Balcani


Home

Ex-Jugoslavia

Scriveteci

I Balcani


NOTIZIE EST #49 - JUGOSLAVIA/KOSOVO
4 giugno 1998


KOSOVO: TRA PROFUGHI E NATO

Mentre le autorità serbe cantano vittoria per le operazioni di questi giorni, le aree degli scontri continuano a essere isolate dal mondo e Belgrado rifiuta perfino alla Croce Rossa l'accesso alla regione. Secondo i corrispondenti della Reuters e del Times di Londra lo scopo delle forze serbe sarebbe quello di fare il deserto nelle zone al confine con l'Albania per rendere più difficile il flusso di armi provenienti da tale paese, e scacciare i guerriglieri dell'UCK verso la zona di Drenica (dove sono stati compiuti i massacri di inizio marzo) per poi assediarli e sconfiggerli con le armi o con la fame. Altre agenzie segnalano che la città di Pec, al confine del Montenegro, sarebbe affollata di profughi e priva di rifornimenti. Oltre agli 11.000 profughi giunti fino a ieri in Albania, fonti ONU stimano in circa 50.000 il numero dei profughi ancora all'interno del Kosovo. Un altro fatto da notare è che mentre le televisioni di mezzo mondo stazionano in Albania per filmare i profughi in arrivo, in realtà vi è un flusso altrettanto intenso verso il Montenegro (7.000 profughi fino a ieri). Va segnalato inoltre anche un flusso più contenuto di centinaia di musulmani e di serbi anch'essi fuggiti verso i centri maggiori della provincia o in Montenegro.

Intanto proseguono le dichiarazioni ormai al limite del ridicolo (se non ci trovassimo di fronte a una tragedia) riguardo a eventuali decisioni della NATO. Oggi il portavoce dell'Alleanza a Bruxelles (dopo essersi sentito in dovere di precisare che "la NATO è un'organizzazione seria", cosa della quale ormai molti evidentemente dubitano) ha ribadito che non è possibile alcun intervento occidentale in questo momento, perché qualsiasi operazione richiede una lunga preparazione (secondo fonti anonime citate dalla Reuters, nessun piano di intervento potrà essere pronto prima della fine del mese), dimenticando che a fine gennaio già tutti i giornali della regione parlavano a chiare lettere di quello che stava per accadere e che è puntualmente accaduto. In realtà, il continuo ripetere la possibilità di un invio di truppe in Albania e in Macedonia ha il preciso significato politico di volere interrompere il flusso di armi verso l'UCK, di tenere a bada gli albanesi di Macedonia, di sostenere di fronte alla crisi i traballanti regimi di Gligorov e di Nano - si tratta di un messaggio che non può che portare l'UCK a forzare al massimo le proprie azioni prima che ciò avvenga e Belgrado a cercare di risolvere in modo violento la situazione nel più breve giro di tempo possibile mentre le grandi potenze temporeggiano, per potere poi offrire loro una Serbia "stabilizzata". Per la NATO, dopo il "successo" bosniaco, l'attuale crisi è un'enorme fonte d'imbarazzo e di impaccio, che porta alla luce la sua indisponibilità di essere impegnata allo stesso tempo su due fronti di conflitto e la sua paralisi politica di fronte all'evidente divergenza di interessi dei suoi membri (già evidenziatasi durante i preparativi per l'allargamento del Patto a Est). Una notizia di questi giorni sembra indicare una strada che l'Alleanza intende prendere per risolvere questo problema: nei giorni scorsi è stata approvata la creazione di una struttura militare multinazionale di pronto intervento formata da divisioni militari dei paesi balcanici nell'ambito della Partnership per la Pace (un'organizzazione NATO), con la partecipazione di strutture di comando dei tre paesi "con interessi nell'area": Italia, Turchia e USA. Con il tempo, potrebbe essere questo tipo di organizzazioni a rilevare gli oneri e i rischi di operazioni troppo pericolose per la NATO o che rischiano di portarne alla luce l'inefficacia. Rimane il fatto che per il Kosovo l'unica soluzione stabile e che vada nell'interesse dei suoi abitanti è una soluzione politica e non militare e che, anzi, il manovrare politico nell'area da parte della NATO e dei suoi paesi membri non ha fatto che aumentare le tensioni e i focolai di conflitto.

Alcune dichiarazioni e iniziative di ieri sono utili per avere un'idea della linea occidentale. Lo spagnolo Ruperes, che guidava una delegazione dell'OSCE a Pristina, ha trovato opportuno dichiarare unicamente che "la comunità internazionale è assolutamente contraria a ogni tipo di secessione e condanna in maniera netta il terrorismo", aggiungendo che il problema del Kosovo può essere risolto solo all'interno della Serbia. Il ministro degli esteri austriaco Sisel è giunto a Belgrado, anch'egli in veste di inviato OSCE, e oggi si incontrerà con le autorità jugoslave, alle quali proporrà la riammissione della federazione jugoslava all'OSCE. In Kosovo è giunto anche un alto diplomatico tedesco, il quale ha a sua volta dichiarato che "tenendo conto dei circa 150.000 immigrati irregolari dal Kosovo attualmente presenti in Germania, il nostro paese è particolarmente interessato a una soluzione del problema". I tedeschi hanno di recente firmato un accordo con Belgrado per il rimpatrio forzato di tali immigrati e il ministro degli esteri Kinkel ieri ha lanciato un grido d'allarme, perché "vi è il rischio che un'ondata di profughi dal Kosovo invada l'Europa" - evidentemente per Kinkel l'Albania e il Montenegro non sono in Europa. Criptica invece la dichiarazione del ministro degli esteri italiano Dini, che di fronte ai massacri e ai profughi di questi giorni non ha trovato di meglio da dire che "ora dobbiamo riconsiderare meglio l'intero quadro alla luce di sviluppi che non stanno andando nella direzione giusta". Più pratico il premier britannico Tony Blair: "Non penso che possiamo permetterci di avere una situazione di disordine che si diffonde in quella parte del mondo", una dichiarazione che riassume in maniera efficace la posizione occidentale preoccupata essenzialmente di mantenere la stabilità delle istituzioni statali dell'area balcanica e di arginare la massa di profughi ai soli paesi confinanti con il Kosovo. Anche se sembra molto improbabile, vista la quantità di problemi pratici, non è da escludersi a medio termine la possibilità di un intervento armato occidentale nello stesso Kosovo (in tal senso sta premendo in questi giorni la lobby filoalbanese nel Senato americano), che tuttavia in un tale contesto potrebbe essere mirata soprattutto a impedire una "liberazione" del Kosovo con le armi da parte dell'UCK e a sostenere la molto più affidabile (per gli occidentali) leadership di Rugova, premendo allo stesso tempo per un ricambio di Milosevic al vertice jugoslavo.

Sul fronte della leadership albanese, c'è da notare come in questi ultimi dieci giorni in cui il Kosovo è nei fatti in guerra, il presidente-ombra Rugova abbia proseguito il suo viaggio, interrompendolo improvvisamente solo ieri. Un viaggio che ha avuto punte umilianti, comq quando la Albright a Washington gli ha ricordato che, indipendentemente da quello che accade, dovrà proseguire i colloqui con le autorità serbe (anch'essi cancellati all'ultimo secondo ieri sera, evidentemente su pressioni provenienti in tal senso da Pristina, e non da Rugova), senza porre alcuna condizione. Il viaggio di Rugova non fa che confermare la linea politica di questo leader, più preoccupato di adeguarsi agli interessi occidentali che di difendere gli interessi del proprio popolo, una linea che sembrerebbe confermata dal fatto che il suo partito, che detiene il controllo politico della provincia, non ha organizzato alcuna mobilitazione in questi giorni, a differenza di quanto aveva fatto nei mesi scorsi. Oggi si è pronunciato sulla situazione anche il suo oppositore Adem Demaqi, leader del PPK: "Rugova non è in grado di chiedere all'UCK di interrompere le sue azioni. Non ne vogliono sapere nulla di lui", aggiungendo che l'UCK "un mese fa controllava 200 chilometri quadrati di territorio, oggi ne controlla 3.000 e circa 250 villaggi con un numero di abitanti compreso tra 700 e 800.000". "Molte persone sono rimaste senza casa e molte hanno avuto parenti uccisi. Non hanno dove andare se non dall'UCK" e ha continuato affermando che "Rugova ha perso l'appoggio del popolo" nel momento in cui si è incontrato con Milosevic. "La Serbia vuole costringere gli albanesi del Kosovo ad accettare un'autonomia unicamente culturale, una cosa che per noi è assolutamente inaccettabile". Su Rugova si permette di ironizzare anche un ufficiale delle forze speciali della polizia serba, che, dopo avere descritto i piani per costringere i guerriglieri dell'UCK a rifugiarsi nella zona di Drenica per poi assediarli e vincerli con la fame o con le armi, ha concluso: "Così Rugova potrà dire a quelli dell'UCK, una volta che li avremo ammanettati, 've lo avevo detto che non dovevate combattere'". Ieri un comandante dell'UCK è stato intervistato dalla televisione albanese, alla quale ha dichiarato che "le forze politiche albanesi del Kosovo sono indifferenti rispetto alla nostra lotta e quindi si sono dissociate dal popolo. L'UCK ritiene che nessuna trattativa debba essere aperta senza la partecipazione di suoi rappresentanti".

C'è da segnalare anche un primo sondaggio sulle elezioni che si terranno nella vicina Macedonia a metà novembre. Si tratta di un sondaggio da prendere con la dovuta cautela, essendo stato realizzato dal giornale "Nova Makedonija", che è praticamente l'organo del partito al potere, la SDSM. Secondo i dati pubblicati, i socialdemocratici della SDSM (il partito del presidente Gligorov) otterrebbe il 18% dei voti, praticamente a pari merito con il partito nazionalista di destra VMRO-DPMNE, con il 17,2% e seguito dal Partito Liberaldemocratico (alleato della VMRO-DPMNE) con il 10,2%. La novità è però il balzo in avanti del PDPA-NDP, il partito più radicale della minoranza albanese, che triplica praticamente i suoi voti arrivando anch'esso al 10%, mentre scendono nettamente le quotazioni del partito albanese più moderato, il PDP, che fa parte dell'odierna coalizione governativa, che otterrebbe solo il 5% dei voti. Il 26% circa degli intervistati non ha dichiarato le proprie preferenze. Lo stesso "Nova Makedonija" ha pubblicato alcuni giorni fa un interessante servizio sulle posizioni adottate dai due partiti degli albanesi di Macedonia rispetto ai più recenti eventi. I dirigenti del PDPA-NDP, durante una recente visita a Tirana, si sono detti nettamente contrari a ogni invio di truppe NATO in Macedonia e in Albania ("in tal modo, il Kosovo verrebbe messo in quarantena e si aprirebbero le porte per un massacro degli albanesi da parte dei serbi"). E' tuttavia interessante notare che questo partito si è dichiarato nettamente contrario anche a un eventuale intervento NATO nello stesso Kosovo, affermando che "una soluzione per il Kosovo deve essere trovata dagli stessi albanesi"; la PDP, invece, ha criticato per i medesimi motivi le intenzioni del Patto Atlantico di inviare truppe nei due paesi confinanti con il Kosovo, ma ha invece chiesto a chiare lettere "un intervento della NATO all'interno del Kosovo". Il PDPA-NDP inoltre ha definito l'UCK "la voce del popolo kosovaro e non un gruppo terroristico" e ha criticato Rugova per essersi incontrato con Milosevic, mentre i moderati del PDP hanno affermato: "non pensiamo che l'incontro Milosevic-Rugova possa portare a risultati utili, ma si è trattato comunque di un fatto positivo". I radicali del PDPA-NDP hanno infine fortemente criticato Fatos Nano per le aperture operate nei confronti di Milosevic riguardo al Kosovo in occasione dell'incontro di Creta del novembre scorso, mentre il PDP ritiene che tale incontro non abbia avuto conseguenze negative. Entrambi i partiti, tuttavia, concordano sul fatto che i due incontri si sono svolti unicamente per le pressioni esercitate da USA ed Europa sugli albanesi e non per una loro decisione spontanea.

(fonti: Reuters, AP, Beta, "The Times", "Nova Makedonija" - selezione e traduzione: A. Ferrario)