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![]() NOTIZIE EST #59 - JUGOSLAVIA/KOSOVO LA NATO CONTRO LA PACE Gli ultimi dieci giorni hanno visto un preoccupante crescendo di appelli per un intervento NATO mirato a risolvere la situazione in Kosovo, con opzioni che vanno dalle manovre militari e lo stanziamento di truppe ai confini della provincia, fino agli attacchi aerei sul suo territorio e addirittura un intervento diretto sul terreno. In realtà, nessuna di queste opzioni può contribuire a una vera pace e a una soluzione duratura e giusta del conflitto in Kosovo, anzi, si può con sicurezza affermare che tutti questi scenari non potranno fare altro che complicare ulteriormente un conflitto, al cui scoppio la presenza della stessa NATO nella regione non è certo estranea. DALLA "PACE" IN BOSNIA A DRENICA Se si ripercorre l'evoluzione della situazione nei Balcani nell'arco dell'ultimo anno, non è difficile individuare una strada che porta direttamente dalle manovre diplomatiche e militari, dalle stragi e dalle pulizie etniche che hanno reso possibile la "pace" di Dayton, conclusa sotto l'egida della NATO, all'attuale conflitto in Kosovo. Gli Stati Uniti, in particolare, hanno dall'anno scorso particolarmente intensificato le proprie azioni diplomatiche per una "stabilizzazione" dei Balcani, aprendo dei canali di comunicazione con Milosevic che hanno facilitato l'insediamento alla guida della Repubblica Serba di Bosnia di una protetta di Belgrado, Biljana Plavsic, a scapito della leadership più radicale di Radovan Karadzic. Sul fronte del Kosovo questa linea si è tradotta in un proseguimento della strategia di appoggio completo alla politica di resistenza passiva di Rugova, ma, ambiguamente, non al suo obiettivo ultimo, quello dell'indipendenza. Sempre in questa ottica, nell'aprile dell'anno scorso gli Stati Uniti sono intervenuti pesantemente nella vita politica interna degli albanesi del Kosovo, chiedendo e ottenendo da Rugova il rinvio per decreto del voto per l'elezione di un parlamento-ombra il cui mandato era già scaduto da un anno, una scelta che ha indubbiamente radicalizzato lo scontro tra le varie forze politiche albanesi del Kosovo. In quel periodo, l'Occidente aveva tre obiettivi fondamentali da perseguire per mantenere il proprio controllo sui Balcani e l'Europa Orientale in generale, che rischiavano di essere pesantemente compromessi da una destabilizzazione della situazione in Kosovo: la cessazione della rivolta in Albania, l'allargamento a Est della NATO e l'ottenimento da parte del Senato americano, a maggioranza repubblicana, dell'approvazione per il proseguimento dell'operazione SFOR in Bosnia. Nel frattempo, si è avuta un'intensificazione dell'appoggio occidentale al regime di Gligorov in Macedonia, diventata uno dei punti chiave della strategia militare della NATO per il controllo dei Balcani. E' sempre nella primavera scorsa che sono cominciati i progetti per lo stanziamento di truppe del Patto Atlantico nella grande base di Krivolak, in sostituzione alle truppe ONU presenti nel paese dal 1991. A livello politico il sostegno a Gligorov è diventato praticamente incondizionato, nonostante il fatto che per quanto riguarda la politica interna il suo regime abbia poco da invidiare a quello di Milosevic in termini di controllo dell'economia da parte di gruppi politici, di controllo dei media da parte del governo e di negazione dei diritti della popolazione albanese (alla quale è stato negli anni scorso tolto lo status di nazione costituente - la Macedonia oggi è "lo stato della nazione macedone" - e alla quale viene negato il diritto agli studi superiori nella propria lingua, mentre persiste una segregazione di fatto a livello economico e amministrativo). Tutti questi fattori hanno spinto a un intensificarsi delle attività delle ali più radicali della scena politica albanese del Kosovo (l'UCK, gli studenti, il governo in esilio e alcune formazioni di minoranza), che hanno fatto un salto di qualità quando allo scenario della "stabilizzazione" dei Balcani si è aggiunto un nuovo tassello, quello degli incontri al vertice tra Nano e, rispettivamente, Milosevic e Gligorov, entrambi voluti dall'Occidente, e con i quali il leader albanese ha apertamente rinunciato a difendere la causa delle minoranze albanesi nei due paesi confinanti. Contemporaneamente, in Albania i paesi occidentali hanno sostenuto in maniera attiva e acritica il governo Nano, la cui politica corrotta, autoritaria e servile verso le grandi potenze sta consegnando alle bande di Berisha i favori del Nord del paese, che per motivi geografici, storici e politici è fortemente legato ai propri connazionali del Kosovo. Successivamente, nel febbraio di quest'anno si è avuta una nuova apertura di credito politico nei confronti di Milosevic per la sua collaborazione all'opera di stabilizzazione politica della Bosnia, questa volta con la rinuncia a ostacolare l'insediamento del filoccidentale Dodik a Banja Luka. Il quadro era completo: la rivolta albanese era stata sedata e in tutti i segmenti della Bosnia erano state insediate dirigenze affidabili, il voto per il proseguimento della essenziale presenza militare americana in Bosnia era stato ottenuto e la prima fase dell'allargamento a Est della NATO era stata sanzionata, con un particolare, però: tutto era avvenuto a scapito degli obiettivi di indipendenza degli albanesi del Kosovo e con l'aiuto fondamentale di Belgrado e Skopje, nonché con la rinuncia da parte di Tirana a ogni sostegno alla causa kosovara. Pochi giorni dopo, puntualmente, scoppiava il conflitto in Kosovo, che vedeva Milosevic cercare di offrire sul piatto all'Occidente anche una soluzione violenta di questo problema e Rugova riconfermare il proprio mandato sull'onda dell'"unità nazionale" contro le stragi dei serbi. Ma evidentemente non era stato messo in conto il livello di radicalizzazione tra la popolazione albanese e la forza dell'UCK che, sconfitto in un primo momento, ha ripreso le proprie attività. Il tentativo di pacificazione operato dai paesi NATO a metà maggio, che ha portato all'apertura "forzata" di una trattativa tra Rugova e Milosevic alle condizioni di quest'ultimo, non ha fatto prevedibilmente che intensificare le azioni da parte dell'UCK (e parallelamente le operazioni dei serbi per "pacificare" la regione a cannonate). Risulta evidente che in un tale contesto e con tali precedenti un intervento NATO non potrebbe avere che effetti disastrosi sulla situazione della regione. E in realtà il quadro che abbiamo dipinto non è nemmeno completo: l'intervento NATO in Bosnia è stato reso possibile dalla precedente violenta pulizia etnica della Krajina, la regione croata a maggioranza serba, effettuata con l'aiuto materiale degli USA e che ha provocato un'ondata di centinaia di migliaia di profughi serbi da quella regione (alcuni dei quali finiti in Kosovo e subito entrati nel mirino dell'UCK), una ferita che peserà per anni sull'intera regione. Il manovrare politico e militare dei paesi NATO nei Balcani e la scelta di Gligorov come proprio punto di riferimento nella parte meridionale dell'area hanno intensificato inoltre il conflitto tra la Macedonia e la Bulgaria, che si è tradotto in una vera e propria escalation delle ambizioni egemoniche di Sofia, dispiegate come arma per ottenere maggiore peso politico agli occhi dell'Occidente. LA NATO CONTRO LE POPOLAZIONI DEI BALCANI Gli effetti delle politiche dei paesi NATO non si fanno sentire solo nell'ambito diplomatico e militare, ma anche in quello politico e sociale interno dei singoli paesi e sono effetti, anche in questo caso, disastrosi e forieri di conflitti. Il progetto di allargare ulteriormente l'alleanza a Est ha scatenato una vera e propria corsa da parte dei governi della regione a presentarsi come i più idonei per un'ammissione che queste leadership vedono come il biglietto di entrata nel mondo dei grandi affari e della grande politica, e allo stesso tempo come una garanzia militare del proprio potere. Questa corsa si traduce, oltre che nell'apertura di conflitti tra gli stati (come abbiamo visto nel caso di Macedonia e Bulgaria), anche in un rafforzamento delle misure di controllo interne per realizzare i criteri politici ed economici posti dall'Alleanza agli stati candidati. Così, in tutti i paesi senza alcuna eccezione, si tagliano i fondi per l'educazione, la sanità, la previdenza sociale e la sicurezza sul lavoro, mentre crescono enormemente quelli militari. Allo stesso tempo, per risultare adeguati ai criteri di economia di mercato esplicitamente posti dalla NATO per l'ammissione, vengono adottate in misura sempre maggiore misure repressive o antisociali. Sono numerosi gli esempi che possono essere citati. In Macedonia, per esempio, vi è stata la violenta e ingiustificata repressione dello sciopero dei macchinisti nel novembre scorso o la dura condanna (13 anni in prima istanza, 7 anni in appello) inflitta al leader albanese Osmani per reati puramente di opinione. In Bulgaria il governo sta adottando un'impressionante serie di misure antidemocratiche, che vanno dalla possibilità per la polizia di spiare liberamente e senza alcun controllo la vita dei cittadini, all'abolizione delle elezioni nei piccoli centri con la nomina invece di prefetti da parte dello stato, al controllo diretto del governo sugli organi giuridici e a normative che limitano la libertà di espressione dei giornalisti, senza contare che anche in questo paese sono state e continuano a essere numerose le repressioni violente e il deferimento ai tribunali dei lavoratori in sciopero, nonché le discriminazioni nei confronti delle minoranze. In Romania il presidente Costantinescu ha direttamente messo in collegamento gli sforzi per aderire alla NATO con la necessità di adottare drastiche misure antipopolari - anche in questo caso a nulla sono valse le numerose mobilitazioni dei lavoratori. In Croazia proseguono le repressioni nei confronti dell'opposizione e di chi ha semplicemente opinioni diverse da quelle del governo, mentre nella primavera scorsa sono state violentemente represse con interventi della polizia manifestazioni oceaniche contro le politiche economiche che si intende applicare. E' ovvio che senza un miglioramento delle condizioni economiche e sociali delle popolazioni dei Balcani e senza una vera democrazia nessuna pace stabile è possibile nella regione. Ma anche in questo caso le politiche della NATO sembrano andare esattamente nella direzione opposta. IL RUOLO DELL'ITALIA L'Italia svolge oggi nei Balcani un ruolo di primissimo piano, sia in campo politico che in campo economico. In una suo recente scritto (pubblicato in "Guida ai paesi dell'Europa centrale, orientale e balcanica - Annuario 1998"), il sottosegretario agli esteri Piero Fassino dà un'idea molto chiara dell'importanza dell'Italia nell'area: "Mediamente siamo il secondo partner commerciale dell'intera area [dell'Europa Orientale]; l'Italia è il primo paese, per interscambio commerciale, in Croazia, Bosnia, Albania, Macedonia, Bulgaria, Romania, Repubblica Federale Jugoslavia", vale a dire in TUTTI i paesi dei Balcani, se si esclude la Grecia, e alcuni di questi paesi, come l'Albania e la Macedonia, sono pressoché interamente dipendenti dall'Italia per le loro esportazioni. Per spiegare l'importanza di questi paesi per l'Italia, Fassino parla del loro 'effetto spugna' cioè "la forte domanda che viene da quei paesi e la loro crescente capacità di assorbimento di tecnologie, formazione, beni e servizi", nonché "la sempre maggiore domanda di sicurezza", che tradotta in linguaggio pratico significa commesse per la potente industria bellica italiana. L'Italia quindi non è rimasta con le mani in mano di fronte alla crisi in Kosovo - se da un lato vi è stato l'importante appoggio politico ed economico dato dal Ministro degli Esteri Dini a Milosevic proprio nei mesi in cui il conflitto covava (si veda "Notizie Est #32, 19 marzo 1998) e l'acquisto di una quota della Telecom serba da parte dell'italiana STET per 800 miliardi di lire (soldi che di sicuro sono stati molto utili a Milosevic per coprire gli alti costi delle attuali repressioni in Kosovo), dall'altro vi è stata la decisiva mediazione italiana per il raggiungimento di un nuovo accordo tra albanesi e serbi per il ritorno dei primi nell'Università di Pristina, un accordo vago e non accompagnato da altre misure adeguate a creare un contesto adatto per la sua realizzazione, che non ha fatto che scaricare sull'Università tutti i problemi che in questo momento affliggono la società kosovara e che ha portato a un'intensificazione della mobilitazione antialbanese da parte degli studenti serbi, senza apportare vantaggi concreti per gli albanesi. Parallelamente, in seguito a due viaggi di Prodi, l'Italia è riuscita firmare accordi per forniture militari a due paesi dell'area tra i quali esiste un latente conflitto: la Bulgaria (l'Alenia e la Marconi forniranno strumentazioni per velivoli militari) e la Macedonia (l'Alenia fornirà strumentazioni radar per il controllo dello spazio aereo). Infine, nei giorni scorsi è arrivata la ciliegina sulla torta. Come informa il quotidiano di Belgrado "Nasa Borba", l'italiana ENEL ha ritirato ufficialmente (insieme a quattro altre aziende inglesi, tedesche e ceche) i documenti per candidarsi all'acquisto della società serba che controlla le importanti centrali termoelettriche del Kosovo. Così, nel momento in cui nella regione è in corso un sanguinoso conflitto e l'Italia si fa promotrice in ambito NATO di iniziative di "pacificazione", il nostro paese tratta con una delle due parti del conflitto (quella serba) per mettere le mani su un pilastro fondamentale dell'economia del Kosovo, alla cui vendita le forze politiche e sindacali albanesi sono contrarie (ma anche i sindacati serbi vi si oppongono). E' evidente che l'Italia ha un ruolo di primissimo piano nella politica della NATO nella regione, e la sua strategia di appoggiare ogni leadership che si presuppone possa offrire un contesto di stabilità favorevole per la penetrazione economica e militare italiana non può che avere effetti deleteri, come già li ha avuti in passato in Albania. QUALE SOLUZIONE? Un intervento NATO a fianco di una delle parti in causa o "neutrale" (ma una vera neutralità sarebbe impossibile, viste le posizioni e gli obiettivi totalmente opposti della parte serba e di quella albanese) aprirebbe una ferita che potrebbe rimanere aperta per decenni, sia nel caso in cui dovesse avere come esito un'indipendenza del Kosovo, che nel caso in cui dovesse imporre un'autonomia che nessuna delle parti in conflitto vuole o ancora nel caso in cui dovesse fare da copertura o da giustificativo per una "pax serba". Lo stanziamento di truppe ai confini con il Kosovo non potrebbe che prolungare nel tempo, per i motivi elencati sopra, le tensioni e l'instabilità nella regione, nonché all'interno di Macedonia e Albania, i due paesi che dovrebbero ospitare le truppe NATO. La soluzione va cercata nella cessazione delle ostilità con l'apertura di trattative incondizionate, vale a dire senza escludere le ipotesi di indipendenza del Kosovo, che solo in una trattativa franca e aperta possono trovare una soluzione stabile e che non comporti ingiustizie nei confronti di albanesi e serbi. E' indispensabile inoltre coinvolgere nelle trattative tutte le parti del conflitto, e quindi anche quella più importante in questo momento, l'UCK (l'Esercito di liberazione del Kosovo), offrendo a quest'ultimo un'occasione per venire allo scoperto e darsi una struttura politica e pubblica che ne limiti le tendenze autoritarie e reazionarie, dando voce alle nuove, massicce giovani forze che in questi ultimi mesi vi hanno aderito, in un confronto veramente democratico con tutte le altre forze politiche e non solo con Rugova e il suo sempre più stretto circolo di collaboratori. Sembrano infatti estremamente preoccupanti le dichiarazioni rese ieri dal portavoce ufficiale dell'UCK, Jakup Krasniqi (nominato qualche giorno fa), alla televisione albanese e riportate oggi da "Nasa Borba": Krasniqi ha affermato che "nell'attuale situazione del Kosovo, il pluralismo politico è un lusso" e che "la nostra gente ha bisogno solo di una forza militare e politica che lotti per la libertà e l'unità nazionale", aggiungendo che "l'unica ideologia che l'UCK accetta è quella dell'appartenenza alla nazione albanese". Un intervento militare delle grandi potenze a favore o contro l'indipendenza non farebbe che rafforzare il ruolo di chi intende egemonizzare lo spazio politico albanese all'insegna di un tale progetto, così come in passato l'appoggio occidentale non ha fatto che favorire l'egemonia di Rugova e delle sue politiche ambigue e passive, con i disastrosi risultati che abbiamo oggi sotto gli occhi. E' evidente che la NATO e le grandi potenze non hanno alcuna intenzione di premere per una soluzione aperta come quella indicata sopra - perché ciò avvenga sarebbe necessaria una mobilitazione visibile delle forze democratiche che abbia finalmente il coraggio di andare al di là della solidarietà umanitaria, per passare a un'attiva solidarietà politica e sociale. Ma, come è ormai lunga tradizione, di fronte ai problemi e ai conflitti dell'Europa orientale le forze democratiche sono assolutamente latitanti. |