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![]() NOTIZIE EST #152 - JUGOSLAVIA/KOSOVO IL MASSACRO DI RACAK E IL SUO CONTESTO / 5 LE "RIVELAZIONI" SUL MASSACRO DI RACAK Nei giorni scorsi sono state diffuse notizie, provenienti da un'unica fonte ripresa dai giornali francesi e poi amplificata da giornali di tutto il mondo, che getterebbero dei dubbi sulle modalità del massacro di Racak. Tali notizie sono palesemente frutto di un'operazione propagandistica e prive di ogni sostanza fattuale, come vedremo qui sotto. La loro diffusione è solo un'ulteriore conferma di come da lunghi mesi sulla pelle e sulle vite dei kosovari si stia giocando un conflitto tra Europa e Stati Uniti che trova nelle azioni militari e nelle stragi operate da Belgrado una perfetta sponda. Purtroppo queste "rivelazioni" hanno trovato una vasta eco anche negli ambienti di sinistra e pacifisti italiani. Lunedì 18 gennaio, tre giorni dopo il massacro di Racak (avvenuto venerdì 15 gennaio) e due giorni dopo la sua scoperta, si sono verificati in concomitanza due eventi che hanno preparato la strada alle "rivelazioni" diffuse il 21 gennaio dai giornali francesi: dopo il secondo giorno di ininterrotti bombardamenti a distanza con artiglieria pesante, le truppe serbe sono piombate nuovamente su Racak, facendo irruzione nella camera ardente dove si trovavano i corpi delle vittime, che hanno poi trasportato all'ospedale di Pristina ("Le Monde", 20 gennaio). Nelle stesse ore, a Bruxelles si concludeva con un nulla di fatto la riunione della NATO che, causa le evidenti divisioni interne, ha deciso di prendere tempo prima di adottare una propria linea. In particolare il corrispondente a Bruxelles del quotidiano "Nova Makedonija" riferisce della decisione da parte della NATO di attendere l'esito della missione dei suoi due inviati a Belgradomì, nonché i risultati di un'indagine del Tribunale dell'Aja. Il quotidiano scrive inoltre che la "NATO vuole essere sicura di cosa sia veramente accaduto a Racak prima di attribuire la colpa solo a una parte del conflitto, come ha fatto l'OSCE, e prima di impegnarsi nuovamente con un'azione militare" ("Nova Makedonija", 19 gennaio). A ventiquattro ore di distanza, puntualmente, vengono annunciate imminenti rivelazioni che getterebbero una nuova luce sul massacro di Racak. Queste rivelazioni si basano su fonti anonime citate dalla France Presse, secondo cui intorno alle 17 del 15 gennaio, osservatori OSCE, a distanza più o meno di un'ora dal termine dell'assalto delle forze al villaggio, sono entrati nel villaggio e non hanno visto né osservato nulla. In realtà il fatto era noto, anche se è stato comunicato dall'OSCE in ritardo: gli osservatori hanno parlato con un paio di abitanti, hanno visto un morto e alcuni feriti, ma se ne sono andati via quasi subito perché stava calando l'oscurità (la missione OSCE non si muove al buio perché il rischio di "incidenti" aumenta troppo). I corpi ritrovati delle persone uccise con colpi ravvicinati sono stati trovati successivamente in un fossato, nascosto da cespugli e situato cinquecento metri di distanza, al di sopra del villaggio, su un terreno montagnoso. Secondo le testimonianze date dallo stesso "Le Monde" alcuni giorni prima (19 gennaio), un abitante del villaggio ha raccontato (e gli stessi particolari sono stati confermati in maniera identica da numerosissimi altri testimoni) che la mattina di venerdì le forze speciali serbe, dopo un giorno di cannoneggiamenti a distanza nell'area, sono "entrate nel villaggio. Sono andate di casa in casa. Hanno chiuso le donne nelle cantine. Dal granaio dove mi ero nascosto, li ho visti costringere gli uomini a seguirgli, con un'arma sulle tempie. Non sono uscito che quando è calata la notte, quando i poliziotti se ne erano andati". Gli abitanti del villaggio, terrorizzati da 24 ore di bombardamenti prima e poi dall'irrompere delle forze speciali della polizia, andatesene via solo poco più di un'ora prima del calare dell'oscurità, o sono rimasti nascosti o, in piccolo numero sono usciti quando sono arrivati i verificatori OSCE. L'esercito è sempre rimasto nei pressi di Racak e nel giro di pochi minuti avrebbe potuto tornare. Inoltre, gli abitanti hanno visto i loro parenti essere portati via dalla polizia ufficialmente per essere interrogati nella vicina città di Urosevac. Non vi era motivo, dopo che la polizia aveva comunque già ucciso e ferito alcune persone nel villaggio e rimaneva comunque nei pressi, pronta a intervenire, perché degli abitanti tagliati da 48 ore fuori dal mondo si mettessero a ricercare al buio sui pendii circostanti dei corpi di persone che tutti avevano visto portare via come arrestate. Ma mentre fino a qui siamo solo su speculazioni che accusano gli abitanti di un villaggio coinvolto in un'offensiva durata due giorni di non essersi messi a sangue freddo a fare gli Sherlock Holmes al buio e con i cannoni serbi a poca distanza, mentre non sapevano nulla del destino dei loro parenti, la stampa francese riporta dei "fatti" che, analizzati per intero (il quotidiano "Il Manifesto", non a caso, si è ben guardato dal farlo) squalificano immediatamente l'intera operazione propagandistica. Ecco questi presunti fatti, come li raccontano "Le Monde" del 21 gennaio e "Le Figaro" del 20 e del 21 gennaio. Due giornalisti della televisione dell'Associated Press (APTV) sarebbero entrati nel villaggio a fianco delle forze serbe mentre queste ultime entravano nel villaggio, accompagnati da due cameramen serbi che avrebbero filmato un villaggio vuoto e una "normale" operazione di guerra. Una delle fonti francesi ("Le Monde", 21 gennaio), più in particolare scrive: i due giornalisti "alle 10 del mattino entrano nella località nella scia di un veicolo blindato della polizia. Il villaggio era quasi deserto. Procedono nelle vie del villaggio sotto il fuoco dei tiratori dell'UCK, nascosti nei boschi che dominano il villaggio", ma poco più sotto specifica: "la mattina dell'attacco, una fonte della polizia telefona all'APTV: 'Venite a Racak, sta succedendo qualche cosa'. Dalle 10 [del mattino] l'equipe è sul posto; effettua prima dei filmati da un rilievo al di sopra del villaggio [un particolare, molto importante, in aperta contraddizione con quanto appena scritto sopra, secondo cui alle 10 i giornalisti entrano nella località, non a caso un termine ambiguo, e ne percorrono le vie! - a.f.] e successivamente nelle strade nella scia di un veicolo blindato". Infine, "alle 15.30 la polizia abbandona il posto sotto i tiri sporadici di un pugno di combattenti dell'UCK. [...] Un'ora dopo la loro partenza, cala l'oscurità". Questo racconto, che come abbiamo visto contiene una palese contraddizione, non rivela assolutamente nulla di rilevante. Infatti, lo stesso "Figaro" (20 gennaio) scrive che l'operazione era cominciata all'alba (la tattica normalmente adottata in questi casi e più logica), un particolare confermato dal rapporto dell'OSCE, secondo il quale gli abitanti del villaggio hanno dichiarato che l'operazione è cominciata alle ore 7.00 ("New York Times", 22 gennaio) con i poliziotti che hanno terrorizzato la popolazione, facendola chiudere nelle cantine e portando via i maschi adulti. I due giornalisti sono stati chiamati per telefono dalla polizia serba alle 8.30 e sono giunti nei pressi del villaggio alle 10, cioè quando tutto quello che è stato raccontato dagli abitanti locali si era potuto compiere comodamente. Le "rivelazioni", pertanto, non hanno alcuna rilevanza fattuale. Inoltre, alle 10 i cameramen serbi messi a disposizione dei due giornalisti hanno fatto filmati solo da lontano, mentre sono entrati nel villaggio solo a un'ora e per una durata che non a caso non precisano. E non è tutto: come conferma lo stesso "Le Monde", tra il ritiro della polizia e il calo dell'oscurità è passata appena un'ora, vale a dire un periodo comunque assolutamente insufficiente per effettuare una ricerca dei corpi sul territorio montagnoso intorno al villaggio, sempre tenendo presente che nessuno pensava ci fossero dei corpi da cercare. Sempre "Le Monde" specula in maniera odiosa sulle tragedie degli abitanti di Racak, affermando che il villaggio non è che una piazza d'armi dell'UCK: "La quasi totalità degli abitanti che sono fuggiti da Racak durante la terribile offensiva serba dell'estate del 1998. Con qualche eccezione, non sono tornati". Non solo si dice la "quasi totalità", un termine vago che vuol dire che comunque degli abitanti c'erano ancora, ma non si capisce come tutto questo quadri con il numero di 2.000 profughi che tutte le fonti, UNHCR compresa, riferiscono essersi rifugiati sulle colline al di sopra di Racak e che un altro quotidiano francese, "Liberation", ha visitato alcuni giorni dopo, rilevando che donne e bambini passano le loro notti all'aperto con 10 gradi sotto zero ("Liberation", 23 gennaio). Inoltre, la vasta offensiva con mezzi pesanti operata dall'esercito jugoslavo e dalla polizia serba, ha colpito anche i villaggi contigui a Racak e molte persone nella tremenda confusione degli attacchi condotti da più lati sono fuggite da un villaggio all'altro. Ma non è tutto: a questo punto chi legge forse pensa che almeno siano disponibili dei filmati girati da due giornalisti con nome e cognome. Non è assolutamente così. I nomi di questi due giornalisti non sono stati resi noti, il filmato non è stato reso pubblico, l'AP ha aperto un'inchiesta e finora non si è pronunciata ("Figaro", 21 gennaio). Non si può non rilevare che l'operazione è stata organizzata dalla polizia serba, che ha chiamato i giornalisti all'ultimo momento, secondo i tempi che evidentemente le convenivano. I giornalisti che si sono prestati a questa operazione, hanno accettato di muoversi nel villaggio "nella scia" dei blindati serbi senza quindi potersi muovere liberamente. Non sono entrati nelle case e se hanno visto qualcosa, hanno visto unicamente quello che la polizia serba voleva fare loro vedere e nel momento in cui lo voleva. Ancora una volta, però, non è tutto: le immagini sono state girate il 15 gennaio, il 16 i media di tutto il mondo sono puntati su Racak, ma i giornalisti non rivelano nulla. Le loro rivelazioni avvengono solo tra il 18 e il 19 gennaio, quando, come abbiamo visto, la NATO (e, come sanno tutti, in particolare i suoi membri europei e la Francia in primo luogo) ha bisogno di prendere tempo e che insorgano dei dubbi in merito. Queste persone anonime, perché tali rimangono fino a oggi, non mostrano il filmato in pubblico, non lo vendono ad alto prezzo affinché venga reso pubblico con un'operazione che li renderebbe famosi in tutto il mondo, ma lo fanno visionare solo ad alcuni giornalisti francesi selezionati. Questo e non altro sono le "rivelazioni", lanciate in contemporanea alle disgustose insinuazioni sulle "mancate" indagini da parte delle vittime dell'attacco serbo, di cui abbiamo visto sopra la sostanza. I giornalisti francesi, sulla base di quanto sopra, procedono a tutta una serie di domande che avallano implicitamente l'ipotesi (che comunque non regge, come avevamo già visto in "Notizie Est" #148) di una messinscena da parte dell'UCK. Oltre a quanto abbiamo rilevato sopra, ci poniamo anche noi alcune domande: perché le forze serbe hanno diffuso in tutto il mondo il giorno di venerdì la notizia dell'uccisione di almeno una quindicina di guerriglieri albanesi a Racak, ma nelle testimonianze dei giornalisti della APTV non ve ne è traccia, nonostante stessero lavorando in collaborazione proprio con la polizia serba, cioè la fonte di tale notizia? Perchè questa operazione, ufficialmente mirata ad arrestare i colpevoli dell'omicidio di un poliziotto, lascia sul campo ben 45 albanesi uccisi (cosa che nessuno nega) e solo un soldato serbo ferito? Perché nonostante questo successo le forze serbe hanno abbandonato il villaggio, senza arrestare nessuno e senza mantenere la posizione conquistata per poi tentare ancora di effettuare gli arresti, visto che per questo si era mossa con artiglieria pesante e ingenti forze per ben due giorni consecutivi? Perché l'OSCE (che in quel settore è a comando italiano) non ha denunciato energicamente e subito la massiccia offensiva portata contro vari villaggi con intensi bombardamenti, in atto già almeno 24 ore prima del massacro e che ha provocato migliaia di profughi, dopo che da giorni erano in corso grandi manovre serbe con altri attacchi, limitandosi invece a segnalare solamente spostamenti di mezzi e generici scontri? Esattamente una settimana prima, un'imboscata dell'UCK contro una colonna di corazzati serbi che si stavano ridispiegando sul terreno a qualche chilometro di distanza da Racak, in palese violazione degli accordi e in preparazione della violenta offensiva, aveva provocato tre morti. Ebbene, in quell'occasione i verificatori OSCE si erano recati seduta stante sul posto, avevano immediatamente fatto rapporto alle loro cancellerie e nel giro di alcune ore tutte le capitali mondiali avevano attaccato duramente l'UCK per la sua "provocazione" (AFP e Reuters, 8 gennaio). Nel caso di Racak, invece, tutti questi meccanismi si sono mossi con 48 ore di ritardo e questo nonostante la polizia serba avesse essa stessa avvisato i verificatori, costringendoli comunque a fare da testimoni. E infine, non meno importante, se anche le ipotesi di una "messinscena" da parte dell'UCK fossero vere, ci dovremmo trovare di fronte a una situazione in cui assolutamente tutti mentono: mente l'UCK, mentono gli abitanti del villaggio, mente l'OSCE, mentono i giornalisti (compresi quelli della APTV, come abbiamo visto), ma, soprattutto, mentono le autorità di Belgrado e i loro giornali. Infatti, le dichiarazioni ufficiali riportate in merito alla dinamica dell'evento da parte del ministero degli interni serbo e quelle, da considerarsi assolutamente ufficiali, del presidente della repubblica serbo Milutinovic (da noi riportata nei dettagli, si veda "Notizie Est #148, 20 gennaio), sono in aperta contraddizione con questa ipotesi: per Belgrado, infatti, le proprie forze sono state oggetto di una "feroce imboscata terroristica" (come abbiamo già fatto notare, talmente feroce che 45 guerriglieri muoiono, mentre i serbi lamentano solo un ferito), di cui nelle "rivelazioni" di questi giorni non c'è assolutamente traccia (il villaggio è vuoto e pacifico e non reca alcun segno di combattimenti o razzie, i guerriglieri si limitano a sparare dai boschi sulle cime sovrastanti - "Le Monde", 21 gennaio; "Le Figaro", 21 gennaio), così come non ve ne è traccia in alcun altro resoconto. "Le Figaro" (21 gennaio) scrive che è "particolarmente inquietante che la polizia serba non abbia mai cercato di nascondere la propria operazione. "Le Monde" (21 gennaio), commentando il coinvolgimento sul posto dei due giornalisti della APTV e dei verificatori dell'OSCE rileva il fatto evidente che "la pubblicità fatta dalla polizia serba in merito a questa operazione è intensa". "Il Manifesto" ne deduce che la polizia serba ha la coscienza pulita. In realtà, i motivi per cui a Belgrado in questo momento torna utile esibire (e compiere) in maniera così sfacciata un massacro come quello di Racak sono molteplici e possono essere individuati, così come le modalità con le quali è stato compiuto, rivolgendo la propria attenzione a quanto avvenuto alla luce del sole, e non, come nel caso delle congetture di cui sopra, facendo riferimento a fonti anonime o a presunte messinscene senza testimoni. Di questo tratteremo nella parte conclusiva di questo dossier sul massacro di Racak e sul suo contesto. Detto tutto questo, non si può non ricordare che il massacro c'è stato e che ciò non viene negato da nessuno, nemmeno da Belgrado. Anche l'intero contesto viene confermato in maniera identica da tutte le parti, senza eccezioni: attacchi su vasta scala, contro interi villaggi, condotti con mezzi corazzati e artiglieria pesante, in corso per due giorni interi; più di 5.000 profughi in tutta l'area che stanno vivendo in condizioni inumane; le forze pesanti serbe che rimangono nell'area e proseguono gli attacchi nei giorni successivi al massacro. E' questo il quadro, che dall'anno scorso è il quadro normale di una guerra condotta ininterrottamente da un regime violento e autoritario contro un'intera popolazione insorta dopo lunghi anni di continue repressioni e di resistenza pacifica. Le disquisizioni (come abbiamo visto, prive di fondamenti) sulle presunte messinscene dovrebbero quindi tutt'al più interessare qualche burocrate dell'OSCE e delle cancellerie occidentali per i propri giochi diplomatici. Purtroppo in Italia esse hanno trovato una vasta eco non solo in tali ambienti, ma anche nella sinistra e in particolare nel "Manifesto", che non si è limitato a farle interamente proprie, ma le ha condite con numerose insinuazioni e informazioni errate di fonte propria. "IL MANIFESTO" AL FRONTE DEL KOSOVO Da mesi ormai il "Manifesto" sta affrontando il conflitto in Kosovo non solo riproponendo in maniera ossessiva informazioni che non hanno riscontro nei fatti, ma anche contribuendo a diffondere a sinistra un vocabolario e un modo di affrontare le cose che con la sinistra non hanno nulla a che fare e che sono patrimonio di ben altre culture politiche. Il numero del 22 gennaio, e in particolare l'articolo sui "retroscena" del massacro di Racak, è un condensato del modo in cui per mesi il quotidiano ha affrontato il conflitto in Kosovo. "Sceneggiature da un massacro" è il titolo già eloquente del pezzo, scritto da Tommaso Di Francesco, mentre il sottotitolo snocciola un: "Liberation, Le Monde, Associated PressTV: troppe ambiguità (Osce e Uck) su Racak". Sotto, una foto scattata a Sipolaje, di cui non si dice che si tratta di un villaggio anch'esso bombardato dalle forze serbe negli ultimi giorni. Si vedono due uomini in divisa dell'Uck e altri senza divisa che marciano con le armi in mano. La didascalia, alla luce di quanto è successo a Racak, è particolarmente odiosa: "Sipolaje, miliziani e 'civili' dell'Uck prendono posizione sul fronte a 40 chilometri da Pristina", le virgolette intorno a "civili" essendo un'eloquente e immediata illustrazione del messaggio del Manifesto. Nell'articolo di Di Francesco, si dice che i quotidiani francesi e il New York Times hanno sollevato un numero rilevante di dubbi "prove alla mano". Di quali prove si tratti, nonché di quale sia in realtà la loro fonte, l'abbiamo visto sopra, ma il Manifesto non si lascia sfiorare da dubbi, in questo caso. Di Francesco riferisce a somme linee quello che hanno scritto i giornali francesi, ma aggiunge anche molto di suo. "Un altro fatto sconcertante è la confusione sul numero dei morti", scrive Di Francesco, "un ispettore dell'Osce dice di averne visti 38, tutti in abiti civili. Walker ha parlato di 45. L'Uck dice di avere perso 8 uomini. Nessuno afferma di avere visto i corpi di questi combattenti. Domenica, i corpi esposti nella moschea per le esequie erano solo 40". Nessuna stranezza, se si vanno a vedere fatti ampiamente riscontrati da tutti. Il conteggio dei cadaveri, che non erano solo i 23 nel fossato, sono durati tutto il giorno: è solo questo il motivo delle diverse cifre, aggiornate ora per ora dalle agenzie di tutto il mondo nel corso della giornata del 16 gennaio. Gli uomini dell'UCK, come confermano anche i giornali francesi, erano appostati su un colle distante dal villaggio. Infine, nella moschea erano esposti 40 corpi per il semplice fatto che 5 corpi erano stati portati nel vicino villaggio di Malopoljce, dove gli uccisi, evidentemente fuggiti di fronte all'offensiva serba, risiedevano ("New York Times", 22 gennaio). Dopo avere citato l'opinione dei patologi serbi e bielorussi che hanno effettuato le autopsie, Di Francesco incolpa di oscure trame i sopravvissuti al massacro: "Se gli abitanti del villaggio hanno davvero informato gli osservatori che 24 uomini erano stati portati via, perché l'Osce non dice da dove ha avuto l'informazione [bugia: i testimoni sono stati identificati, il giorno stesso agenzie e giornali ne riportavano le testimonianze con nome e cognome (per es. Reuters, 16 gennaio)] e perché insiste nel dire che nessuna delle sue squadre era nel villaggio quella famosa sera [bugia: l'Osce non "continua" a insistere su quanto Di Francesco sostiene, lo ha solo rivelato in ritardo, ma comunque ben prima delle "rivelazioni" francesi. Della colpevole reticenza dell'OSCE, in realtà tesa, come avviene da mesi, a coprire le operazioni della polizia e dell'esercito serbo, abbiamo scritto sopra]". Il giornalista del "Manifesto" riferisce poi, senza citare troppi particolari, della spedizione della APTV di cui abbiamo parlato sopra, insinuando che il ritrovamento dei cadaveri sia stato tutto una messinscena: "E' possibile che gli albanesi siano stati abbattuti e la scena riarrangiata", confidava perplesso un diplomatico occidentale a Pristina. Perché il massacro di civili è più suscettibile di commuovere l'opinione pubblica che quello di combattenti". E più avanti: "Solo un'inchiesta indipendente internazionale permetterà di fare luce. Sarà difficile, perché i corpi sono già stati spostati troppe volte". E' vero. Solo che il lettore del "Manifesto", per quanto attento, non sa che i corpi sono stati "spostati" dalla polizia serba con un'azione militare, dopo intensi cannoneggiamenti del villaggio durati due giorni (si veda, per es. "Le Monde", 19 gennaio), perché il "Manifesto" questi particolari non li ha mai riferiti nemmeno nei numeri precedenti, essendosi limitato a scrivere il 20 gennaio: "i cadaveri degli albanesi massacrati sono stati trasportati nel capoluogo ieri mattina su alcuni camion, scortati in modo massiccio dalle forze armate serbe". Tutto qui. Se il quotidiano non trova tempo per occuparsi di questi fatti, trova però tempo per ripetere ben tre volte (in un articolo del 19 gennaio e in due articoli del 22 gennaio) una medesima e ridicola insinuazione: "Come ha fatto la segretaria di stato Madeleine Albright a sapere già il 15 della strage, cioè prima che si sapesse (prima che accadesse?)". A parte il fatto che, anche secondo le stesse autorità serbe, il 15 è stato sicuramente il giorno del massacro, la risposta è semplicissima: perché la polizia serba aveva annunciato la cosa (parlando di 15 guerriglieri uccisi a Racak) all'ora di pranzo dello stesso giorno, attraverso il Media Centar controllato da Belgrado, notizia ripresa immediatamente da tutte le agenzie del mondo (per es. AFP, 15 gennaio), cosa che anche "Notizie Est" (#148) ha segnalato. Inoltre, la Albright prima della scoperta dei corpi non ha mai parlato del massacro. Di Francesco non manca di condire questa falsità con un'ennesima insinuazione priva di ogni elemento fattuale: "Forse perché il capo della CIA è George Tenet, un potente rappresentante della lobby albanesi negli USA?". Se deve essere questo il basso livello di argomentazione, qualcun altro interessato a una disinformazione di segno opposto potrebbe ribattere affermando la Albright è di origine slava e ha passato la sua infanzia a Belgrado (è vero) e pertanto ogni atto delle forze di Belgrado sarebbe frutto di una sua macchinazione. Perché è a tale punto che il "Manifesto" è scaduto. Non si può quindi che essere d'accordo con Di Francesco quando scrive che "non sapremo mai la verità": se questa è l'informazione che ci viene propinata non verremo a conoscenza, non diciamo della verità, ma nemmeno di qualche normale ed elementare fatto. E non si tratta solo dell'articolo del 22 gennaio. In realtà è da tempo che il livello è il medesimo sulle pagine del quotidiano romano. Il 19 gennaio Di Francesco scriveva un editoriale in cui si riprendono per intero, facendoli propri, passi delle denunce di Dini contro l'Uck e gli albanesi (riportate nei dettagli in "Notizie Est" #150). Nel pezzo si scrive che tra i macellai in Kosovo, accanto alle milizie di Seselj o Arkan, o la polizia serba a cui l'eccidio è "scappato di mano" [sic - ma con le provvidenziali virgolette Di Francesco declina ogni responsabilità per quello che scrive], vi sono "i miliziani dell'Uck, principali alleati della sporca repressione serba con la loro capacità di fare saltare ogni accordo", è l'Uck quindi la responsabile delle repressioni serbe (che a questo punto sono del tutto giustificate) e la colpa di ogni tensione è loro, non dei carriarmati, degli elicotteri e dei cannoni pesanti ridispiegati in massa da dicembre scorso da parte di Belgrado. Nel suo editoriale Di Francesco poi liquida la strage di Racak così: "Se sono stati i serbi, ferocia ma anche stupidità" - tutto qui, non una parola di più. Ma sull'Uck vi è tutta una lunga tirata: "hanno condannato a morte Ibrahim Rugova, uccidendo 'collaborazionisti' e leader a lui legati, sequestrando 280 persone di etnia serba (di cui 136 desaparecidos, secondo l'Onu); hanno massacrato decine di civili serbi; la loro strategia etnica della "Grande Albania" conferma l'ottusità etnica che ha già insanguinato i Balcani" e poi ancora Berisha, "signore dei santuari del nord-Albania [...] che per tornare a galla gioca la carta della guerra stracciona degli albanesi". Un condensato incredibile di falsità, distorsioni, silenzi: dal Rugova che non è mai stato "condannato a morte dall'Uck", organizzazione all'interno della quale vi sono anche fazioni che si riconoscono nella sua linea, ai sequestri di serbi [280 è la cifra di Belgrado, 136 quella dell'Onu, che lamenta però circa 800 albanesi spariti solo dopo gli accordi di ottobre, mentre sono migliaia quelli incarcerati per motivi politici, ma questi a Di Francesco non interessano]. Tornano a galla falsità dichiarate dallo stesso "Manifesto" in passato e qui ripetute: dall'attribuzione sicura all'Uck dell'uccisione di collaboratori di Rugova, che molti elementi potrebbero attribuire a ben altri soggetti, all'ossessivo ripetere la falsa teoria dell'appoggio di Berisha all'Uck, slogan lanciato dal "Manifesto" ai tempi del tentato golpe di settembre, tentato golpe che era stato allora invece denunciato ufficialmente dal quartier generale dell'UCK, il quale aveva espresso solidarietà al governo di Tirana, mentre Berisha si scagliava contro l'UCK perché non seguiva Rugova e le sue FARK e non trattava un accordo di pace con gli USA, tutte posizioni ampiamente documentate ed esplicitate pubblicamente (si veda "Notizie Est" #77, #82). Ma si impiega anche un preoccupante vocabolario, usato ossessivamente in altri articoli: i guerriglieri dell'UCK sono sempre "miliziani", si usa il termine di "santuari" del terrorismo di democristiana memoria, si parla con un razzismo malamente celato di "guerra stracciona degli albanesi". Non manca nemmeno la preoccupazione perché si conservi la buona immagine che si era creata Belgrado negli ultimi tempi presso le grandi potenze, una preoccupazione ripetuta continuamente in questi giorni, come fa per esempio eloquentemente Dusan Pilic nel suo articolo del 20 gennaio, quando si preoccupa perché "i rapporti tra Belgrado e la comunità internazionale sono nuovamente precipitati. E' un fatto grave, sia perché la mini-Jugoslavia ha accettato la verifica della tregua da parte degli osservatori Osce [come Belgrado rispetti questa tregua e come gli osservatori OSCE la verifichino l'abbiamo ampiamente visto nell'ultimo mese] e ha tutto l'interesse che la tregua tenga, sia perché tutto questo avviene in un mese in cui invece il mondo [cioè Dini, i generali francesi e la Albright] aveva cominciato a prendere le distanze dal nazionalismo armato dell'UCK e si era accorto anche di tante vittime civili serbe". Questo atteggiamento non è dovuto a oscure trame della redazione del quotidiano "comunista", ma risponde purtroppo alle esigenze di un certa sinistra che teme di affrontare politicamente la realtà e sceglie pertanto di aderire immediatamente a ogni trama oscura che le si offra, o di avallare posizioni che con la sinistra non possono avere nulla a che fare. Anche di questo si trova ampia traccia nel Manifesto di questi giorni, seppure in testi più pacati e non improntati alla disinformazione. Per esempio, Domenico Gallo, nel suo testo del 20 gennaio, nel quale giustamente si esprime contro un intervento NATO, scrive cose che lasciano allibiti: "La crisi del Kosovo è, nella sua massima espressione, una crisi della convivenza fra due comunità fra le quali si è stabilito un regime di apartheid". Una crisi della convivenza? Gallo non può non sapere chi e quali mezzi violenti e prevaricatori ha tolto voce politica agli albanesi del Kosovo e con la violenza li ha repressi per anni. Come si può poi dire che tra due comunità "si è stabilito un regime di apartheid"? Un regime di apartheid si può "stabilire" impersonalmente? Si potrebbe dire che tra i bianchi e i neri in Sudafrica "si è stabilito un regime di apartheid"? Ma non solo, più avanti si avallano le teorie dei più retrivi nazionalisti serbi sul Kosovo "culla della civiltà serba", una teoria rilanciata a cavallo del secolo dall'agguerrita borghesia conquistatrice di Belgrado, della quale si è riappropriata la burocrazia altrettanto agguerrita di Milosevic, sua erede. Gallo scrive infatti: "una questione che attiene ai sentimenti più arcani di un popolo e che quindi non è possibile risolvere in chiave razionale, il Kosovo viene considerato la culla irrinunciabile della civiltà serba". I sentimenti arcani tedeschi del bisogno "di uno spazio vitale per la loro patria" o di solidarietà ai fratelli tedeschi in Polonia o Cecoslovacchia, non potevano essere affrontati razionalmente e dovevano essere oggetto di un riconoscimento e una mediazione che desse loro legittimità e dignità? Non ci si stupisce, viste le premesse, che Gallo chieda un'iniziativa politico-diplomatica dell'Italia, che purtroppo fino a oggi non ha mai cessato di attuarne con pessimi risultati sotto la guida del ministro Dini. Si chiede che la missione Osce riprenda vigore, senza tenere conto che essa è da settimane il perno del devastante gioco a rimpiattino tra i cannoni di Belgrado e le manovre politico-diplomatiche di Washington, Parigi, Roma e delle altre potenze. La portavoce nazionale dell'Associazione per la Pace Luisa Morgantini, nel suo articolo del 22 gennaio, aderisce in pieno alle veline dei generali francesi quando scrive che i mortì sono sì veri, ma precisa: "indipendentemente dal fatto che il massacro di Racak sia stato compiuto da militari o da milizie serbe o costruito, come emerge [sic], dall'UCK". Non solo, si lamenta poi che "non doveva essere bloccata dall'OSCE la magistrata di Pristina, anche se per motivi di sicurezza", quando abbiamo visto chi sia questa magistrata e quali siano le sue tecniche. Poco più sotto Morgantini riprende la litania sulla condanna a morte di Rugova da parte dell'UCK e di "Sali Berisha che rifornisce di armi e di follia nazionalista i guerriglieri dell'UCK" [per una volta non "miliziani"]. Cosa bisogna fare, per Morgantini? "Dire chiaramente ai rappresentanti dell'Uck che la comunità internazionale, Usa compresi, non è uno stato etnico albanese, ma per l'autonomia all'interno della Federazione Jugoslava. E aiutare quelle forze che in Serbia sono contrarie alla politica suicida di Milosevic [...]. Lo stesso vale anche per quelle forze che in Kosovo sono per una soluzione negoziata, ma che vivono nel terrore di essere uccisi non solo dalla polizia serba, ma dai loro stessi fratelli" e, naturalmente, chiede che gli osservatori Osce vengano raddoppiati e abbiano maggiori poteri. Insomma: gli albanesi del Kosovo, che hanno scelto in massa l'insurrezione dopo anni di infruttuosa resistenza passiva e continue violenze da parte di Belgrado, dovrebbero tornare proprio a tale resistenza e al loro leader, sponsorizzato dalle grandi potenze, perché lo vogliono la comunità internazionale e gli Usa, dovrebbero rinunciare a decidere di sé stessi e sopportare che i carriarmati scorazzino tra i loro villaggi (Morgantini non ne chiede il ritiro), affidando inoltre le loro sorti alla sparuta e al 99% sciovinista opposizione serba, come ha chiesto loro a più riprese anche Bill Clinton. (continua) [DOCUMENTAZIONE:] * L'articolo di "Le Monde" (in francese): * L'articolo del "New York Times" (in inglese): * L'articolo del "Manifesto": * Le dichiarazioni di Milutinovic pubblicate da "Politika" (in serbo): * Gli articoli del "Figaro" (20 e 21 gennaio) purtroppo non sono disponibili in forma elettronica. * Le notizie "Reuters" sul Kosovo: * Il "Dossier Kosovo" di "Le Monde": * Una mappa stradale della zona di Racak: |