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Architetti e carceri

Giusi Di Gangi

Golem, n. 1, gennaio 2003

Uno dei principi da cui scaturisce il progetto architettonico è sicuramente la riflessione su ciò che esso significa e rappresenta.
A partire da questa considerazione occorre chiedersi se l'architettura dello spazio carcerario debba essere considerata come parte essenziale della pena o se piuttosto la progettazione debba mirare ad un "buon abitare", e dunque a rendere, in termini che solo superficialmente possono apparire paradossali, più confortevole lo spazio abitato.
Molto spesso, infatti, nel carcere il concetto di libertà viene in qualche modo associato a quello di spazio: si riduce la libertà attraverso la riduzione dello spazio.
Questo è un problema che non riguarda solo la progettazione e il dimensionamento delle celle in sé, ma investe pesantemente la questione della densità della popolazione carceraria e il fenomeno allarmante del sovraffollamento dei carceri.

Compromettere tali condizioni di vivibilità viene considerato parte del concetto di reclusione o non significa forse svilire il significato stesso del carcere quale struttura di recupero? "Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato" (Costituzione della Repubblica Italiana, art. 27, comma III)
È da questa consapevolezza che dipende anche l'organizzazione della forma e dello spazio di tali strutture.

Idee della pena e forma del carcere
La definizione dello spazio carcerario appare molto più condizionata dai problemi della sicurezza: ecco che anche il carcere contemporaneo si attrezza, con le tecnologie più avanzate, ad assimilare le medesime funzioni che storicamente hanno avuto le "fortezze".
Lo spazio riflette in sostanza anche le modificazioni o le ricorrenze delle concezioni di carcerazione e pena.
La progettazione di carceri dovrebbe, necessariamente, far riferimento a questi cambiamenti ed essere in qualche modo coerente con maturità sociale del nostro tempo. Un esempio di come spesso invece un tale aspetto sia trascurato è l'inadeguatezza delle tipologie (1) di istituti penitenziari più diffuse in Italia, concepiti per una detenzione svolta quasi interamente all'interno delle celle e privi di spazi adibiti ad attività di socializzazione tra gli stessi detenuti.

Come si vede il rapporto tra architettura e detenzione è essenziale e articolato; di fatto però al dibattito politico si è affiancato raramente un dibattito architettonico.
La politica penitenziaria si è interessata di edilizia penitenziaria (lo dimostrano i regolamenti che sono stati emanati per la costruzione dei carceri), ma l'edilizia è tutt'altra cosa rispetto all'architettura, che implica invece una serie di considerazioni diverse, considerazioni che passano attraverso il significato dell'abitare e soprattutto attraverso il concetto di "qualità".

Conferma questa disattenzione il fatto che, a dispetto dell'importanza e della complessità formale, linguistica, progettuale che il tema dell'architettura carceraria comporterebbe, raramente si è affidata la commissione di tali strutture a celebri architetti, mentre volentieri si è voluto affidare loro la ristrutturazione di ex carceri, destinati a nuovo uso; si è giunti solo per questa seconda vita a proposte articolate e ricche di suggestioni architettoniche.
È proprio la funzione dell'edificio a motivare una partecipazione da parte degli architetti.
Probabilmente una discriminante è proprio il fatto che l'aspetto qualitativo, implicito nella progettazione architettonica, sia in qualche modo ritenuto superfluo per la funzione detentiva, rispetto alla funzionalità dello spazio alle norme di sicurezza, considerata prioritaria rispetto a qualunque altro aspetto (2).
Sono questi stessi regolamenti a generare una sorta di standardizzazione dell'edificio carcerario.
Un architetto, d'altronde, si troverebbe ad essere un esecutore materiale di un rigido dettato formale piuttosto che esserne l'interprete - e ciò potrebbe non giovare certo a stimolare la sua attenzione. Non possiamo trascurare l'inevitabile "disagio" che l'architetto deve affrontare nel progettare una struttura carceraria.
La progettazione è di fatto l'arte dell'anticipazione e in quanto tale l'architetto deve pensare al modo in cui questo spazio verrà vissuto e "abitato", deve in qualche modo identificarsi con chi utilizzerà gli ambienti e a quali siano le ripercussioni; basti pensare a quale possa essere il diverso impatto psicologico di una cella costruita in un modo piuttosto che in un altro. Pensiamo alla progettazione della luce, elemento strutturale indispensabile per l'architettura, e pensiamo invece a quale idea ciascuno di noi ha nella propria mente di una cella e della sua illuminazione. Ecco che nel nostro immaginario l'oscurità, o al contrario la luce artificiale, come la riduzione dello spazio, divengono elementi connotativi.
Nella costruzione di un edificio carcerario, rappresentativo che lo si voglia o no di un "ordine" della nostra società, è dunque di fatto escluso il contributo dell'architettura e ciò a discapito di quello che potrebbe essere un apporto anche di ordine sociale.
È necessario a questo proposito interrogarsi anche sul modo in cui l'architettura possa essere responsabile nell'edificare una strategia del potere, del controllo e della "punizione" piuttosto che operare nel senso del recupero e del reinserimento sociale.
Pochi davvero sono stati gli studi in questo senso; significativo sicuramente l'impegno di Giovanni Michelucci che ha dedicato al tema le sue ricerche, soffermandosi sull'aspetto della devianza e del disagio. Michelucci ha affrontato, inoltre, il rapporto tra carcere e città soffermandosi proprio sulle relazioni tra questi due sistemi apparentemente autonomi. La fondazione a lui dedicata prosegue oggi con pubblicazioni e iniziative l'attività e lo studio da lui intraprese.

Carcere e Città
L'idea e il modello che si impone alla struttura carceraria è sicuramente funzione di quello che è il concetto contemporaneo di reclusione. In questo senso il Panocticon di Bentham (un grande cilindro di celle disposte ad anello intorno ad una torre centrale), ideato, come dice il suo autore, per "castigare gli incorreggibili, controllare i pazzi, correggere i viziosi, isolare i sospetti e far lavorare gli oziosi" è il riflesso di una strategia dell'ordine che non risponde più alla nostra coscienza sociale attuale (3).
Anche la collocazione del carcere rispetto alla città è altrettanto importante per capire qual è l'idea che i cittadini e i governanti hanno della funzione di queste strutture.
Attualmente esistono due diverse situazioni: da una parte la maggior parte delle città ha finito per inglobare nel tempo le strutture penitenziarie; per questo la convivenza tra questi due sistemi è una situazione molto diffusa. D'altra parte però è ormai da anni in atto una discussione, e sono all'ordine del giorno dei provvedimenti che mirano ad allontanarle e dislocarle al di fuori delle città.
Bisogna chiarire se tali decisioni dipendano da esigenze di sicurezza, isolamento, spazio, adeguamento normativo o se le cause siano piuttosto da ricercare altrove.
È in questo senso che è stata contestata per esempio la dislocazione di un carcere come il San Vittore di Milano.

Così scriveva Giovanni Michelucci nel 1985

"Pena e controllo sono due categorie inerenti non solo ai suoi aspetti etici e di costume, ma alla stessa forma della città. Da qui dobbiamo ripartire, se vogliamo indagare il rapporto profondo che lega il carcere alla città. Ogni rapporto esiste in quanto ognuno degli elementi ha bisogno dell'altro per esistere o per confrontare la propria identità. Want.Black Forse per questo ritengo che l'attuale tendenza della città ad allontanare da sé i luoghi della pena non rappresenti una evoluzione in positivo della sua capacità di convivere con la devianza, quanto un tentativo di rimuovere dal proprio corpo tutti i problemi che ritiene deturpanti la sua immagine convenzionale. Una tendenza che per altro è confermata dal modo in cui cerchiamo di allontanare da noi gli ospedali, perché non ci ricordino la malattia e la morte".

La collocazione esterna dei carceri sembra essere piuttosto, come dice Michelucci, un facile modo per sbarazzarsi del problema sociale separandolo dal resto della società.
L'allontanamento delle strutture fisiche trascina con sé d'altronde anche il valore simbolico in esse implicito, il riconoscimento per contrapposizione del concetto di libertà per esempio, e fa perdere a queste architetture anche il valore di "exemplum", ma anche la relazione fra chi è dentro e chi è fuori: una relazione sottile o pesante quanto le mura, ma in qualche modo esistente, che fa riflettere chi passa e chi può scegliere di frequentare il carcere, per le attività varie che vi si svolgono.

L'allontanamento è inoltre la manifestazione della volontà di respingere il carcere considerato un elemento di disturbo al livello di vivibilità e alla qualità del quartiere stesso. La presenza del carcere sembra avere una inevitabile ripercussione sulle aree limitrofe; le conseguenze più tangibili sono la minor appetibilità delle abitazioni circostanti e persino l'aspetto più dimesso dell'attività commerciale.
L'architetto Previ, che si è interessato di architetture carcerarie, in un intervista alla rivista di san Vittore "Il Due" fa un paragone duro, ma senz'altro efficace: le carceri vengono trattate alla stregua di discariche e inceneritori.
Allontanarle è un modo per nascondere alla nostra vista, prima oltre che alla nostra coscienza un peso sociale; è un modo per evitare di convivere con l'ombra del nostro ordine sociale.

Note

1. Ecco un breve riepilogo delle principali tipologie carcerarie presenti anche in Italia:

a) Il modello edilizio philadelphiano, o Panopticon, ideato con un fine diverso rispetto alle attuali norme, quello della custodia e del totale controllo, soprattutto visivo, sui detenuti. Lo schema seguito per la progettazione, un centro dalla quale partono un numero variabile di ali, era strutturato in funzione dell'utilizzo di un numero minimo di uomini per il controllo su centinaia di altri uomini. Non sono presenti dei locali dove socializzare o svolgere delle attività, perché il periodo di detenzione si svolge all'interno delle celle.
b) Il modello edilizio auburniano, nato successivamente a quello philadelphiano, è ancora più rigoroso perché le celle contrapposte tra loro non hanno una comunicazione diretta con l'esterno, ma si affacciano agli anditi. Lo schema è sempre longitudinale, con lunghissimi corridoi e totale assenza dei locali adibiti allo svolgimento di attività miranti alla socializzazione dei detenuti.
c) Il modello edilizio a palo di telegrafo presenta gli stessi concetti, ma materializzati in modo diverso. Abbiamo un grande corridoio principale dal quale partono, perpendicolari, i vari bracci residenziali, caratterizzati dal solito andito in cui si affacciano le celle.
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2. Un curioso sito propone ai navigatori delle cartoline postali con soggetto carcerario: qui lo spazio è protagonista, ma senza detenuti.
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3. Sul Panopticon vedi anche l'articolo di Massimo Leone.
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