Fordismo e Postfordismo
L'idea che negli ultimi decenni si sia verificata una modificazione enorme dei processi produttivi, sembra ormai un dato acquisito da parte di tutta la ricerca sociologica contemporanea. Saremmo di fronte a una modificazione a tal punto profonda da aver scombinato per intero il terreno dell'analisi; le principali categorie dell'interpretazione ne risultano sconvolte. Profondamente diverso, rispetto a venti anni fa, è di sicuro il capitale, forse addirittura irriconoscibile è oggi il suo antagonista storico, il lavoro.
Marco Revelli, nel suo saggio ¹ , si associa sin dall'inizio, in modo assai netto, all'interpretazione ormai dominante: in questi anni si è avuta una trasformazione epocale dei processi di lavoro e di organizzazione produttiva (p. 161). Il senso di marcia della trasformazione viene individuato nel passaggio da un primo modello di relazioni produttive, denominato fordismo, ad uno, i cui caratteri non è possibile ancora definire con chiarezza assoluta, che viene comunemente definito postfordista.
Mettere in luce gli aspetti salienti dell'uno e dell'altro paradigma (così come descritti da Revelli) è lo scopo di questi brevi appunti.
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Elemento fondante del paradigma fordista è la così detta cultura della crescita. I mercati, dagli anni Trenta in poi, sono in continua crescita. Nel postfordismo, al contrario, i tassi di sviluppo si abbassano, la crescita rallenta, si approssima allo zero.
Dalla cultura della crescita discendono quattro corollari:
- I mercati sono in forte espansione; tutto ciò che si produce trova i suoi acquirenti, nessuna merce rimane per troppo tempo invenduta. La tendenza espansiva dei consumi è ben riassunta da questa citazione di Henry Ford: Noi crediamo possibile che un giorno si raggiunga un punto in cui tutte le cose siano prodotte in tanta quantità e così a buon prezzo da rendere la sovrapproduzione una realtà. Ma per quanto ci riguarda noi guardiamo a questo ipotetico futuro senza paura, anzi con grande soddisfazione. Si attribuisce una priorità al momento di progettazione del prodotto; quest'ultimo infatti, immancabilmente, riesce ad essere venduto, trova i suoi consumatori, il suo mercato. Proprio in questo senso Revelli parla di una supremazia della produzione sul mercato e, in termini più generali, di una supremazia della fabbrica sulla società. E' la fabbrica che in modo autoreferenziale produce, e decide quali sono i beni che saranno consumati a livello sociale.
- La tendenza a produrre in quantità sempre crescenti (tendenza che si afferma in base al fatto che tutto ciò che si produce comunque si vende) induce le imprese ad avvalersi delle così dette economie di scala. Ciò porta al gigantismo degli impianti, cui consegue l'enorme concentrazione della mano d'opera; ciò rende necessario a sua volta un sistema di comando massiccio, rigido, burocratico, improntato alla disciplina militare. Il dispendio di risorse (in termini di organizzazione e anche di salari) destinate alla fase progettuale e di controllo/comando si spiega con la relativa stabilità della produzione; se un determinato prodotto restava in commercio per anni, i costi organizzativi tendevano allo zero.
- La fabbrica fordista è improntata a una evidente ed aperta dualità tra capitale e lavoro; il lavoro tende alla sovversione, e al rifiuto del lavoro (secondo le parole dell'ingegner Taylor: ben difficilmente si trova in uno stabilimento un solo operaio, sia egli impiegato a giornata, a cottimo, a contratto, oppure in base a qualunque altro criterio, che non dedichi gran parte del proprio tempo a studiare fino a qual punto egli può rallentare il ritmo di lavoro, dando pur sempre l'impressione di lavorare a un ritmo soddisfacente) il capitale pratica apertamente il dispotismo, non nasconde né abbellisce la sua tendenza ad appropriarsi di quote maggiori di lavoro vivo.
- Ultimo corollario della cultura della crescita che caratterizza il paradigma fordista, è la territorializzazione del capitale. Gli impianti industriali, in virtù della loro staticità e solidità entrano in simbiosi profonda con un territorio (emblematica la Fiat a Mirafiori); la localizzazione riguarda in primo luogo il reperimento delle risorse necessarie in modo diretto alla produzione: materie prime, mano d'opera, risorse sociali. La localizzazione si opera poi anche ad un livello politico, nel senso che le imprese richiedono ai poteri pubblici di intraprendere delle politiche necessarie allo sviluppo industriale: creazione di strade, porti, ferrovie, energia elettrica, sostegno economico in caso di crisi produttiva o di licenziamenti, programmi di sostegno all'industria, etc
Il capitale fordista, in breve, è sempre un capitale nazionale, che nasce in un luogo determinato, che funge da epicentro e cuore produttivo. Certo ogni impresa punta ad invadere e conquistare i mercati degli altri, ma non abbandona comunque un luogo d'origine. Spiega Revelli: Ogni grande gruppo industriale, pur mirando ai mercati altrui, possedeva un proprio mercato di riferimento
lo spazio dell'economia e lo spazio dello politica lo spazio dello Stato nazionale tendenzialmente coincidono (pp. 168-69).
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Il postfordismo travolge queste quattro caratteristiche. La filosofia di partenza è radicalmente opposta, fondata com'è non più sulla crescita, bensì sulla consapevolezza del limite. Decrescono i tassi di crescita, tendono velocemente ad esaurirsi tutte le materie prime del pianeta, via via più difficile diventa conquistare quote nuove di mercato, ed ancora più dispendioso è riuscire a mantenerle.
Le caratteristiche salienti del nuovo paradigma postfordista possono così sintetizzarsi:
- Vi è una evidente limitatezza dei mercati, una facile saturabilità; si tratta di una crisi da realizzo, ossia di una impossibilità da parte dei consumatori di assorbire il surplus di produzione; la saturazione dei mercati, in altri termini, non dipende da una effettiva soddisfazione dei principali bisogni del pianeta, si tratta di una impossibilità, in termini monetari, ad accedere ai prodotti. E' insomma una crisi puramente interna al capitale, dovuta alla sua modalità specifica di distribuire le risorse. Il caso dell'automobile è paradigmatico: nei paesi ricchi abbiamo un mercato saturato, mentre i 5 miliardi di uomini ancora nel resto del mondo appiedati sono materialmente impossibilitati a comprare un'automobile.
- Non è più la fabbrica a produrre la società. Oggi la società, meglio: il mercato, impone il proprio dispotismo alla fabbrica. Il sistema produttivo postfordista «naviga a vista»: lavora con tempi brevi, incompatibili con ogni tradizionale modello di programmazione
[si deve] adattare momento per momento il sistema produttivo a una domanda costantemente variabile (p. 176). Nessuna impresa pensa di poter mantenere lo status quo, e pratica perciò in modo sistematico la rottura, la concorrenza selvaggia, l'escalation, consapevole dell'impossibilità di difendere a lungo una qualche posizione di vantaggio.
- Effetto diretto di tutto questo è la diminuzione nell'estensione degli impianti. Bisogna snellire, velocizzare, diminuire i costi, diminuire gli uomini, diminuire le scorte.
- Si afferma il concetto di fabbrica integrata, ossia una fabbrica dove il controllo non è più esterno (con l'uso di uno strumento: il cronometro, e di un uomo: il cronometrista), bensì interno al processo di produzione, sistemico, al limite demandato allo stesso operaio. Si supera in tal modo la distinzione tra comando e produzione. Il linguaggio acquista una rilevanza nuova in fabbrica. Il regime fordista escludeva categoricamente la comunicazione (o si parla o si lavora), oppure la faceva intervenire solo in modo unilaterale in forma di comando (fai questo, fai quello). Ora nella produzione acquista centralità la relazione, il coordinamento tra i lavoratori, il lavoro di gruppo, la circolazione delle informazioni. La comunicazione è anche il mezzo con cui si realizza il controllo integrato: gli operai si scambiano le informazioni, e con ciò si controllano e si testano vicendevolmente
- Nell'impresa postfordista viene superata la concezione dualistica, fondata sulla contrapposizione tra capitale e lavoro. Ora il conflitto non è più ammesso, si punta all'integrazione della forza lavoro, tramite una valorizzazione della soggettività, tramite l'auto-attivazione, tramite l'interiorizzazione dell'orizzonte e dei valori dell'impresa. Tutta questa tendenza presuppone la rimozione del conflitto nei luoghi di lavoro, la radicale sconfitta del movimento operaio, la scomparsa di una soggettività antagonista. Nessun postfordismo sarebbe pensabile suggerisce Revelli senza passare prima dalla sconfitta dei 35 giorni alla Fiat.
Dal saggio di Marco Revelli si può estrapolare una caratteristica ulteriore del paradigma postfordista, che rimanda però più in generale al concetto di globalizzazione. Ci si sposta cioè dal terreno dell'organizzazione della vita d'azienda all'interno della singola fabbrica per approdare all'assetto più generale dell'economia internazionale. Tutte le imprese che negli ultimi anni hanno effettuato una ristrutturazione, infatti, hanno introdotto modifiche di due tipi: da un lato hanno introdotto in modo più o meno marcato gli elementi di spicco del paradigma postfordista (così come sopra descritti), dall'altro hanno anche assunto una qualche dimensione globale (p. 206).
Globalizzazione e postfordismo, insomma, sono fenomeni e tendenze distinte, che hanno origini diverse e diverse cause storiche, e che tuttavia nella fase attuale viaggiano strettamente legati.
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Comprendere le modificazioni che sono intervenute nel processo produttivo è certamente utile e importante. Di particolare interesse, in tal senso, è lo studio di Laura Fiocco ² sullo stabilimento Fiat di Melfi. La lettura di questo saggio mette in completa evidenza una serie di trasformazioni occorse alla più tradizionale e fordista delle industrie: quella dell'automobile.
Ancora più interessante, però, è individuare le cause che hanno determinato l'abbandono del paradigma fordista, in favore di quello definito postfordista. Su questo punto l'impostazione di Revelli mi sembra carente.
Revelli individua il passaggio critico nel venir meno della cultura della crescita, sostituita dalla così detta coscienza del limite. Limite produttivo che deve intendersi in due modi: da una parte la saturazione dei mercati con la conseguente crisi della domanda, dall'altra il rischio di un collasso ecologico con la conseguente messa in discussione della cultura della crescita illimitata.
L'ecologia, ben inteso, non crea scrupoli al capitale, che continua, secondo la sua natura, a saccheggiare e distruggere le risorse del pianeta; rende lampante però un limite allo sviluppo, un limite all'esportabilità del modello occidentale nel resto del mondo. La crisi ambientale, in altri termini, diventa una crisi economica, una crisi nella capacità di vendere i prodotti, e solo per questa via incontra, modificandoli, i piani del capitale.
Ebbene: cosa c'è che non funziona in questa ricostruzione? L'elemento che manca, a mio avviso, il grande assente di questa analisi è quello della soggettività operaia. Il mutamento di paradigma, il transito dal fordismo al postfordismo, è messo in relazione ad una crisi meramente economica; il capitale è visto come una forza autonoma, che non soffre dei condizionamenti che la società gli rivolge. E' una visione, quella di Revelli, in definitiva troppo economicista, che segue un ragionamento, grosso modo, di tal fatta: il capitalismo internazionale ha prodotto in un certo modo per alcuni decenni, poi è intervenuta una crisi della domanda (con relativa diminuzione dei profitti) e perciò ha cambiato, di punto in bianco, metodi produttivi.
Il capitale, in questa visione, fa e disfa la storia, persegue i suoi interessi, e realizza una società ad essi coincidenti. E cosa fanno, nel frattempo, i suoi antagonisti storici? Cosa fa il lavoro, cosa fa il Terzo Mondo, cosa fanno i movimenti sociali, come si comportano le moltitudini globalizzate? Qual è il loro ruolo? Soltanto quello di subire i cambiamenti, e di adattarsi a cose fatte?
Ritengo, diversamente, che le soggettività antagoniste abbiano un ruolo essenziale nel determinare lo sviluppo storico. Mi avvalgo, per illustrare questo punto, di alcune citazione tratte dall'ultimo importante lavoro di Toni Negri ³.
Le lotte degli anni Settanta hanno costituito un attacco proletario e anticapitalistico sia nei paesi dominati che in quelli subalterni. L'accumulazione di queste lotte costituì il motore della crisi [che ha portato al postfordismo] e dettò i termini e la natura della ristrutturazione capitalistica (p. 226). Primo elemento: sono le lotte, non una mera crisi economica, a mettere in moto la trasformazione sociale. In termini sintetici ed espliciti: la crisi capitalistica non è mai una mera funzione della dinamica del capitale, ma è direttamente provocata dall'antagonismo proletario (p. 246).
Scendendo nel dettaglio del decennio di lotta 1968-77, Negri osserva: nei principali paesi capitalistici, si è scatenato un attacco di estrema intensità da parte dei lavoratori, diretto in primo luogo contro i regimi disciplinari del lavoro. Questo attacco si esprimeva, principalmente, in un rifiuto generale del lavoro e, in particolare, in una generale ostilità nei confronti del lavoro produttivo in fabbrica. Secondo elemento quindi: sono i lavoratori che per primi rifiutano il lavoro, o meglio rifiutano l'irregimentazione del lavoro, che è tipica abbiamo visto del regime fordista.
Contro l'intensità e la coerenza delle lotte, si aprivano di fronte al capitalismo continua Negri due strade diverse, che furono entrambe tentate, in successione. Da un lato, la scelta repressiva, che mostrò subito di non poter dare i risultati sperati; dall'altro, la strada che puntava al mutamento della stessa composizione del proletariato, integrandolo e dominandolo con la capitalizzazione delle sue pratiche (p. 252).
Scatta a questo punto il terzo elemento dell'analisi: il capitalismo intercetta i nuovi bisogni delle masse, e li sussume all'interno dei suoi ingranaggi. L'illustrazione di questo meccanismo sarebbe troppo lunga per essere contenuta in questi brevi appunti, ma mi sembra tuttavia evidente che alcune parole chiave del capitalismo contemporaneo (mobilità, flessibilità, sapere, cooperazione, affetti, lavoro di gruppo, informalità, comunicazione) sono state inventate per la prima volta dai movimenti antagonisti (Bill Gates, in fin dei conti, se non fosse irrigidito dalla brama di potere e di denaro, non sarebbe poi così distante dall'etica libertaria ed anarchica degli hackers
). Per ridurre il tutto ad una formula mi avvalgo ancora una volta della parole di Negri: è il proletariato che inventa le forme produttive e sociali che il capitale sarà costretto ad adottare in futuro (p. 252).
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La diversità dell'impostazione negriana rispetto a quella di Marco Revelli è grande. Essa attiene però alla ricognizione delle cause che hanno condotto al regime postfordista, e non coinvolge il giudizio di merito su quali siano gli elementi che caratterizzano di fatto i nuovi assetti produttivi. Sulla descrizione empirica degli aspetti qualificanti del nuovo paradigma vi è infatti un consenso di massima.
Certo è che la diversità degli approcci, sopra descritta, comporta una diversità abbastanza profonda di giudizio: assai critico per Revelli (che vede il postfordismo, in modo puro e semplice, come una ristrutturazione capitalistica), più sfumato per Negri (che vede nascere il postfordismo da una protesta delle masse, poi sussunta dal capitale).
Ma per questi aspetti, eventualmente, in una puntata successiva
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Un ultimo aspetto, brevemente, prima di chiudere. Tra le caratterizzazioni del postfordismo, sopra descritte, quelle di cui ai numeri 4 e 5 mi sembrano particolarmente proficue ai fini di un'indagine critica.
Dato per scontato che oggi, specie nelle piccole imprese, non si consente al lavoratore una soggettività conflittuale, e gli si richiede, al contrario, un atteggiamento collaborativo e integrato, sarebbe interessante andare a vedere come opera, nel concreto di ogni realtà produttiva, questo meccanismo di disincentivazione dell'antagonismo.
Convivono alcuni vecchi metodi (licenziamento, assegnazione a mansioni spiacevoli e/o pesanti, trasferimenti, mobbing), con altri più soffici (controllo occhiuto specie nei primi mesi dall'assunzione, discorsi suadenti sui fini dell'azienda, dirigenti e capi che si fanno chiamare per nome e si fanno dare del tu, responsabilizzazione senza potere decisionale, etc
).
Si tratterebbe insomma di riscoprire, nell'universo levigato della produzione contemporanea, l'elemento sempre all'opera del comando, della forza bruta, della violenza.
Luca
¹ Marco Revelli, Economia e modello sociale nel passaggio tra fordismo e toyotismo, contenuto in Pietro Ingrao e Rossana Rossanda, Appunti di fine secolo, Roma, Manifestolibri, 1996.
² Laura Fiocco, La cellularizzazione della forza lavoro e le forme di resistenza alla Fiat di Melfi, reperibile sul sito http://www.intermarx.com/temi/fiat.html.
³ Toni Negri, Impero, Milano, Rizzoli, 2002.