e bulgari hanno pubblicato materiali nei quali si anticipava una massiccia e sanguinosa operazione del governo di Belgrado a fine mese per porre fine alla sfida rappresentata dall'UCK e terrorizzare la popolazione. Il presidente macedone Gligorov aveva addirittura ipotizzato pubblicamente, a fine gennaio (come hanno riportato in una serie di articoli pubblicati tra gennaio e febbraio il quotidiano macedone "Nova Makedonija" e il settimanale serbo "Vreme"), la creazione di un corridoio attraverso il suo paese per fare defluire le probabili masse di profughi in Albania in seguito a operazioni di polizia di Belgrado, mentre la destra bulgara ha cominciato a sua volta negli stessi giorni a parlare di un intervento militare di Sofia in Macedonia, per difendere il paese vicino dall'imminente "invasione" di un'ondata di profughi albanesi. Nonostante la sua prevedibilità, è ancora difficile definire con precisione quale sia stato (e quale sarà in futuro) il ruolo delle grandi potenze nella crisi kosovara. Gli eventi degli ultimi mesi sembravano indicare una chiara volontà di "stabilizzazione" nell'area, dopo la rivolta albanese dell'anno scorso. L'insediamento al potere di Dodik nella Repubblica Serba di Bosnia, su pressione NATO e con l'intervento personale di Milosevic, sembrava essere stato un passo fondamentale verso una pacificazione dei Balcani sotto il controllo della NATO. Per la prima volta, in quell'occasione, gli USA avevano apertamente lodato il governo di Belgrado, accusando invece i governi di Zagabria e Sarajevo di non essere sufficientemente collaborativi. Contemporaneamente, al vertice interbalcanico svoltosi a Creta nei primi giorni di novembre dell'anno scorso avveniva una serie di incontri bilaterali che hanno portato a importanti nuove aperture, il più clamoroso dei quali è stato quello tra Fatos Nano e Slobodan Milosevic, i quali hanno rotto il gelo decennale tra autorità di Belgrado e di Tirana, avviando quella che hanno definito "una nuova fase di rapporti amichevoli". Questo incontro ha attirato sul premier albanese Nano un'ondata di critiche da parte della leadership albanese del Kosovo (sia dell'ala moderata di Rugova che di quella più radicale di Demaci), che si sono intensificate quando, nei mesi successivi, il premier albanese ha fatto una visita in Macedonia, definendo i problemi della minoranza albanese in quel paese un "fatto interno di competenza del governo di Skopje". Anche i rapporti tra Grecia e Macedonia si sono fatti molto più distesi, dopo recenti incontri al vertice, sebbene l'annoso problema del riconoscimento ufficiale del nome di Repubblica di Macedonia da parte di Atene non sia ancora stato risolto. Accanto a questi elementi di stabilizzazione, ve ne sono stati tuttavia alcuni altri di segno contrario, come la lunga crisi montenegrina, che si è trascinata per tutto il 1997 (con momenti anche di violenza, come nel gennaio scorso a Podgorica) e ha visto l'elezione del riformista e filoccidentale Djukanovic a presidente di una repubblica che, per quanto piccola, è in grado di mettere fortemente in crisi, nell'ambito della federazione jugoslava, le politiche del Partito Socialista guidato da Milosevic. In Bulgaria, l'arrivo al potere di un nuovo governo di destra nell'aprile scorso ha da un lato portato a un maggiore allineamento del paese alle politiche occidentali, ma dall'altro ha rimesso prepotentemente in gioco le pretese di Sofia di influenzare la vita politica ed economica della Macedonia, una tendenza accentuata dalla presenza nel nuovo governo di forze eredi di quelle d'anteguerra apertamente fautrici di una "Grande Bulgaria". Sia in Montenegro che in Macedonia sono imminenti importanti elezioni politiche, che nel primo caso (a fine maggio) dovrebbero risolvere definitivamente, o riaprire, il conflitto al vertice, mentre nel secondo (a ottobre) potrebbero modificare radicalmente la situazione nel paese (e di conseguenza nell'area circostante), portando al governo la destra più filobulgara e antialbanese. A questi sviluppi le potenze occidentali hanno reagito con un notevole attivismo in tutta l'area. Gli americani hanno fatto a metà febbraio, quando già si sapeva dei preparativi per un'imminente violenta repressione nel Kosovo, dei piccoli, ma significativi passi avanti nei rapporti con il governo di Belgrado, revocando alcune sanzioni economiche di secondo piano. L'Unione Europea è stata più decisa, con l'approvazione, sempre a metà febbraio, di uno status privilegiato per la Jugoslavia nei rapporti economici con l'Unione stessa. L'Italia e la Grecia, in particolare, hanno avviato ultimamente con i governi della regione rilevanti collaborazioni economiche legate alle massicce privatizzazioni avviate in Serbia, Macedonia e Bulgaria. Francia, Germania, da una parte, e Italia, dall'altra, hanno avanzato nei mesi più recenti numerose proposte di compromesso tra Belgrado e la leadership albanese del Kosovo, che hanno incontrato un netto rifiuto sia dei serbi che degli albanesi, nel primo caso, mentre nel secondo hanno portato alla firma di un ulteriore accordo sul sistema educativo tra Serbia e rappresentanti della popolazione albanese, con la mediazione della Comunità di Sant'Egidio. A livello militare vi è da segnalare l'importante annuncio dell'apertura di basi NATO in Croazia (sull'Adriatico e verso il confine con la Serbia) e in Macedonia, parallelamente a una intensificazione delle attività di Romania e Bulgaria per essere ammessi nel Patto Atlantico. Tutti questi sviluppi hanno portato al delinearsi di una situazione nella quale sembrava in ogni caso essere relegata in secondo piano la "questione albanese". Questo è stato senz'altro uno dei fattori scatenanti della crisi, espressasi da un lato con l'intensificazione delle azioni dell'UCK (Esercito di Liberazione del Kosovo), il quale gode di importanti, anche se indiretti, appoggi presso esponenti di primo piano del Partito Repubblicano americano e, presumibilmente, anche negli ambienti politici albanesi vicini a Sali Berisha, e dall'altro con la decisione da parte di Belgrado di procedere a un'azione risolutrice, in grado di sbloccare a proprio favore una soluzione in sospeso da anni, azione per la quale ha sicuramente ottenuto un avallo, più o meno diretto, da Washington e dalle principali potenze europee, sebbene con obiettivi diversi. Nel momento in cui scriviamo sembra essersi delineata con chiarezza una posizione europea di apertura di credito nei confronti del governo di Belgrado e di pressione su Rugova, largamente riconfermato nelle recenti elezioni per il governo ombra degli albanesi (sulla cui democraticità vanno espressi come minimo forti dubbi, così come su quella di un'istituzione di facciata come il parlamento-ombra, che Rugova non ha mai convocato), affinché accetti una soluzione di compromesso che preveda una notevole autonomia formale per gli albanesi, ma allo stesso tempo la definitiva rinuncia a ogni velleità di indipendenza o di unione agli altri albanesi, due esiti, questi ultimi, che costituirebbero un grosso ostacolo per gli importanti interessi economici degli europei nell'area. La posizione americana appare meno chiara, forse anche perché espressione di una leadership che non si muove in maniera omogenea sui temi di politica estera, come già si era evidenziato nel corso della crisi con l'Iraq e con gli alleati europei. Le richieste fondamentali degli americani sono identiche a quelle degli europei (compromesso tra le due leadership e ampia autonomia per gli albanesi, ma assolutamente non indipendenza del Kosovo, che destabilizzerebbe tra l'altro la Macedonia, uno dei punti di riferimento principali della politica estera e militare americana nell'area), ma l'atteggiamento di Washington si è dimostrato decisamente più aggressivo. Mentre le minacce di un intervento militare in Kosovo suonano abbastanza improbabili a breve termine (un intervento di tale tipo a sostegno della popolazione albanese alienerebbe agli americani le simpatie di buona parte dei loro attuali amici e inoltre gli americani sono già pesantemente impegnati in Bosnia e nel Golfo Persico), così come quelle di imporre un embargo (che destabilizzerebbero l'intera regione), è probabile che gli americani intendano sfruttare questa occasione per insediare limitati, ma politicamente influenti, contingenti NATO nei paesi che confinano con la Jugoslavia ed esercitare in tal modo un controllo ancora maggiore su Milosevic, il cui regime è sotto la forte ipoteca dell'elezione di Djukanovic in Montenegro (anch'egli sostenuto dagi USA), ma allo stesso tempo anche sulle popolazioni albanesi dell'area. Significativo è, in un tale contesto, il riemergere di una figura come quella di Milan Panic, il miliardario serbo con passaporto americano, vicino alla Casa Bianca e che è stato particolarmente attivo nei giorni della crisi in Kosovo, con i suoi continui interventi sui media e una serie di importanti incontri con Gligorov, Nano e Dodik. Non è da escludersi, tuttavia, che a medio o lungo termine alcuni ambienti americani possano premere per un coinvolgimento militare diretto nel Kosovo fino a ottenerlo, sulla base di un ragionamento secondo il quale un tale intervento andrebbe comunque fortemente contro gli interessi degli europei e potrebbe costringerli a una politicamente umiliante "adesione per forza" a un intervento americano. Si tratterebbe però di una soluzione che si potrebbe ritorcere contro gli USA, se un intervento manifestamente da loro voluto venisse all'ultimo tempo impedito, come è avvenuto in Iraq. Rimane il fatto che anche gli europei potrebbero presto essere a loro volta interessati a un intervento militare nell'area che faccia da puntello a regimi amici in forte difficoltà. Gligorov e il suo partito, infatti, rischiano di passare interamente in secondo piano in Macedonia con le prossime elezioni, Fatos Nano non riesce a far compiere passi avanti al suo paese e Berisha rimane forte (come ha dimostrato con l'insurrezione di Scutari di inizio febbraio, non a caso organizzata proprio quando si è cominciato a parlare di un'azione repressiva di Belgrado nel Kosovo), ma anche due governi sui quali l'Europa puntava molto, quello di Bucarest e quello di Sofia, si trovano in una situazione critica, dovuta all'incapacità di ottenere concreti risultati economici e politici, nonostante i drastici sacrifici imposti alle loro popolazioni e il sostanzioso sostegno ottenuto dall'Occidente. In questo quadro, va notato che l'unico regime stabile sembra essere quello di Milosevic, anche se la probabile massiccia presenza nel nuovo governo di una forza visceralmente nazionalista (e antialbanese) come il Partito Radicale di Seselj, renderà senz'altro più difficili i suoi rapporti con l'Occidente. Tra gli albanesi, lo stesso Rugova potrebbe essere interessato a provocare in ogni modo un intervento militare occidentale (che d'altra parte ha già chiesto a chiare lettere) nel caso in cui si dovessero riattivare le forze contrarie alla sua politica di attendismo e di compromesso con Belgrado (cioè l'UCK e il governo kosovaro in esilio guidato da Bukoshi, nonché l'Unione degli Studenti e figure di prestigio presso la popolazione come Adem Demaci). Se dunque nel momento in cui chiudiamo il numero sembrerebbe più probabile una soluzione che vada verso un compromesso tra Rugova e Milosevic, senza che sia ancora chiaro se essa sarà più vicina agli interessi degli europei piuttosto che a quelli degli americani (e cioè con qualche premio per Milosevic e una conservazione dello status quo nel primo caso, mentre nel secondo caso si avrebbe un'intensificazione della presenza militare NATO nella regione e forse, a medio termine, qualche cambiamento di leadership politica), non è escluso che un rafforzamento improvviso delle forze radicali tra la popolazione albanese o lo scoppio di crisi politiche gravi in paesi confinanti possano fare convergere gli interessi di chi, per diversi motivi, è interessato a un intervento militare. Quello che è sicuro è che entrambe le soluzioni sono delle non-soluzioni. Come è già stato rilevato in un altro articolo pubblicato da "Guerre&Pace" (vedi articolo Milos Vasic, G&P n. 46, febbraio 1998) il problema del Kosovo ha radici sociali e non può trovare alcun esito stabile a livello esclusivamente diplomatico o, peggio ancora, militare. Le azioni dell'UCK potranno anche essere in buona parte frutto della manipolazione di forze più o meno occulte, ma resta il fatto che in tutte le aree a maggioranza albanese (in Albania, in Kosovo e in Macedonia) c'è una massa enorme di giovani senza lavoro e senza prospettive, spesso emarginata allo stesso tempo sia a livello sociale che nazionale, e che non ha nulla da perdere in una eventuale lotta armata. Rimane anche il problema nazionale albanese, che deve comunque trovare una soluzione complessiva, senza negare i diritti all'autodeterminazione e nel completo rispetto della convivenza con le altre popolazioni. Un problema che non può essere risolto se non in un contesto balcanico generale che veda finalmente protagoniste le forze sociali e non quelle militari o diplomatiche. (da "Guerre&Pace", n. 48/49, aprile-maggio 1998) |