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NOTIZIE EST #68 - JUGOSLAVIA/KOSOVO
19 settembre 1998

**** SPECIALE PROFUGHI KOSOVO / 1 ****

[Pubblichiamo un mini-speciale in tre numeri sulla più che drammatica situazione dei profughi del Kosovo. Cominciamo con una testimonianza del fotografo freelance Livio Senigalliesi, che ha visitato di recente zone inaccessibili al confine tra il Kosovo e il Montenegro. Lo ringraziamo per avere gentilmente messo a disposizione il suo pezzo. Il testo verrà pubblicato nel numero di ottobre di "Guerre&Pace" - a.f.]

KOSOVO: UNA CATASTROFE UMANITARIA LONTANA DAI RIFLETTORI DEI MEDIA.

Reportage di Livio Senigalliesi dalle montagne al confine tra Kosovo e Montenegro

Non si sa dove trovare le parole per raccontare la tragedia del Kosovo.

Ancora una volta, lontano dai riflettori della stampa internazionale, si compiono operazioni di pulizia etnica, come se la recente tragedia bosniaca non avesse insegnato niente. Più di duecentomila kosovari, in maggioranza albanesi, fuggono con ogni mezzo dai loro villaggi in fiamme. Si rifugiano sulle cime dei monti e nelle foreste ai confini con Albania e Montenegro e attendono invano da mesi l'aiuto delle organizzazioni umanitarie e della Comunità internazionale.

Arrivo nel villaggio di Strellz, nei pressi di Pec, al seguito di un convoglio dell'Alto Commissariato delle Nazioni Unite. Sono i primi aiuti che giungono in questa zona dopo mesi di attesa: negli occhi di tutti la speranza ed al tempo stesso la delusione. Ciò che arriva non basta certo a soddisfare le esigenze della popolazione del villaggio e delle migliaia di profughi accampati in una vasta area tra il fiume Bistrica e le pendici dei monti circostanti. Per vederli, per poterli incontrare non c'è che una possibilità: percorrere di notte, accompagnato dei militanti dell'Uck, un rischioso corridoio esposto al tiro dei cecchini serbi che assediano il villaggio. Brancolando nel buio, seguiamo una lunga teoria di uomini e muli che marciando per ore portano i rifornimenti in quota, ai membri della difesa territoriale ed ai profughi che vivono nei boschi e sulle cime.

Le luci del mattino ci presentano una immagine catastrofica: centinaia di nuclei famigliari vivono da mesi all'aperto o in rifugi di fortuna fatti di rami e foglie. Passano la giornata nell'affannosa ricerca di cibo, acqua e legna da ardere. L'80% dei bambini è affetto da dissenteria, malattie infettive, denutrizione. Le madri sono sole e disperate. I mariti sono rimasti a valle nel tentativo di difendere le case dalla furia della guerra. In tutti la preoccupazione per l'avvicinarsi dell'inverno e la disperazione per la mancanza di vie di fuga. Non si può scendere a valle a causa dei combattimenti e dei posti di blocco della polizia che impedisce la libera circolazione e terrorizza la popolazione di etnia albanese.

Non si può fuggire in Albania e Montenegro: i valichi sono bloccati. Come Strellz, centinaia di altri villaggi nell'area di Drenica e Dugajin ospitano migliaia di rifugiati. Gli improvvisati centri d'accoglienza ricavati da fatiscenti strutture scolastiche e sportive sono sovraffollati, privi di ogni norma igienica. Colpisce la presenza di decine di bambini soli, orfani o che hanno perso il contatto con i genitori durante la fuga. Che ne sarà di loro? L'Unhcr e le altre organizzazioni umanitarie sembra non abbiano la capacità di fronteggiare una simile emergenza. Ancora una volta c'è impotenza ed impreparazione di fronte ad una crisi che già da mesi presentava tutta la sua gravità.

Fernando del Mundo, portavoce delle Nazioni Unite a Prishtina, dichiara: "Per svolgere con efficacia il nostro lavoro avremmo bisogno di un più forte sostegno politico. Per salvare tutte queste vite umane, dobbiamo fare in modo che i profughi scendano dalle montagne e tornino alle proprie case". Ma nel frattempo continua la sistematica distruzione dei villaggi ad opera delle forze dell'esercito yugoslavo. Mentre si parla di possibili accordi di pace, si combatte fino alle porte di Prishtina e lunghe colonne di carri armati si dirigono nelle zone di Mitrovica, Malishevo, Crnoljevo, Orahovac, Suva Reka dove l'Uck controlla ancora alcuni villaggi. La tattica usata per fiaccare l'ormai debole resistenza albanese è sempre la stessa: gli attacchi avvengono all'alba con un lungo bombardamento che getta i civili nel panico costringendoli ad una fuga precipitosa. I nuclei della difesa territoriale albanese proteggono la ritirata di donne , vecchi e bambini verso i boschi e le montagne. Entrano allora in azione i gruppi di paramilitari che fiancheggiano i reparti dell'esercito yugoslavo. A loro spetta il lavoro più sporco ed il compito di spegnere ogni eventuale resistenza. Poi inizia il saccheggio di tutto ciò da cui si possa ricavare un guadagno. Le case degli albanesi vengono infine date alle fiamme e lunghe colonne di fumo si alzano verso il cielo, visibili anche da lontano. Si, da lontano, perché quella del Kosovo è una guerra che non si deve vedere. Se ne colgono solo gli effetti, si possono solo riportare i tristi racconti degli scampati.

I reporter sono testimoni scomodi. Una fittissima rete di posti di blocco impedisce di arrivare nelle "zone calde". La gestione dei mezzi d'informazione è parte integrante di questa nuova guerra balcanica. Difficile scattare fotografie, non si possono girare immagini in prima linea. Si possono solo leggere i laconici comunicati stampa dei due Media Center, quello serbo e quello albanese. In questa situazione, è difficile non cadere vittima della propaganda dell'una o dell'altra parte: ogni notizia viene distorta.

Totale incertezza sul numero dei rifugiati, impossibile il calcolo delle vittime, ancora silenzio sulle fosse comuni di Orahovac, sconosciuta l'esatta localizzazione dei maggiori nuclei di profughi perché in continuo movimento.

Proprio riguardo l'emergenza profughi la Commissaria Europea Emma Bonino, in visita nelle scorse settimane a Prishtina, ha esplicitamente dichiarato:" In queste condizioni non si può vivere né tantomeno affrontare l'inverno. Occorre quindi un intervento serio e coordinato della Comunità Internazionale in tutte e sue varie forme ed è più che mai urgente aprire corridoi umanitari prima che sia troppo tardi". Anche Tim Boucher, responsabile di "Medicine sans frontiere" in Kosovo, ammette la sua preoccupazione: "Abbiamo soltanto due cliniche mobili. Le zone dove sono rifugiati i profughi sono impervie ed è impossibile raggiungerli. Non oso pensare cosa succederà quest'inverno se non ci sarà un cessate il fuoco e la gente non potrà scendere dalle montagne. Quello che oggi è un problema umanitario, diventerà una catastrofe".