La globalizzazione economica
La globalizzazione, vista nei suoi molteplici aspetti, è oggetto di infuocati dibattiti che stanno animando sia l'opinione pubblica che le scienze sociali. Soprattutto negli ultimi anni, sebbene il fenomeno non sia così recente, una maggiore consapevolezza degli effetti che tale processo mette in atto sembra aver interessato sempre più persone. Gli ultimi avvenimenti2 relativi alle riunioni degli organismi mondiali governativi e finanziari hanno ulteriormente creato attenzione verso tali tematiche. La discussione spesso ripresenta, come molte altre nel passato, una divisione netta e dicotomica di vedute: i sostenitori della globalizzazione la propongono come la soluzione a tutti i problemi, al contrario i contestatori la indicano come un processo-progetto che non fa altro che aumentare quelli già esistenti.
Cosa s'intende con tale termine? La globalizzazione è un processo sviluppatosi negli ultimi anni oppure ha radici storiche antecedenti? Quali sono le forze politiche, economiche e culturali che hanno alimentato tale processo e quali invece quelle che tendono a contrastarlo? Quali sono gli effetti che ha prodotto nei differenti ambiti della vita umana nonché nell'ecosistema dell'intero pianeta? Nella restante parte del capitolo tenterò di rispondere e rispondermi agli interrogativi che ho appena posto, cosciente del fatto che tale tema, seppur molto dibattuto, rimane in ogni caso di difficile comprensione, visto le molteplici implicazioni che porta con se. Mander sostiene che tale confusione deriverebbe anche dall'abdicazione dei media a dare una corretta informazione L'attenzione che i mass media dedicano ai problemi della globalizzazione è sporadica e superficiale: ben di rado, infatti, si trova qualcuno che vada al di là della semplice descrizione del fenomeno e cerchi di rintracciarne le cause (Mander, 1996, p 27-28). Condivido questa affermazione e tento di chiarirla con un esempio. Attraverso la tv siamo spesso informati sullo stato disastrato dell'ambiente: sappiamo che il mare è inquinato, che c'è l'effetto serra, che le calotte polari stanno sciogliendosi e che il buco nello strato d'ozono sta aumentando. Raramente qualcuno tenta di ricollegare questi effetti alla causa, ovvero raramente qualcuno tenta di scoprire chi e perché non ha intenzione di diminuire i tassi d'inquinamento o di interrompere il disboscamento d'intere aree verdi. Questi, come molti altri temi, riguardano il complesso processo della globalizzazione.
Tento di procedere per gradi affrontando innanzi tutto una breve analisi storica del fenomeno. Negli ultimi anni, la parola globalizzazione è stata applicata e collegata quasi a tutti gli ambiti delle attività umane; tutti i problemi sono divenuti globali: la finanza e gli scambi economici anzitutto, ma anche l'ambiente, la tecnica la comunicazione, la pubblicità, la cultura e persino la politica.[...] Non c'è dubbio che il fenomeno nascosto dietro tali parole non è così nuovo come si vuol far credere (Latouche, 1996, pp 3-4). Molti studiosi sono concordi nell'affermare che ci troviamo di fronte ad una novità che è tale solo in parte. Già nel 1964, un sociologo canadese di nome Marshall Mc Luhan, quasi in maniera profetica, faceva affermazioni del genere Nell'era elettrica abbiamo come pelle l'intera umanità, oppure l'elettricità ha ridotto il globo a poco più che un villaggio.. (Mc Luhan,1997, pp 11-57). Allo stesso autore è da attribuire l'espressione villaggio globale, un altro termine diventato ormai d'uso comune. Con essa sottolineava la tendenza ad un generalizzato e maggiore coinvolgimento nelle faccende mondiali che i nuovi media elettronici, stavano generando nelle popolazioni da essi raggiunte. Mc Luahn, 37 anni fa, analizzava un mondo che stava diventando sempre più interdipendente; per alcuni maggiormente omogeneo, sempre più differenziato per altri.
Siamo ancora lontani dall'individuare la fase iniziale di questo processo, certamente non originato dalla sola comparsa dei media elettronici che nella metà degli anni '60 erano pronti ad invadere i mercati occidentali. Le radici, ben più remote, non vanno neanche ricercate nel secolo appena trascorso. Individuare un momento preciso di inizio è come al solito arbitrario e criticabile, ma esiste tuttavia per taluni un punto di accordo nell'asserire che il primo vero passo verso l'affermazione dei processi globali è rappresentato dalla colonizzazione operata dalle nazioni europee nelle Americhe. Latouche sostiene che la prima mondializzazione2 porta la data della conquista delle Americhe, quando l'occidente prese coscienza della rotondità della terra per scoprirla e imporre le proprie conquiste (Latouche, 1996, pp 6-7); anche Robertson, seguendo altri criteri, stabilisce che il XV secolo ha rappresentato la fase germinale, in altre parole il punto d'inizio dei processi globali (Robertson, 1996, p 85).
Successivamente gli stati nazionali europei crearono i presupposti per gestire e spartirsi il mercato mondiale. L'Africa fu conquistata e sezionata in tante colonie con il conseguente ulteriore allargamento del mercato stesso. Le risorse naturali presenti in quei territori furono utilizzate per aumentare la crescita e il benessere economico dei paesi conquistatori. Da subito, le colonie servirono da semplici riserve di materie prime e manodopera. Quando poi iniziò il processo di decolonizzazione, i vecchi proprietari, pur togliendo formalmente la sovranità politica, continuarono abilmente a mantenerne quella economica, attraverso il possesso delle società impiantate su quelli che venivano considerati ancora dei propri possedimenti, in altre parole il colonialismo classico non è venuto meno perché le potenze occidentali hanno deciso di rinunciare ai vantaggi economici che ne derivano, ma soltanto perché le nuove condizioni hanno consentito di ottenerli in un modo più rispettabile e con risultati migliori (Goldsmith, 1996, p 133). Vere e proprie potenze economiche, capaci di gestire il commercio internazionale e di influenzare non poco le scelte politiche dei governi, già caratterizzavano il panorama mondiale in tempi nei quali la globalizzazione non era ancora una parola di moda.
Questa sommaria ricostruzione storica mette in evidenza che, sin dall'inizio, alla base dei processi globali c'è la volontà delle potenze politiche occidentali di allargare i mercati al di fuori dei confini tradizionali. Trovare nuove materie prime da poter estrarre a basso costo, escogitare il modo per avere la manodopera a disposizione gratuitamente erano e rimangono le preoccupazioni delle imprese oggi definite multinazionali; dunque come sostiene anche Mander l'economia globale rappresenta un fenomeno nuovo, non tanto in termini sostanziali, ma per la vastità del processo che si propone di innescare (Mander, 1996, p 26). La novità sostanziale degli ultimi anni, difatti, è rappresentata dall'ampiezza e dalla velocità con la quale tutto ciò sta avvenendo, ma le radici del fenomeno stesso risiedono nelle continue evoluzioni e nei successivi tentativi di allargamento del mercato capitalistico in ogni zona del pianeta.
Fatte queste considerazioni, dovrebbe essere chiaro che la globalizzazione è innanzi tutto un fenomeno economico, che avendo origine in questo campo genera effetti in molti altri settori come l'ambiente, la politica, la cultura e non per ultima la vita sociale di una parte sempre crescente dell'umanità. Ed è sotto questa angolazione che, secondo il mio punto vista, andrebbe esaminata. Molti sostengono che ci troviamo di fronte ad un processo inevitabile e sopratutto incontrastabile; l'analisi che ne deriva come conseguenza logica sostiene che la globalizzazione economica sia ormai storicamente determinata. Non ci resterebbe nient'altro da fare che adeguarci senza ragionare più di tanto su possibili alternative. Ciò che sostengo invece, allo stesso modo di altri studiosi, è che più di un fenomeno neutrale e inarrestabile si tratti di un progetto preciso che alcuni vorrebbero attuare senza troppi intralci. Questi alcuni, perché si tratta di una minoranza potente ma pur sempre di una minoranza, si sono dotati degli strumenti per portare a compimento il progetto e delle strategie per far diventare il mondo un unico luogo dove i principi economici del libero mercato (qui inteso come libera circolazione di merci e capitali), della competitività e del liberismo radicale possano penetrare senza alcun vincolo ogni angolo del globo e della vita umana.
Nel 1944, in una cittadina del New Hampshire dal nome di Bretton Woods, si svolse una conferenza dalla quale nacquero due strutture che da allora governano l'economia mondiale: la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale (FMI). Scopo dichiarato delle due organizzazioni era di promuovere la crescita economica e il commercio mondiale, presupponendo che in tale maniera si sarebbe arrivati ad un miglioramento delle condizioni di vita dell'intera popolazione internazionale. La prosperità promessa presupponeva un durevole periodo di pace che, tuttavia, poteva essere garantito a patto che si fossero abbattuti tutti quei vincoli che non avrebbero consentito ai paesi ricchi di usufruire dei beni e della manodopera di quelli definiti in via di sviluppo. Le grandi potenze economiche sostanzialmente dovevano esser lasciate libere di utilizzare le risorse disponibili (di ogni genere, sia umane che materiali), anche al di fuori dei propri confini, senza tener conto di alcun vincolo. In altre parole nessuna restrizione legislativa né di natura ambientale né tantomeno sociale doveva interporsi tra le multinazionali e i loro profitti economici. In un interessante articolo Korten afferma che Oggi, mezzo secolo dopo, vediamo che gli organismi creati a Bretton Woods hanno raggiunto gli obiettivi che si erano prefissati. La crescita economica è quintuplicata. Gli scambi internazionali sono aumentati all'incirca di dodici volte, e il commercio con l'estero è aumentato del doppio. Ma se è vero che le strutture economiche nate a Bretton Woods hanno raggiunto i propri obiettivi economici, è altrettanto vero che hanno mancato quelli sociali. Nel mondo la percentuale di poveri non è mai stata così alta; la violenza si è diffusa ovunque; il degrado ambientale ha raggiunto ormai livelli allarmanti (Korten, 1996, pp 32-33).
Verrebbe da domandarci il perché di questo fallimento così palese, ma il corso della recente storia ha evidenziato che fondamentalmente sia la Banca Mondiale che il Fondo Monetario Internazionale hanno agito quasi esclusivamente per acuire i problemi e i divari esistenti. Sono stati elargiti prestiti ai cosiddetti paesi del Terzo Mondo per sostenere lo sviluppo economico. Questi prestiti hanno distrutto le precedenti economie che si basavano sull'autosufficienza e le hanno rese dipendenti dalle importazioni di prodotti dall'estero. Allo stesso tempo sono spesso stati utilizzati come arma di ricatto: ogni qual volta un paese povero non segue le direttive impartite è rimesso in riga attraverso la minaccia di varie sanzioni, tra le quali il non rinnovo dei prestiti precedentemente accordati. In questa maniera i paesi occidentali hanno trovato un modo elegante per poter instaurare un nuovo tipo di colonialismo. E' quello che viene pudicamente chiamato aiuto per lo sviluppo (Goldsmith, 1996, p 140). Se poi qualche nazione si dovesse ostinare a non seguire le direttive di sviluppo economico stabilite dagli organismi globali, potrebbe incappare anche nell'isolamento o nell'embargo. I grandi colossi economici riescono abilmente a camuffare scelte che hanno come unico scopo il rafforzamento dei propri interessi come decisioni politiche operate autonomamente dai governi nazionali per il benessere dei propri cittadini.
A conferma dello strapotere del mercato su ogni altro ambito, nei primi anni '70, sono state istituite le cosiddette zone franche, che non sono nient'altro che zone delimitate, all'interno di un paese sovrano, dove le multinazionali possono agire indisturbatamente senza dover rispettare i limiti nell'emissione d'agenti inquinanti nell'atmosfera e nei terreni, i diritti sindacali dei lavoratori e in generale tutto ciò che riguarda la legislazione locale. Se all'inizio tali zone, caratterizzate dall'alta tolleranza legislativa e dalle facilitazioni fiscali, erano esclusivamente circoscritte al Sud del mondo, la tendenza attuale fa prospettare un allargamento delle medesime anche alle altre zone. Ciò dimostra ancor maggiormente il grande potere delle imprese multinazionali nella gestione dell'economia mondiale.
A distanza di anni dalla creazione della succitata Banca Mondiale o del Fondo Monetario Internazionale, nuovi accordi e nuovi organismi continuano a tutelare ed in certo senso ad imporre un modello di sviluppo al resto del genere umano. Di queste organizzazioni, come il WTO (World Trade Organizzation) o il G8 (i primi grandi otto paesi della terra), fanno parte economisti, dirigenti delle multinazionali e capi di governo. In tutti i loro incontri, gli accordi che alla fine ne scaturiscono generano ripercussioni notevoli sulla vita sociale di buona parte (se non di tutta) l'umanità. Cercare di comprendere i principali effetti che tali decisioni comportano è fondamentale per analizzare la direzione che sta prendendo l'attuale società. La musica, le arti e ogni forma espressiva viene influenzata non poco dal processo in atto che ho appena tentato di delineare
I riflessi della globalizzazione economica nella politica, nell'ambiente e nelle culture. Due opposte visioni: omogeneizzazione contro eterogeneizzazione.
I processi inerenti alla globalizzazione dell'economia non rimangono isolati in questo campo ma generano evidenti conseguenze in molti altri settori. La politica degli stati nazionali, l'ecosistema ambientale, le culture dei popoli, nonché la vita quotidiana delle persone sono fortemente influenzate dalle strategie e dai progetti che i vari soggetti economici globali decidono di volta in volta di adottare. In altre parole le relazioni sociali che giornalmente ognuno di noi ha, il modo in cui si esprime, ciò che mangia e che respira, non dipende più solo ed esclusivamente dai rapporti che si possono generare all'interno della specifica località dove vive, ma anche da un insieme di fattori che risiedono ad un livello definibile globale. Storicamente ogni tipo di economia che si è sviluppata in tempi e zone differenti, da quella più semplice a quella più complessa, ha implicato una determinata correlazione con le culture che insieme ad essa si formavano. Tra l'altro, comunità aventi tipi di economia simili potevano differire notevolmente quanto a stili di vita e anche a espressioni culturali.
La novità attuale consiste proprio nell'allargamento del modello economico capitalistico occidentale in buona parte del mondo. Popoli e culture differenti si trovano a doversi relazionare con un modello economico sempre più basato esclusivamente sul profitto e sul libero mercato. Sopratutto in quelle popolazioni dove tale modello è già riuscito ad imporsi, è evidente che ciò stia comportando conseguenze in tutti i settori della vita umana. La domanda che sempre più spesso ci si pone è la seguente: stiamo procedendo verso una sempre crescente omologazione o al contrario verso una maggiore pluralizzazione delle culture e degli stili di vita? Come al solito le risposte sono divergenti. Non bisognerebbe stupirsi di questo: chiunque osserva lo fa in base ad un personale modello teorico e conseguentemente le conclusioni alle quali giunge possono non concordare. Tenterò di passare in rassegna le principali conseguenze che la globalizzazione economica implica nella politica degli stati nazionali, nell'ambiente, nelle culture e non per ultimo nella vita personale.
Lo stato nazione, così come fu concepito nel XIX secolo, perseguì costantemente lo scopo di unificare, all'interno dei propri confini, popolazioni locali esprimenti evidenti differenze culturali. Attraverso gli istituti preposti alla socializzazione dei cittadini, come ad esempio la scuola, i dialetti locali sarebbero dovuti essere abbandonati per lasciare il posto ad una lingua nazionale unica. Il compito di fornire le direttive guida all'intera popolazione nazionale, attraverso la promulgazione delle leggi, spettava ad un unico Parlamento. Decidere l'invasione di altre nazioni, l'allargamento dei mercati (magari anche attraverso una guerra), era una mansione di stretta pertinenza degli alti vertici dello Stato. Tra la politica istituzionale e le scelte economiche e culturali sussisteva una stretta relazione di causalità. Ciò che sta avvenendo recentemente ha reciso questo legame. Le imprese multinazionali possono stabilire esse stesse le linee politiche che uno Stato deve adottare e quelle che assolutamente deve evitare. Se un paese approva una legge limitativa per i profitti di un'impresa multinazionale, questa può decidere di trasferirsi altrove alla ricerca di manodopera meno costosa, di tasse meno alte o di sussidi più magnanimi. La sovranità legislativa, o peggio ancora la capacità dei cittadini di prendere decisioni per la propria vita, è in parte compromessa come espone anche Sennett Oggi le comunità locali, le città o le nazioni temono che se esercitassero la propria sovranità, per esempio imponendo tasse o limitando la possibilità di licenziare arbitrariamente, un'azienda potrebbe trovare senza problemi un'altra isola nella rete: una fabbrica in Canada al posto di quella in Messico, un ufficio a Boston invece che a Manhattan (Sennett, 2001, p 137). L'aumento delle zone franche o zone di libero commercio anche nei paesi ricchi è un esempio della rinuncia, da parte delle comunità locali, a limitare tale potere decisionale. Di fatto, i partiti, i parlamenti, i governi e in generale tutta la sfera della politica istituzionale, anche dei paesi più forti, cessa di essere un'istanza dotata di propria autonomia. Le scelte economiche delle imprese multinazionali sembrano poter sovrastare quelle politiche e sociali sia degli Stati nazionali, sia quelle prese da organismi e istituzioni operanti in località più ristrette.
Prendo in considerazione un altro settore nel quale la globalizzazione economica sta avendo notevoli conseguenze, ossia quello ambientale. E' noto a tutti che le condizioni nelle quali versa l'intero ecosistema non siano ottimali. E' altrettanto noto che, benché resistano delle oasi naturali non del tutto compromesse, nulla fa presagire un miglioramento della situazione. Anzi, senza rimedi efficaci sono molti gli scienziati che anticipano scenari futuri tristi. L'inquinamento dell'aria, delle acque e delle terre sta diventando globale al pari dell'economia o delle forme culturali. Ciò significa che le conseguenze dell'allargamento del buco nello strato d'ozono non riguardano esclusivamente le zone polari ma l'intero pianeta, giacché il derivante rialzo della temperatura genera alluvioni e siccità in Africa come in Europa, in Asia come nelle Americhe. Tutti siamo coinvolti in questo processo al di là di quanto possiamo esserne coscienti. L'emissione di sostanze inquinanti nell'aria o il disboscamento delle foreste hanno effetti nocivi nella vita di coloro che abitano nelle vicinanze di fabbriche e zone verdi ma anche in quella di chi abita in luoghi lontani e magari non è per nulla informato di quanto stia avvenendo. La logica della crescita economica a tutti i costi e della competitività non fa che aumentare le conseguenze negative sull'ambiente; ma difficilmente i paesi industrializzati riusciranno a trovare un accordo capace di limitare i danni che si stanno producendo. In questo settore solo un accordo globale potrebbe riuscire ad avere effetti benefici. L'azione di un singolo stato oltre che inefficace sarebbe impensabile poiché nell'economia globale un paese che intenda adottare norme ambientali restrittive si condanna ad uno svantaggio comparativo nei confronti dei concorrenti (Goldsmith, 1996, p 70). L'incremento della competitività tra le imprese transnazionali e l'incapacità (in alcuni casi l'impossibilità) di controllare il loro operato sta mettendo a rischio la salute dell'intera umanità. Nel settore agricolo, ad esempio, la sperimentazione e la cultura già in atto di determinate piante geneticamente modificate, ossia gli OGM3, oltre a contribuire a diminuire la biodiversità aumentano anche i rischi di malattie che nella maggior parte dei casi non sono ancora conosciute. Tutto questo ancora una volta per vedere aumentare i profitti.
Giunto a questo punto passo ora ad analizzare il nodo sicuramente più controverso dell'argomento in questione, ossia il rapporto tra la globalizzazione economica e la relativa globalizzazione delle culture. Sempre con maggior frequenza si parla di culture globali, culture transnazionali, di terze culture, ossia di culture i cui elementi trascendono i confini delle nazioni per rendersi disponibili ad una varietà di situazioni e di località, ma anche di culture che non hanno un luogo di produzione ben identificato. E' sufficiente fare un viaggio in due o tre grandi metropoli mondiali per rendersi conto di come il cibo, le mode giovanili, la musica, le immagini dei cartelloni pubblicitari, l'architettura dei nuovi palazzi e molti altri elementi ancora, siano talmente somiglianti tra loro da non rappresentare una novità per il visitatore esterno proveniente da un'altra città. In ogni paese tropicale, in ogni luogo di villeggiatura, sempre con maggior frequenza si edificano villaggi turistici che non fanno altro che ricostruire l'ambiente più familiare al turista che intenda viaggiare senza far a meno dei comfort di casa propria. Nel Ladakh, una regione desertica situata sull'altopiano tibetano nell'India del nord, la popolazione, dopo gli anni '80, ha potuto vedere ed ascoltare musica e film occidentali tramite i walkman e la tv satellitare introdotti insieme al crescente flusso turistico. Helena Norberg-Hodge ha vissuto per lungo tempo insieme ai Ladaki potendo constatare come questa popolazione, in un brevissimo periodo, abbia mutato il proprio modo di percepirsi e di rapportarsi con gli altri: in poco più di dieci anni l'orgoglio ha lasciato il posto a un complesso d'inferiorità culturale. Oggi molti, soprattutto fra i giovani si vergognano delle proprie radici e scimmiottano la cultura occidentale (Norberg-Hodge, 1996, p 43-54). Con questo non voglio affermare che le persone abbiano smesso di pensare, agire, relazionarsi e comunicare tra loro in maniere differenti e neanche che il mondo sia irreparabilmente divenuto un luogo privo di difformità, ma che una spinta verso tale direzione omogeneizzante è seriamente da prendere in considerazione sopratutto se riferita ai nuovi rapporti di dominio economici che i centri impongono alle periferie. Questo processi tra l'altro sono solo parziali; essi interessano alcune regioni dell'economia-mondo più di altre, e all'interno delle regioni, alcuni gruppi o settori sociali più o meno di altri, e questo è importante se cerchiamo di capire la produzione di determinati ambienti urbani (King, 1996, p 129). Con l'avanzare del tempo, lo sviluppo delle tecnologie comunicative e il prosperare di un mercato inarrestabile stanno facendo diventare tale processo sempre meno parziale e più totale.
Strutture di significato aventi come luogo di produzione zone e comunità specifiche continuano ad esistere, a resistere e a mostrare la loro irriducibile particolarità, anche se la recente fase storica sembra evidenziarne la crescente deterritorializzazione e interrelazione reciproca. Elementi differenti si mescolano a tal punto che è persino difficile distinguere i nuovi da quelli originari. Come ho già posto l'accento nei precedenti paragrafi, questi fenomeni non sono inediti; i contatti tra culture territoriali esistono da tempo, anche se bisogna costatare che recentemente si è prodotta un'accelerazione su scala planetaria. L'evoluzione del reggae ne è un buon esempio. Da musica tipica creata e suonata dai neri jamaicani è divenuta, attraverso le molte migrazioni, strumento identitario e di coscienza per la gente di colore sparsa un po' ovunque nel mondo. Tutto questo però ha preso forma esclusivamente all'interno di quella sfera che Hannerz ha definito cornice delle forme di vita4, ossia quella sfera che concerne la concreta strutturazione dei rapporti umani faccia-a-faccia.
Oggi tutto appare mutato e da rivedere perché nel frattempo gli sviluppi nei trasporti, nelle tecnologie delle telecomunicazioni, uniti agli ampliamenti dei mercati mondiali hanno comportato la formazione di alcune culture che sono difficilmente ancorate ad un luogo e ad una comunità ma che comunque stabiliscono con ognuna di esse dei rapporti. Il reggae, grazie all'allargamento del mercato discografico avvenuto alla fine degli anni '70, è entrato a far parte della vita di molta gente non necessariamente di colore e ancor meno jamaicana. Elementi culturali provenienti da ogni località del mondo possono così mescolarsi ad elementi non appartenenti a nessun luogo e a nessuna comunità specifica. Per definire questa situazione Hannerz afferma che oggi è più difficile che mai, o almeno più irragionevole, vedere il mondo come mosaico culturale formato da pezzi separati, dai margini netti e ben definiti. Le interconnessioni culturali si estendono sempre più attraverso il mondo: si tratta più che mai, di un'ecumene globale (Hannerz, 1992, p 282-283) ovvero di una regione di interazione e scambio culturale costante (Kopytoff, 1987, p 10). Anche Robertson parla della globalizzazione culturale come di un concetto che riguarda la strutturazione del mondo-come-un-tutto evidenziando che esiste un'autonomia generale e una logica del processo di globalizzazione, che opera in relativa indipendenza da processi strettamente socioculturali e societari [...]. Il sistema globale non è il risultato di processi di origine fondamentalmente intrasociale o anche di sviluppo del sistema interstatale.. (Robertson, 1996, p 78-86). In questo senso si formerebbe una cultura globale che non avrebbe più un centro definito di produzione, una cultura che si sarebbe progressivamente slegata da qualsiasi località. Il loco di formazione e la sua evoluzione non sarebbe neanche da individuare ad un livello interstatale, ovvero non può essere intesa come il risultato degli scambi bilaterali tra stati-nazione, ma sarebbe dotata di una sua autonomia di percorso. Addirittura alcuni pongono l'accento sul fatto che il processo in atto romperebbe anche i vecchi riferimenti basati sulla divisione del mondo in zone centrali e periferiche, di maggiore o minore influenza, per questo secondo Appadurai la nuova economia culturale globale deve essere compresa come un ordine complesso, sovrastante, disgiuntivo, che non può essere considerato nei termini dei modelli esistenti di centro-periferia (persino di quelli che potrebbero render conto di centri e periferie multipli) (Appadurai, 1996, p 26).
Concordo nel considerare complesse le evoluzioni delle culture contemporanee, in quanto sottoposte a molteplici influenze5 provenienti dai mercati, dalle tecnologie comunicative, dai flussi migratori, dalle immagini e dai suoni di un mondo che appare sempre più interrelato. Non altrettanto concordo per quanto riguarda la constatazione della dissoluzione di zone considerabili centrali e altre periferiche nella gestione dei flussi economici e culturali. Subito dopo la fine della seconda guerra mondiale era facile identificare gli stati che rivestivano un ruolo primario e quelli che invece erano semplicemente dei satelliti. La scomparsa dei due blocchi contrapposti, ossia quello tra Stati Uniti e Unione Sovietica, ha alterato la mappa delle influenze mondiali e reso meno limpida la situazione, ma ciò non ha coinciso con la scomparsa dei centri politici ed economici. Se alcune zone (o alcuni paesi come il Giappone o l'Unione Europea insieme al perdurante impero statunitense) hanno man mano occupato un posto centrale nei rapporti mondiali, altre sono decadute. Questo processo a mio modo di vedere potrebbe anche aver evidenziato una pluralizzazione dei centri ma certamente non un loro decesso. Normalmente sono i centri che dirigono e influenzano i flussi economici e culturali nelle periferie anche se talvolta, come in un romanzo, può accadere che la periferia arrivi perfino a condizionare il centro. La diffusione di alcune forme culturali come il caso della musica reggae in Europa potrebbe esserne un esempio, ...una produzione culturale della periferia che rappresenta in qualche modo una reazione al dominio politico ed economico del centro, anche se solitamente, ...quando il centro parla, la periferia ascolta.. (Hannerz, 1992, p 284). Nei nuovi processi di globalizzazione queste dinamiche sono interessanti proprio perché invertono le normali direzioni delle influenze.
Una volta accertata l'esistenza di una cultura globale, il punto cruciale della discussione si sposta sulle possibili valutazioni e sulle influenze che genera nella strutturazione dei rapporti socioculturali a livello mondiale. E' proprio questo il punto sul quale difficilmente si giunge ad un accordo. Spesso le contrapposizioni sono frontali e prevedono due opzioni nette: la globalizzazione porterà alla dissoluzione di tutte le differenze e dunque alla vittoria del cosiddetto pensiero unico o al contrario la globalizzazione sarà la medicina capace di guarire ogni male, preservare le differenze e garantire lo sviluppo per l'intera popolazione mondiale. Entrambi, a mio modo di vedere, difettano di qualcosa, tracciando scenari futuri troppo felici o troppo pessimisti. La concretizzazione della seconda ipotesi presuppone l'adozione a modello globale del liberismo economico, trasformandolo da roccaforte di una metà del mondo in proposta morale per il mondo intero (Geertz, 1999, p 73). Lo sviluppo economico sarebbe illimitato e nello stesso tempo capace di garantire un benessere mondiale generalizzato. Il mercato stesso garantirebbe la proliferazione delle differenze identitarie e culturali attraverso le sue infinite risorse. A tutti sarebbe offerta la possibilità, sempre secondo questa visione estrema, di consumare immagini, suoni e merci varie secondo i propri gusti; il consumatore globale sarebbe così conformemente aiutato a credere di essere un attore, laddove di fatto nel migliore dei casi è solo colui che sceglie (Appadurai, 1996, p 37). Questo possibile scenario, oltre ad essere troppo ottimista e a non prendere in considerazione i limiti ecologici dello sviluppo, mi sembra una visione più sottile, aggiornata ed estremamente economicizzata del vecchio colonialismo.
La prima proposta, invece, non tiene in debita considerazione la possibilità che i processi in atto oltre a generare uniformità possano anche spingere alla creazione di forti resistenze capaci di generare nuove differenze culturali. Assistiamo, infatti, alla proliferazione di movimenti a base etnica, religiosa o politica che attraverso una varietà di forme e modi mettono in atto differenti strategie che possono andare dalla difesa della propria identità culturale fino all'elaborazione e alla realizzazione di progetti alternativi di più ampio respiro. Esiste una tendenza globale omogeneizzante che deriva in maniera particolare dall'affermazione globale del nuovo capitalismo mondiale e del pensiero utilitarista ad esso collegato, ma parallelamente e contro di essa si moltiplicano tendenze tese a costruire mondi immaginati capaci di influire nella formazione dei rapporti socioculturali reali.
Resistenza agli effetti della globalizzazione e processi di rilocalizzazione
L'immagine di un mondo composto di persone e gruppi sociali che accettano passivamente qualsiasi cosa gli venga propinata senza compiere un attivo processo di critica è tipica di una visione pessimistica della realtà odierna. Nel corso della storia, sopratutto nei periodi di maggiore incertezza, tale visione è riproposta ciclicamente. L'attuale fase è sicuramente densa di dubbi e paure. Non si comprendono compiutamente quali possano essere le soluzioni e i possibili percorsi da attuare per risolvere i molti problemi esistenti. La crescita mondiale della povertà, la salute dell'ecosistema, l'acuirsi di conflitti in molte zone del pianeta, l'aumento dello sfruttamento nel lavoro sono alcuni dei temi al centro dei dibattiti mondiali. Ancor più, il rischio derivante da una crescente omogeneizzazione culturale pone seri interrogativi, anche se spesso il pericolo è confuso con l'effettiva vittoria del cosiddetto pensiero unico6. Non si tiene debitamente conto dell'esistenza di alcuni processi-progetti che mirano ad agire in controtendenza proponendo una serie di risposte che tendono a scardinare i codici culturali imposti dall'alto e a costruirne di autonomi. E' proprio su questi processi-progetti capaci di costruire o al limite mantenere vive le differenze, e non su quelli omologanti, che tento di concentrare la mia attenzione.
La diffusione della cultura globale, come ho rimarcato attraverso le parole di Robertson nel precedente paragrafo, opera in relativa indipendenza da processi strettamente socioculturali e societari (Robertson, 1996, p 86). La cultura globale si manifesta come qualcosa di sovrastante, un vincolo creato dall'alto che mette in dubbio la genuinità delle radici culturali dei popoli, che non tiene conto della capacità di progettare autonomamente, di creare rapporti sincretici che non siano di dominio o di relazionarsi criticamente con l'altro senza che necessariamente una delle due parti sia assimilata. L'origine non marcatamente derivante da rapporti sociali tangibili, chiari, la fa apparire come un'imposizione agli occhi di una quantità crescente di gruppi e movimenti vari.
Le risposte collettive che possono essere espresse variano enormemente. I movimenti religiosi fondamentalisti, come una parte di quello islamico ad esempio, praticano un ripudio netto verso tutti quegli elementi culturali che provengono dall'esterno. Il tentativo di riappropriarsi dell'identità compromessa, passa attraverso un progetto di chiusura verso tutto ciò che è infedele e contemporaneamente è mediato dalla riscoperta delle radici antiche, percepite come pure e in pericolo di estinguersi sotto i colpi della modernità. In tutto il mondo, i movimenti nazionalisti, seppur sostituendo la religione con la patria7, compiono un ragionamento molto simile al precedente. L'identità si forgia sui valori antichi; è la storia nazionale (qualunque essa sia), intesa come gloriosa, mitica e dunque da rivalutare, a divenire il collante. Tutti coloro che provengono da oltre confine e sono portatori e portatrici d'alterità vanno allontanati perché pericolosamente contaminanti. In entrambi i casi avviene un tentativo di resistenza ai codici culturali imposti, ma allo stesso tempo si sviluppano anche iniziative discriminatorie nei confronti di altri gruppi. La chiusura con l'esterno accentua l'emergere di un'ideologia razzista che colpisce indistintamente gli immigrati o gli infedeli.
Di tutto altro stampo sono quei movimenti che, al pari di quelli appena esaminati, puntano a difendere e affermare la propria peculiarità e specificità ma senza per questo pervenire a propositi discriminatori. Il riconoscimento della differenza del gruppo di riferimento passa attraverso il riconoscimento dell'uguaglianza fra tutte le altre differenze. Questi gruppi entrano in conflitto con quella che ho definito cultura globale sopratutto quando essa è percepita come dominante. Il terreno dello scontro può riguardare i molteplici settori della vita sociale come ad esempio la sanità, l'educazione e la formazione, i mass media, il rapporto tra lo sviluppo economico e quello ambientale, la scienza, le biotecnologie, il lavoro e i diritti sindacali e infine ma non per ultimo la creazione e la diffusione dei codici culturali e dei contesti simbolici. Negli ultimi anni, in occasione delle riunioni delle organizzazioni economiche, militari e governative mondiali, un variegato numero di associazioni e gruppi hanno evidenziato la poliedricità di un movimento di opposizione che fa confluire al suo interno diversi punti di vista che nonostante tutto si uniscono contro i progetti di coloro che si autodefiniscono le maggiori potenze del pianeta. Ambientalisti, sindacati di base, sottoculture d'ogni tipo, ragazzi e ragazze dei centri sociali autogestiti, anarchici, femministe e una moltitudine di soggettività tentano di delineare scenari futuri alternativi.
Nel complesso la relazione tra le culture contemporanee appare complessa. La varietà di concatenazioni che ognuna di esse può generare è sorprendente. Alcune pur essendo tipiche di un luogo specifico entrano in contatto con altre originarie di località lontane. Quasi tutte si relazionano, in modi differenti (che possono contemplare il conflitto come l'accettazione acritica), con la cultura globale. La situazione appare ancora più complessa se scendiamo in profondità e prendiamo in esame le sottoculture.
Nei paragrafi conclusivi di questo capitolo e anche in tutto il prossimo, tento di analizzare passaggi che hanno portato una cultura locale come quella dei neri jamaicani dall'Africa alle West Indies, e dalle West Indies in buona parte del mondo fino ad arrivare in Italia e a Roma. Le reinterpretazioni operate dalle sottoculture locali dei tratti culturali provenienti dall'esterno possono essere viste come il tentativo delle stesse di contaminarsi senza peraltro farsi assimilare. L'ibridazione in questi casi produce eterogenizzazione e non omogeneizzazione.
Damiano