Sulla repressione nel carcere di S. Sebastiano
Sa Cunfederatzione de sos comunistas Sardos
19 aprile 2000
Pestaggi in cella al carcere di Sassari
liberiamoci del carcere
3 maggio 2000
Un contributo alla discussione dopo i fatti di Sassari
liberiamoci del carcere
8 maggio 2000
Diritti umani o soltanto diritti sindacali?
Francesca Mambro e Valerio Fioravanti
22 maggio 2000
Dossier: Da Sassari a Poggioreale ... o viceversa?
Coordinamento Liberiamoci dal carcere di Napoli
30 giugno 2000
Dossier: pestaggio a S. Sebastiano
victoria siempre
17 luglio 2002


Sulla repressione nel carcere di S. Sebastiano, Sassari

Ogni carcere è costruito con i mattoni dell'infamia ed è chiuso con le sbarre per paura che Cristo veda come gli uomini straziano i loro fratelli.
Oscar Wilde
Nonostante siano passate settimane ancora non è chiaro quanto sia successo lunedì 3 aprile nel carcere di S. Sebastiano posto nel cuore della città di Sassari in Sardegna.
     Sappiamo bene però che il carcere è delitto, privazione, violenza e lunedì in Via Roma 51, a Sassari il carcere ha mostrato il suo vero volto in tutta la sua brutalità, facendo rimbombare ulteriormente le parole del nuovo comandante della polizia penitenziaria, Ettore Tomassi che all'indomani della sua nomina, ossia il giorno del pestaggio si sarebbe presentato alla popolazione carceraria con le seguenti parole: "Io sono il vostro dio, in 15 giorni diventerete come agnellini. Sappiate che il lager è un paradiso, qui inizia l'inferno".
     Questi i fatti: in occasione di una protesta interna al carcere, esplosa spontaneamente a causa delle insostenibili condizioni di vita all'interno dello stesso, aggravate dal fatto che, essendo in atto la sostituzione o uno sciopero della direttrice, sarebbero stati sospesi per alcuni giorni "servizi aggiuntivi" come il "supplemento spesa" allo spaccio (ossia la possibilità di poter comprare allo spaccio del carcere alimenti oltre quelli passati dalla mensa), e il ricovero ospedaliero (giudicate se questi servizi siano aggiuntivi o innegabili!), in più sono stati chiusi i rubinetti dell'acqua, altra cosa forse superflua...
     Non è da tralasciare la situazione di un presunto sovraffollamento di detenuti per cui si volevano effettuare dei trasferimenti in altre carceri dell'isola. A tutto questo i prigionieri hanno reagito iniziando, la notte del 3 aprile, a sbattere utensili vari alle sbarre ed a urlare per denunciare il loro malessere pubblicamente. L'amministrazione, per tutta risposta, avrebbe fatto intervenire le squadre speciali: G.O.M. (gruppi operativi mobili della polizia penitenziaria, una struttura d'intervento rapido, come tutte le polizie, ma non hanno compiti punitivi. Giustificabili con situazioni di difficoltà e criminali impegnativi da gestire), per ristabilire l'ordine costituito.
     Questo chiaramente secondo le istituzioni. Avendo la situazione destato eccessivo clamore Diliberto prontamente è intervenuto e dopo aver promesso indagini e inchieste, ha sentito il dovere di soffermarsi sul lavoro dei secondini, sottolineando che, riportiamo esattamente le sue parole: "la polizia penitenziaria svolge un lavoro difficile e molto delicato, che deve essere realizzato in strutture adeguate e moderne, ma a S. Sebastiano sono costretti a lavorare in condizioni allucinanti".
     Ecco perché si sta pensando di vendere l'area appetibile e centrale a privati a patto che questi diano allo stato chiavi in mano, un nuovo carcere, cioè lo stato vuole costruire un nuovo carcere efficiente e moderno a costo zero. Questo, per loro è l'unico problema e l'unica soluzione. A volte, aggiungiamo noi, lavorare con difficoltà, causa stress, quindi è giusto che le guardie si sfoghino sulle vite umane da loro custodite, legalizzando a loro piacimento pestaggi, soprusi e torture, tanto sono detenuti che sono lì per espiare delle colpe, non persone ma solo dei carcerati.
     Quello che è successo il 3 aprile è stato un massacro, una spedizione punitiva in piena regola, con testimoni screditati ed inutili in quanto semplici prigionieri. Ecco la lampante funzione repressiva, e non rieducativa o di recupero del carcere, in tutta la sua massima espressione.
     L'art. 27 della costituzione italiana che recita: "Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato", è stato tranquillamente calpestato, ancora una volta, in nome della democrazia e dell'ordine pubblico. Bilancio (provvisorio e non ufficiale!), 70 detenuti pestati a sangue perquisiti da cima a fondo (intestino compreso), e trasferiti in altre strutture, per alcuni nessun colloquio nessuna visita.
     Forse perché si vuole impedire di vedere i segni del massacro, o si vuol tentare di occultare le prove e curare senza troppi clamori fratture, ecchimosi, perdita improvvisa di diversi denti in una settimana circa. Troppi segni gli aguzzini hanno sbadatamente lasciato sui corpi dei ribelli. Prima sono entrati nelle celle, devastandole, rompendo armadietti, brande e gettando dalle finestre indumenti, cibo, riserve d'acqua e quant'altro, poi li hanno assaliti.
     Si sa che uno è in coma, uno ha entrambi i polsi fratturati, molti non sono stati neppure ancora visitati, tutti, compresa la sezione femminile, hanno comunque preso calci e pugni alla schiena, alle gambe e ai testicoli. Solo alcuni parenti delle vittime hanno voluto parlare, con gli occhi insanguinati dalla rabbia per come hanno trovato i loro congiunti, "il viso quasi intatto, solo un po' sofferto. Il corpo dilaniato, dolori ovunque impossibilitati ad assumere posizioni "normali", (troppe fratture non previste forse?) e così via... più che un racconto un bollettino di guerra.
     La risposta non tarda ad arrivare: venerdì 14 aprile i familiari dei prigionieri riuniti in un comitato spontaneo hanno organizzato una fiaccolata di solidarietà, la partecipazione è stata di circa 150 persone tutti in silenzio hanno sfilato nelle vie intorno al carcere, senza simboli né bandiere. I detenuti hanno risposto accendendo le loro fiaccole (accendini) con le braccia che cercavano di raggiungere i manifestanti in un abbraccio soffocato ed impossibile. L'atmosfera si è scaldata nel momento in cui i cuori si sono incontrati al di là della sbarre, al di là delle celle e delle mura apparentemente invalicabili.
     Ma il resto della città non ha capito o non ha voluto capire. Una richiesta di solidarietà per un fatto così aberrante a cui non si è risposto pienamente forse perché sono detenuti e dopo tutto se sono dentro sono colpevoli e se lo meritano... La maggioranza silenziosa, quindi, continuerà a tacere acconsentendo a mattanze legali ed impunite, continuerà a fingere di non sentire le urla che troppe volte hanno squarciato quelle mura per uscire fuori, ma l'importante è che il carcere sia fuori dalla città, così che i prigionieri non possano turbare ulteriormente la "povera vita dei cittadini onesti" troppo occupati a pensare esclusivamente a se stessi.
     All'appuntamento non sono mancati purtroppo i soliti avvoltoi venuti a chiudere la loro campagna elettorale cavalcando gli eventi ed elargendo promesse; a loro va tutto il nostro disprezzo. Non sono mancati neppure simpatici casi di auto-combustione spontanea (cioè la spontanea messa al rogo di auto) di alcune guardie e generosi pacchi regalo dal contenuto esplosivo lasciati qua e là nelle carceri sarde.
     Esprimiamo la nostra solidarietà ai prigionieri e ai familiari
     Ribadiamo il nostro profondo disprezzo nei confronti di coloro che gestiscono, ad ogni livello le strutture carcerarie nonché il rifiuto di riconoscere lo stato italiano borghese, imperialista e nel caso della Sardegna straniero e colonialista.

Saluti rivoluzionari

Con tenerezza e forza

Sa Cunfederatzione de sos comunistas Sardos


Fonte: Sulla repressione nel carcere di S. Sebastiano, Sassari comunicato della Sa Cunfederatzione de sos comunistas Sardos diffuso il 19 aprile 2000 da ihb@sigmasrl.it

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Pestaggi in cella al carcere di Sassari

Quanto avvenuto all'interno del carcere San Sebastiano di Sassari rispecchia la drammatica situazione cui sono ridotti sempre più istituti penitenziari italiani.

Sovraffollamento
Il carcere di Sassari è una struttura vecchia e fatiscente che dovrebbe contenere non più di 100 detenuti e ne rinchiude oltre il doppio. Già negli anni passati si era parlato di una sua chiusura, con il progetto succulento di costruire un nuovo carcere fuori città, ma poi i finanziamenti sono sfumati e il lager ottocentesco che sorge al centro della città è rimasto lì, continuando ad ammassare sempre più detenuti.

Maltrattamenti
Da prima che scoppiassero le proteste di fine marzo e inizio aprile 2000, gli abitanti delle strade adiacenti al carcere di Sassari avevano già segnalato le urla provenienti dall'interno dell'istituto, già si parlava di morti sospette, ma nulla è stato fatto per porre rimedio. È servito che i detenuti prendessero la parola, con tutte le ripercussioni nei loro confronti cui sono dovuti andare incontro.

Arroganza delle guardie
Il clima emergenziale sulla criminalità montato dall'inizio del 1999 e la politica intrapresa con il governo D'Alema e il Guardasigilli Diliberto hanno avuto tragici effetti sul clima che si vive all'interno delle carceri. Oltre ad aggravare le già drammatiche condizioni di sovraffollamento si è assistito ad un costante aumento degli atteggiamenti prevaricatori della sorveglianza carceraria. Capeggiati dalle rappresentanze sindacali CGIL, che alla ricerca del consenso hanno inseguito le tendenze fasciste e forcaiole ampiamente diffuse nel corpo della polizia penitenziaria, gli agenti di custodia hanno sfruttato l'ondata giustizialista per portare avanti le loro rivendicazioni a tutto danno delle persone recluse. Non va dimenticato che la protesta dei detenuti sassaresi nasce proprio dalle drammatiche condizioni cui si era arrivati durante lo sciopero dei direttori delle carceri che aveva avuto come effetto la mancanza di cibo e acqua per i reclusi.

Censura
La difficoltà con cui le notizie dei pestaggi e delle morti sospette sono trapelate da dentro le mura del carcere di Sassari sono nulla a confronto dei tanti episodi che quotidianamente rimangono nel buio o hanno rilievo solo a carattere locale. Ciò che succede all'interno degli istituti penitenziari italiani rimane avvolto da una cortina impenetrabile.

Conflittualità
In questo clima, nonostante il tentativo di tenere tutto nascosto, sempre più frequenti sono gli episodi di protesta collettiva e individuale delle persone detenute e delle loro famiglie. Una rivolta è scoppiata nel carcere di Parma all'inizio di quest'anno. Già in quell'occasione l'atteggiamento delle forze di polizia e dei funzionari del ministero di giustizia fu di dare la minore risonanza possibile, nel timore che l'ondata di protesta potesse estendersi ad altre carceri. Anche in quel caso furono messe a tacere le motivazioni della protesta che denunciavano le pessime condizioni di vita all'interno del super-carcere di Parma. In quell'occasione si scelse la via della trattativa e dell'irruzione soft, oggi a Sassari, dopo i maltrattamenti delle guardie stanziali i detenuti hanno dovuto subire anche l'intervento delle squadracce dei Gom (Gruppi operativi mobili).

Servizi segreti penitenziari
Uno degli effetti devastanti della gestione Diliberto è stato proprio il rafforzamento degli apparati speciali della polizia penitenziaria. I Gruppi Operativi Mobili sono agenti speciali della polizia penitenziaria alle dirette dipendenze del ministero di via Arenula che effettuano irruzioni all'interno delle carceri. La loro storia è disseminata di pestaggi, devastazioni, omicidi di detenuti. Inchieste e interrogazioni parlamentari sull'operato dei GOM sono sempre apparse come prese in giro per la loro totale inefficacia. Nel 1999 l'allora ministro Diliberto affiancò i GOM con un'ulteriore struttura di intelligence, l'Ufficio Garanzie Penitenziarie (UGAP) e vi mise a capo il generale Enrico Ragosa, già capo dei GOM e proveniente dal SISMI. L'UGAP non solo svolge il suo lavoro sporco all'interno delle carceri italiane, ma sta attivamente prendendo parte alla ricostruzione affidata all'Italia del sistema giudiziario e penitenziario in Kossovo.

Solidarietà
Un elemento veramente nuovo di quanto avvenuto a Sassari è stata la mobilitazione esterna che ha solidarizzato con la protesta dei reclusi. Cortei sotto al carcere, riconsegna dei certificati elettorali, denuncia di quanto stava accadendo sono un segnale forte che va raccolto per chi vuole portare avanti la lotta contro il carcere e tutte le istituzioni totali e di controllo.

liberiamoci del carcere


Fonte: Pestaggi in cella al carcere di Sassari diffuso il 4 maggio 2000 da liberiamoci del carcere, out.out@libero.it

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Un contributo alla discussione dopo i fatti di Sassari

Il pestaggio dei detenuti nel carcere San Sebastiano di Sassari, insieme agli altri episodi che stanno emergendo dall'oscuro calderone degli istituti penitenziari della penisola, indicano una tendenza che il sistema punitivo italiano ha ormai intrapreso da diverso tempo.
     Il carcere italiano sente gli effetti della transizione dalla cosiddetta società disciplinare, che ha caratterizzato il sistema di produzione della fabbrica, alla società di controllo, che si abbina invece al mondo del lavoro flessibile e precario. Ciò che sembra caratterizzare questa fase di transizione è un potenziamento delle strutture segregative tradizionali (carceri e istituzioni totali) e un affiancamento di nuove strutture di controllo rivolte a intere categorie di soggetti (migranti, tossicodipendenti, tifosi, squatter, autonomi, ...) il cui allarme sociale è alimentato da continue campagne emergenziali.
     Il modello penitenziario statunitense, rispetto cui l'Italia mostra analogie e differenze, vede una crescita esponenziale del sistema di controllo caratterizzata dalla incarcerazione di un numero sempre crescente di persone (2 milioni di persone, con un tasso di 600 persone incarcerate ogni 100.000 abitanti), la costruzione di nuove prigioni, il fiorire di carceri e polizie private, la creazione della potente lobby della polizia penitenziaria, in grado di influenzare le dinamiche economiche e politiche dei diversi stati e contee americane.
     Il carcere USA non solo si è espanso e riempito, ma ha svolto una funzione di agenzia di controllo diffuso. Nei confronti di intere categorie di persone (proletariato nero e ispanico, microcriminalità femminile e minorile) si è assistito a un uso massificato del carcere senza un incremento dei reati, ma in base a considerazioni sull'allarme sociale suscitato.
     Dunque appare che nella società di controllo il carcere cresce e aggiunge la funzione di contenitore segregativo per intere fasce di popolazione. In questo modo aumenta ulteriormente la differenziazione tra le persone detenute.
Si va dal carcere di massima sicurezza, per i "nemici dello stato", a quello puramente contenitivo, passando per i diversi gradi del trattamento. Le nuove strutture di controllo che affiancano il carcere si aggiungono a esso e non lo sostituiscono. I ghetti metropolitani, la detenzione amministrativa, le terapie coatte in comunità, i sistemi diffusi di videosorveglianza hanno lo scopo di costruire attorno al carcere in espansione un cerchio ancora più grande e crescente di soggetti sottoposti a forte controllo sociale. Il modello statunitense insegna che a fronte di 2 milioni di persone incarcerate ve ne sono più del doppio in libertà vigilata e le metropoli USA si ristrutturano secondo un'urbanistica del controllo.
     Gli aspetti carcerari della trasformazione italiana sono stati affidati a Giancarlo Caselli, figura chiave della stagione emergenziale dagli anni 70 fino all'antimafia degli anni 90. Dopo il processo Andreotti, Caselli è stato messo in salvo dal governo amico a Roma, con il compito di mettere mano alla ristrutturazione del sistema penitenziario. La cacciata del precedente direttore del dipartimento dell'amministrazione penitenziaria, il gozziniano Alessandro Margara, e l'insediamento di Caselli hanno rappresentato, anche dal punto di vista dell'immagine, un chiaro segnale del cambiamento.
     Il carcere in Italia non può essere, neanche solo a livello propagandistico, luogo del reinserimento. Le misure alternative e la legge Gozzini devono rimanere a normare, con la loro impostazione premiale, una fascia di popolazione detenuta che si valuta recuperabile al sistema lavorativo o alle strutture terapeutiche. Il carcere deve però saper anche contenere intere categorie di persone nei cui confronti non viene avviato nessun intervento trattamentale, prediligendo la sua funzione segregativa.
     Nascono così nuove forme di carcerazione speciale, che si vanno ad affiancare a quelle già esistenti. Si fa largo uso della carcerazione preventiva (quindi senza accesso alle misure alternative), si limita la presunzione d'innocenza per alcune categorie di soggetti, per la detenzione straniera c'è un passaggio diretto dal carcere ai centri di permanenza temporanea che attuano l'espulsione dal territorio italiano.
     A conclusione della martellante campagna sulla Tolleranza Zero nell'autunno del 1999 il governo D'Alema presentava la versione riveduta del pacchetto sicurezza, contemporaneamente Giancarlo Caselli illustrava il suo piano di intervento per le carceri.
     Il primo provvedimento aumenta i poteri di indagine della polizia, introduce il braccialetto elettronico, colloca nella fascia detentiva medio-alta lo scippo e il furto in appartamento, inasprisce le norme contro la recidiva, elimina il terzo grado di giudizio. Controllo del territorio da un lato e diverso uso del carcere per la microcriminalità dall'altro.
     In attesa degli investimenti sull'apparato industriale-carcerario (edilizia pubblica e privata, appalti per le forniture) il progetto ministeriale presentato da Caselli prevede la differenziazione detentiva su tre livelli (sicurezza, ordinario, attenuato) funzionale a gestire il crescente afflusso di popolazione carcerata.
     La sicurezza nei confronti dei soggetti considerati irriducibili viene garantita all'interno delle super carceri, lasciate in eredità, dalla stagione dell'emergenza politica degli anni 70 e 80. Ai corpi dei detenuti politici si aggiungono quelli dei successivi nemici dello stato, come già fu con l'istituzione delle carceri speciali nel 1977.
     La premialità di impronta gozziniana continua a operare nel livello ordinario, che deve funzionare da vero e proprio purgatorio, con un accesso alle misure alternative riservato a pochissimi soggetti. L'efficacia con cui la Gozzini ha messo a tacere la conflittualità all'interno delle carceri italiane va mantenuta, soprattutto in vista del peggioramento delle condizioni di sovraffollamento. L'inasprimento delle pene a seguito delle campagne emergenziali ha la funzione di rendere più lungo e tortuoso il percorso per taluni reati, se non addirittura di far passare dal livello ordinario a quello di sicurezza.
     Il livello attenuato infine ha il compito di reinserire i soggetti nel circuito produttivo, o in altri istituti di controllo (comunità terapeutiche, ospedali, servizi sociali, privato sociale) e sostituisce le vecchie strutture dello stato sociale con il Terzo Settore.
     Oltre ai programmi governativi su sicurezza-carcere-controllo, la voce da padrone in questa fase di ristrutturazione carceraria, la stanno facendo direttori e guardie penitenziarie. Entrambe le categorie vanno ad assumere nuove responsabilità all'interno di questo sistema e rivendicano la loro parte di potere.
     Già negli anni passati è accaduto che fossero proprio funzionari penitenziari (medici, direttori, guardie) a far esasperare la situazione tra i detenuti dentro il carcere per portare avanti con più autorevolezza le proprie rivendicazioni. Non stupisce quindi che i pestaggi nel carcere di San Sebastiano siano seguiti alla protesta dei detenuti per le condizioni in cui erano costretti dallo sciopero dei direttori, né sorprende che gli agenti penitenziari abbiano colto l'occasione per far sentire più forte la loro voce o che il governo abbia deciso lo stanziamento di 160 miliardi per costruire nuove carceri.
     Direttori e guardie penitenziarie si configurano come le figure forti, che insieme a un massiccio ed efficiente apparato giudiziario possono gestire il nuovo sistema penale e carcerario. I primi vogliono riconosciuto un più alto livello dirigenziale, i secondi continuano a strappare aumenti di organico, retribuzione e amnistie per i maltrattamenti ai detenuti dal governo che li riconosce come interlocutori privilegiati del modo carcerario.
    Ad un'analoga dinamica si è assistito anche in occasione della ristrutturazione del sistema sanitario carcerario, entrata in vigore all'inizio di quest'anno con il passaggio di competenze dal ministero di grazia e giustizia a quello della sanità. Lì fu la lobby dei medici penitenziari a sfruttare le drammatiche condizioni delle persone malate detenute per fare in modo che fossero quanto più mantenuti i privilegi acquisiti durante la gestione separata della sanità carceraria.
     La novità di quanto è seguito ai pestaggi di San Sebastiano è stata piuttosto la solidarietà verso i detenuti che si è espressa fuori dal carcere. È un segnale importante che proviene da settori sociali con cui il movimento non ha alcun collegamento, neanche comunicativo. È invece fondamentale raccogliere questo messaggio, perché il carcere attuale si combatte soprattutto da fuori.
     La conflittualità interna deve fare i conti con le pressioni enormi esercitate dal regime premiale, che individualizza i percorsi e punisce con gli alti tetti edittali la non-collaborazione. Le lotte dei detenuti sono per forza di cose rivendicative e nonostante questo vengono spesso represse duramente.
     Fuori dal carcere deve nascere un movimento di critica e di lotta con quei soggetti sociali che subiscono il sistema di controllo. La nostra incapacità a dialogare con questi settori sociali, la nostra povertà e arretratezza di analisi sono il punto di partenza diverso, speriamo, il punto di arrivo.
liberiamoci del carcere


Fonte: Un contributo alla discussione dopo i fatti di Sassari, diffuso l'8 maggio 2000 da: liberiamoci del carcere, out.out@libero.it

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Diritti umani o soltanto diritti sindacali?

Il 27 e il 28 marzo i direttori dei 250 carceri italiani scioperano perché vorrebbero degli scatti di carriera e di stipendio. Siccome sono italiani è loro consuetudine rivolgere gli scioperi contro i "cittadini" e non contro i "padroni". Quindi il 27 e il 28 marzo non hanno firmato le consuete carte che servono a garantire ai detenuti il rispetto dei loro diritti fondamentali, ossia ricevere la posta, poter incontrare i familiari, oppure telefonare ai figli, visto che i regolamenti penitenziari sono disegnati in modo tale che se un bambino vuole andare a trovare il genitore detenuto deve per forza perdere un giorno di scuola. Il 27 e il 28 i direttori hanno bloccato gli iter burocratici, e il 28 e il 29 i detenuti di tutta Italia si sono ritrovati bruscamente separati dalle famiglie. La cosa succede spesso, queste modalità di sciopero sono tristemente note ai detenuti, e i più avveduti sanno che i direttori contano proprio su qualche casino creato dai detenuti per poter dire che il loro è un lavoro difficile, un lavoro da "domatori di leoni". I detenuti avveduti di solito stanno buoni, sopportano, e sperano che gli aumenti di stipendio glieli diano lo stesso ai direttori, così loro possono incontrare i familiari senza troppe storie.
     A Sassari il 28 e il 29 marzo i detenuti hanno rumoreggiato, forse perché il carcere è al centro della città e dalle finestre vedevano i parenti in fila fuori dai cancelli, e si accorgevano che non li facevano entrare. Oggi che abbiamo accesso alla relazione ufficiale dell'ispezione disposta dal Ministero di Giustizia, leggiamo che "il comportamento dei detenuti è arrivato quasi ad integrare il reato di oltraggio", il che tradotto vuol dire che i detenuti hanno protestato a voce contro qualcosa, ed hanno "quasi" commesso il reato di "oltraggio", che tra l'altro è uno dei reati recentemente depenalizzati. Insomma, i detenuti avevano "quasi detto delle parolacce" oppure "detto delle quasi parolacce".
     Evidentemente questo non era sufficiente per perorare la causa dell'aumento di stipendio, e allora si è deciso di inviare una relazione allarmante al Ministero, sostenendo che una ventina di questi detenuti "pericolosi" andavano trasferiti al fine di garantire, così recita la formula standard, "l'ordine e la sicurezza dell'istituto". Il resto dei fatti è noto: il Ministero (nella figura del Provveditorato Regionale) autorizzava i trasferimenti, i quali venivano messi in atto il pomeriggio del 3 aprile. Siccome in servizio nel carcere di Sassari c'erano solo 200 agenti, il Ministero, sempre nella figura del Provveditorato, disponeva l'invio di 80 agenti di rinforzo per questa operazione che evidentemente qualcuno prefigurava come difficilissima. Il resto della storia è nota, e per noi la notizia al momento finisce qui, nel senso che la magistratura con calma ci dirà se e quale violazione dei diritti umani dovremo rubricare nei nostri archivi.
     Siccome però tutta la vicenda ha preso il via da una protesta sindacale dei direttori, vorremmo notare un piccolo paradosso. Ci si è scandalizzati perché i trasferimenti dei detenuti sono avvenuti "con uso eccessivo della forza"... già, ma forse che senza l'uso della "forza" i trasferimenti sarebbero stati giusti? Il "cittadino detenuto" protesta a voce contro i soliti disservizi dei soliti scioperi all'italiana, e cosa gli succede? Lasciamo perdere le mazzate, ma viene licenziato in tronco e trasferito. Con buona pace dei diritti sindacali minimi. Sì, perché il detenuto spesso è anche un "lavorante", assunto dopo una lunga trafila dall'Amministrazione Penitenziaria, che in cambio di 600.000 lire al mese gli affida lavori di pulizia, di cucina, di giardinaggio, di edilizia. Il cittadino detenuto assunto dall'Amministrazione Penitenziaria viene licenziato in una frazione di secondo se "quasi dice delle parolacce" oppure se "dice delle quasi parolacce". Licenziato e trasferito. Il trasferimento per un detenuto significa poco se è ricco, in fin dei conti le celle italiane si assomigliano tutte, ed essere spostati da una parte o dall'altra non fa differenza.
     La differenza c'è, ed è grande, per i detenuti non miliardari. Il trasferimento significa l'allontanamento dalla famiglia, che a quel punto dovrà percorrere qualche centinaio di chilometri all'andata e altrettanti al ritorno per poter fare l'ora di colloquio settimanale, e il viaggio costa, e se si lavora bisogna prendere ogni volta un giorno di ferie. Il trasferimento allontana dagli avvocati, che per andare a trovare il detenuto chiederanno ogni volta, chissà, mezzo milione. Il trasferimento significa soprattutto venir licenziati ovviamente in tronco dal vecchio carcere, e dover rifare la pratica nel nuovo carcere, pratica che in media porta via 6 mesi (in carceri grandi come Rebibbia ci vuole più di un anno prima di essere "assunti"). Il detenuto che lavora guadagna poco, ma per molte famiglie è tutto quello su cui si può fare affidamento, fatto salvo qualche sussidio comunale o roba (piccola) del genere.
     Avete notato che poi la storia si è conclusa con un altro sciopero, questa volta degli agenti? Gli agenti hanno dichiarato "sciopero bianco" in tutta Italia (come forze dell'ordine non possono fare altri tipi di sciopero), annunciando con gran clamore che avrebbero applicato alla lettera (alla loro lettera) il regolamento. Avete letto cosa intendevano per "applicare alla lettera il regolamento"? "Nei controlli notturni nelle celle forse alcuni colleghi dopo averle accese non spegneranno le luci, perché non c'è scritto da nessuna parte che debbano farlo, e forse i detenuti non riusciranno a dormire. Ci vorrà tempo per perquisire i parenti dei detenuti che vogliono andare ai colloqui, quindi probabilmente i colloqui saranno quasi azzerati. Ci vorrà tempo per distribuire la posta, quindi probabilmente i detenuti non riceveranno posta. Ci vorrà tempo per digitare i numeri telefonici richiesti dai detenuti per parlare coi familiari, quindi probabilmente i detenuti non parleranno coi familiari"...questo preannunciavano orgogliosi i sindacalisti della Polizia Penitenziaria...con buona pace dei diritti sindacali minimi, ma veramente minimi, dei detenuti.
     Il governo, sensibile a tali impeccabili rivendicazioni sindacali, gli ha dato subito ragione, ha promesso i soliti aumenti, i soliti avanzamenti di carriera, i nuovi stanziamenti... e, il 9 maggio, ha chiesto la corsia preferenziale per un provvedimento di legge che condoni i circa 16.000 provvedimenti disciplinari pendenti nei confronti dei 43.000 agenti di Polizia Penitenziaria. Insomma, pestare i detenuti conviene. Speriamo che agli infermieri in prossimità del rinnovo del contratto non venga in mente di pestare i malati, o ai ferrovieri di pestare i passeggeri...

Francesca Mambro e Valerio Fioravanti

Fonte: pubblicato il 22 maggio 2000 su http://www.ideazione.com/interazione/

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Dossier:
Da Sassari a Poggioreale ... o viceversa?

a cura del Coordinamento Liberiamoci dal carcere di Napoli

Cronaca di un pestaggio annunciato
Date-fatti-informazioni: Gennaio-Giugno 2000

Presentazione

Il 3 aprile di quest’anno un gruppo di agenti reclutati nelle carceri sarde entra nell’istituto di Sassari per eseguire una perquisizione straordinaria e trasferire una ventina di detenuti.
     Il 3 maggio i magistrati di Sassari emettono 82 ordini di custodia cautelare contro 79 guardie, il Provveditore delle carceri della Sardegna, la direttrice e il comandante di Sassari. Scoppia il caso Sassari. Le polemiche scoppiate in seguito alle prime rivelazioni sui fatti di violenza investe l’amministrazione penitenziaria, e soprattutto il corpo di polizia che governa le carceri. I racconti dei calci in faccia con gli anfibi, delle secchiate di acqua gelida, delle umiliazioni dei denudamenti e delle perquisizioni anali fanno il giro delle redazioni di giornali e televisioni. Si scopre la vergogna del carcere italiano, per tanti anni rimasto silente e nascosto.
     Il 7 maggio la violenta reazione dei sindacati della polizia penitenziaria prende corpo nella prima manifestazione nazionale di protesta contro gli arresti operati dalla magistratura sarda. La piazza scelta è quella di Napoli; lo scenario le mura del carcere di Poggioreale. Perché proprio Napoli? Perché per protestare contro 82 arresti avvenuti a Sassari si decide di indire una manifestazione di protesta fuori al carcere di Poggioreale? Perché il provveditore delle carceri della Sardegna, campano, per effettuare l’operazione di Sassari fa trasferire da Benevento il suo ex capo delle guardie? E chi ha autorizzato il trasferimento dell’uomo duro che ha gestito lo sfollamento?
     Il 19 maggio, dopo che il Governo ha risposto ai fatti di Sassari con un l’aumento degli organici della polizia penitenziaria e l’apertura di nuove prigioni, i centri sociali napoletani organizzano una manifestazione di solidarietà ai detenuti fuori al carcere di Poggioreale. Il ‘popolo dei dannati della terra’ risponde con una battitura delle stoviglie sulle sbarre che dura fino a tarda notte: è la prima iniziativa di protesta che parte da un carcere italiano. I detenuti chiedono che sia messo fine al clima di violenza e di intimidazione che impera nel penitenziario, mostrano cosa significa vivere 17 persone in una cella, chiedono assistenza medica, condizioni di vita dignitose. La storia della lotta dei detenuti per l’indulto e l’amnistia comincia da qui, dalla denuncia degli orrori del modello della massima deterrenza che è Poggioreale.
     Cosa rappresenta nel sistema penitenziario italiano di oggi il ‘modello Poggioreale’? Qual è la classe dirigente che ha costruito questo modello, quale il ruolo che essa occupa nelle architetture del potere penitenziario e il mandato politico a cui obbedisce? Cosa accadrà nelle nostre prigioni quando l’operazione indulto/amnistia sarà conclusa?
     Dopo un decennio di emergenze criminali, di campagne di allarme e ideologie della sicurezza, di tolleranze zero e criminalizzazione della miseria, oggi scopriamo l’indecenza di un sistema carcerario rimasto troppo a lungo nascosto e silente. Napoli, e il suo carcere, hanno costituito probabilmente un importante laboratorio di sperimentazione delle forme del sorvegliare e punire negli scenari della crisi sociale contemporanea.
     Alcune delle trasformazioni che hanno investito il carcere italiano in questo tempo sono senza dubbio passate da questa città. Lavorando alla cronologia che vi proponiamo siamo partiti dai fatti di Sassari, per approdare, inevitabilmente, a Poggioreale. Proprio quando credevamo di aver individuato un percorso, ci siamo resi conto che si trattava di un tragitto a doppia corsia di scorrimento: da Sassari a Poggioreale, e viceversa.

Napoli, 30 giugno 2000

Fonte: pubblicato su http://www.noglobal.org/

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Dossier:
Pestaggio a S. Sebastiano

Dolore

Mi sono spogliato
Attesa, paura, dolore.

L'attesa si è fatta cristallo

E a questo soffitto

Ho inchiodato la paura.

***

Presentazione lettera 1 lettera 2 lettera 3 lettera 4 Considerazioni finali Atti giudiziari

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Alcuni detenuti di San Sebastiano ci hanno scritto per raccontare cosa è realmente successo il tre aprile del 2000 all'interno del carcere. Con questo dossier vogliamo dare ampio spazio alla loro voce dato che sono gli unici testimoni vittime di questa sporca vicenda.
     Come al solito i mezzi di comunicazione di massa hanno dato più peso alle problematiche della direzione carceraria manipolando i fatti tra l'altro con grave ritardo di quattro giorni.
     Tutto questo ci porta a pensare che niente sia casuale; questo ritardo dimostra come si volesse nascondere immediatamente la verità.
     Cosa impossibile da attuare visto il clamore suscitato da detenuti, familiari e amici.
     In base alle testimonianze siamo arrivati alla conclusione che la spedizione punitiva sia stata studiata in precedenza contro coloro che erano segnati nelle liste punitive di cui i secondini stessi parlano.
     Il pestaggio di San Sebastiano non è certamente un fatto isolato; soprusi e abusi sono purtroppo una piaga del sistema carcerario mondiale e da sempre quello che succede dietro le mura è tabù.
     Questo avviene sia per interesse del potere capitalista che non vuole mostrare il vero volto della repressione che esercita sul sociale, sia perché l'influenza di questo stesso potere su coloro che detiene nelle sue prigioni determina reazioni contrastanti quali la paura e l'insicurezza oppure l'aperta ribellione.
     Questo non accade solo dentro le galere ma anche nella società, dove impera il codice disciplinare della discriminazione verso chi non è compatibile con il modello di sviluppo capitalistico.

SOLIDARIETÀ AI DETENUTI E ALLE FAMIGLIE
RESISTENZA ALLO STATO TERRORISTA!
FUOCO ALLE GALERE!

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Lettera

Io sono recluso nel carcere di Sassari da quasi tre anni. In tutto questo tempo di detenzione trascorso qui dentro sono stato presente e ho vissuto come tanti altri, tante ingiustizie e soprusi. Ma quello che ho visto accadere il 3 aprile a Sassari non potrò mai scordarlo: a detta di molti amici che di galera ne hanno fatto, e hanno molta più esperienza di me, nelle loro memorie non affiora niente che possa assomigliare a un raid punitivo simile al 3 aprile.
     Non mi prolungherò molto nel raccontare questa brutta storia, perché certe situazioni come questa vogliono vissute per capirla, perché nel raccontarle non si potrà mai arrivare a leggere il terrore e l'impotenza che io vedevo negli occhi e nelle facce dei miei compagni.
     Il raid punitivo il giorno si svolse in tre parti: 1° fase provocazione, 2° fase umiliazione psicologica, 3° e ultima fase, per chiudere in bellezza, pestaggio assoluto. Molti di quelli che sono rimasti qua sono convinti che tutto il pestaggio non era previsto; io la penso diversamente, la cosa non gli è sfuggita di mano, ma era stata studiata a tavolino. Perché diversamente, il giorno, sospendere i colloqui? I secondini sapevano che questo carcere è un terreno facile per compiere i raid e colpire senza pagare!
     D'altronde su 200 detenuti il 95% sono tossicodipendenti: chi darebbe ascolto a loro? Questo avranno pensato, ma le cose sono andate diversamente, come tutti sappiamo. Questo grazie alla volontà dei familiari che unendosi in fiaccolate e proteste hanno fatto in modo che la verità affiorasse aldilà delle quattro mura carcerarie e tutti hanno potuto sapere.
     Nella 1° fase, cioè quella della provocazione, ricordo che i nostri carcerieri passavano nelle celle e ci invitavano a protestare, bussare con gavette per farci sentire, dicendoci chiaramente che i detenuti di Sassari erano dei coglioni, dei deboli, perché eravamo gli unici a non ottenere mai ciò che ci sarebbe spettato di diritto da parte dell'amministrazione penitenziaria, tutto questo perché giorni prima abbiamo cercato di far sospendere lo sciopero indetto dalla Di Marzio, direttrice del carcere, privandoci quindi dei generi di prima necessità come l'acquisto di acqua, di cibo e di tante altre cose. E il mangiare non è che potevamo prenderlo dall'amministrazione visto che non sazierebbe neanche un cardellino, come si sa il mangiare che ci spetta viene rubato puntualmente dalle guardie dalla cucina e gli avanzi li passano a noi e tutt'oggi è così.
     La provocazione fatta con l'inganno da parte dei nostri carcerieri era dovuta al fatto che fuori erano già pronti i nostri aguzzini che di li a pochi minuti sarebbero entrati per mettere in atto il raid punitivo nei nostri confronti: ecco perché dicevano "fate casino, fatevi sentire!".
     2° fase, quella che riguarda l'umiliazione psicologica. Come ho detto all'inizio non starò a raccontarvi dei particolari del tre aprile, i nomi dei ragazzi picchiati e tutte le situazioni vissute, ma le parti cruciali una di queste appunto è l'umiliazione che i nostri aguzzini ci infliggevano, e per loro era facile visto il numero di guardie, erano tanti, molti confronto a noi, ci facevano uscire dalle aree in fila indiana e con la testa bassa in modo da non poterli vedere in faccia. Ci urlavano ugualmente e ci davano colpi sulla schiena eppure né io né gli altri eravamo sulla lista di quelli che dovevano essere pestati, quelli della lista erano considerati più facinorosi e dovevano essere puniti col dolore fisico, a loro idea. Ci chiudevano ammassati in delle sezioni e nell'aspettare il nostro turno sentivamo le urla strazianti degli amici usciti prima di noi, ma nel frattempo ci avevano fatto spogliare di tutti i vestiti, nudi come vermi, e non ci permettevano neanche di prendere il nostro vestiario che era sotto gli indumenti di quelli che venivano fatti spogliare dopo di noi, questo mentre gli aguzzini ci passavano sopra come nella moquette di casa loro; non potevi reagire, non potevi fare nulla, dovevi stare nudo a subire i colpi, pedate, cazzotti, i voli dalle scale senza dire niente con tutto che da nudi i colpi si sentono di più.
     3° fase, quella del pestaggio: infatti, come ho già detto, noi non eravamo nella lista nera e ci siamo salvati rispetto ad altri amici. Quelli sfortunati, che per idea di non si sa bene chi erano considerati i più facinorosi, dovevano essere torturati oltre che picchiati; ricordo che uno di questi doveva tenere una mela con la nuca pressata sul muro, mentre qualcuno gli strappava i peli del pube, se la faceva cadere lo massacravano di colpi ma naturalmente la mela cadeva puntuale e allora giù con i colpi. Un altro veniva buttato dalle scale da piano a piano e ad ogni piano, ad aspettarlo, c'erano le guardie per dargli la sua razione di colpi. Dimenticavo di dire che questi della lista erano tutti ammanettati, buttati a terra sul pavimento oltre al sangue mischiato con feci c'erano tanti capelli strappati dalla radice, a raccoglierli tutti ci si poteva aprire un negozio di parrucche.
     Una volta ridotti a stracci umani i detenuti picchiati venivano fatti passare nella rotonda della prigione in modo che il comandante Tomassi e la direttrice Di Marzio potessero ammirare dalla loro postazione quanto il raid stesse riuscendo alla perfezione.
     Il pestaggio fu lungo e interminabile e durò un paio d'ore, ma come dimenticare le urla, il rumore di costole rotte sotto i colpi e le suppliche di perdono? Una cosa tengo a precisare: le rappresaglie e qualche altro pestaggio durarono diversi giorni fino a quando cioè molti di quei secondini furono denunciati. Però molti altri di quei secondini ci sono ancora e li vediamo ogni giorno, eppure i loro nomi sono stati fatti al magistrato ma lavorano a San Sebastiano come se nulla fosse. Io spero solo dopo il processo di non trovarmeli più qua, perché sono sicuro che le conseguenze per noi sarebbero molto peggiori.

Un detenuto di San Sebastiano


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Lettera
Sono un detenuto del carcere di Sassari, scrivo queste poche righe per raccontare i fatti accaduti il 3 aprile del 2000 a S. Sebastiano. Tra qualche mese ci sarà il processo alle guardie del pestaggio, io spero che vengano condannate per lo schifo e l'umiliazione che hanno fatto passare a tutti noi. Vorrei che tutto questo non si dimentichi, perché se il 3 aprile qui dentro ci fosse stata una telecamera forse qualcuno si sarebbe messo le mani in testa per ciò che hanno fato. Tutto è cominciato all'ora d'aria, era circa l'una e mezza io ed altri miei compagni stavamo nel cortile del centro e tutto sembrava in apparenza tranquillo fino a quando sono arrivate alcune guardie che cercavano un detenuto ma non trovandolo sono nuovamente uscite.
     Più tardi (abbiamo visto tutto chiaramente attraverso la garitta) le guardie trovavano e prendevano il detenuto che precedentemente cercavano, e senza nessun motivo questi personaggi indegni lo portavano via a calci e pugni. Loro erano più di 10 ma in quel momento non si pensava a contarli; la cosa più spaventosa è stata quando davanti al nostro cortile passava il detenuto con tutti questi personaggi che lo portavano via trascinandolo a terra a forza di botte. Dopo che qualcuno dei miei compagni ha chiesto "perché tutto questo? "si sono avvicinate un paio di guardie che ci hanno urlato che problemi avevamo e che quello che stava succedendo non ci riguardava. Dopo una decina di minuti sono tornate nel cortile dove avevano preso il detenuto di prima e hanno preso un altro compagno riservando anche per lui senza nessun motivo lo stesso trattamento. Allora quando abbiamo visto per la seconda volta questo schifo qualcuno dei nostri compagni ha chiesto nuovamente che cosa stesse succedendo e perché stavano facendo questo, ma non ci e stata data nessuna spiegazione. Sono tornati per la terza volta ma però questa volta nel nostro cortile, e anche in questa situazione ci siamo resi veramente conto della cattiveria che ci stavano facendo. Io credo che non ci sia niente di male nel chiedere spiegazione del perché alcuni compagni vengano presi e pestati a sangue (non sto esagerando) ma infatti chi ha chiesto queste spiegazioni è stato preso e portato fuori dal cortile a calci e pugni e noi non potevamo fare nulla. Non si può spiegare cosa sentivo dentro, ascoltando le urla di dolore dei miei compagni. È; chiaro che queste persone senza nessun ritegno erano tutte ubriache si vedeva senza ombra di dubbio, per non parlare poi di chi era a capo di questi maiali, il comandante Ettore Tomassi, lui godeva mentre vedeva e collaborava a tutto questo. Ricordo bene poi che mentre ci facevano rientrare nelle celle c'era un lungo cordone di guardie che ci urlavano di camminare a faccia bassa, e lui il signor Tomassi diceva : "vi faccio diventare agnellini in 15 giorni". Tutto questo è durato per più di due ore, la cosa più orribile è stata quando ci hanno rinchiuso dentro un braccio e le urla dei nostri compagni che sentivamo erano da paura. Ho intravisto dall'angolo del cancello un detenuto che le guardie buttavano per le scale a calci e pugni. Dopo di che ci hanno chiamati uno per volta a rientrare nelle celle, nel mentre ci facevano spogliare nudi, fare flessioni e al solito ci dicevano di non alzare la faccia di fare in fretta, insomma ci stuzzicavano ancora di più per reagire, ma non ostante questo stavamo zitti. Quasi tutti siamo stati accompagnati a calci e schiaffi nelle celle, che le guardie stesse avevano ridotto un porcile e volevano che tutto fosse messo in ordine in mezz'ora (non sono bastati 3 giorni a renderle un pochino decenti). Ci tengo a precisare che io non sono stato toccato, ma solo per un semplice motivo: la sera stessa verso le 17:30 mi hanno chiamato a lavorare a me e altri detenuti e per descrivere lo schifo che c'era in tutto il carcere non basterebbe una biblioteca, tra sangue e tante altre cose che mi fanno schifo solo a pensarci. Non so a quanto possa servire questo mio scritto ma spero anche se ci credo poco che vengano condannati per ciò che hanno fatto, ma come già scritto non ci credo, tra l'altro tanti di questi continuano a lavorare in altri carceri e qualcuno è ancora qua. Quindi è evidente che continuerà così.

Un detenuto del carcere di Sassari


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Lettera
Sassari 01 - 10 - 2001
Sono detenuto nel carcere di San Sebastiano dal 25 - 07 - 1998 e su richiesta di un amica faccio un resoconto dei fatti accaduti presso questo carcere in data 3 aprile 2000, giorno in cui si verificò il pestaggio di un centinaio di detenuti inermi da parte di oltre 100!! Guardie di Polizia Penitenziaria che, con una freddezza paragonabile alle squadriglie cilene oppure italiane negli anni di piombo, hanno messo in atto questo brutale e ingiustificato pestaggio.
     Tutto ha inizio due giorni prima; a causa dello sciopero dei direttori delle carceri ci siamo trovati a dover stare per tre giorni senza poter usufruire della spesa (sopravitto) che senza la firma di questi ultimi non può essere autorizzata. Per spesa non si intende solo prodotti alimentari o per l'igiene ma beni di prima necessità tra cui il più importante l'acqua.
     Tra l'altro non si potevano avere ne il vino e le sigarette e se consideriamo che il 10% dei detenuti di questo carcere sono dentro per problemi di droga e di " disadattamento sociale" si può capire come la tensione sia arrivata subito alle stelle.
     Non è stato fatto comunque nessun tipo di sciopero violento ma solamente una manifestazione pacifica con " battitura" delle sbarre con le gavette, in poche parole tanto casino e niente violenza o danneggiamenti, come possono testimoniare i numerosi cittadini di Sassari e le tivù accorse davanti al carcere attirate dall'assordante rumore delle gavette battute sulle sbarre.
     Forse tutto ciò non è piaciuto alla nostra direttrice Dott.ssa Cristina Di Marzio che ha pensato bene di fare una rappresaglia degna della migliore delle vendette mafiose.
     La mattina del 3 aprile era uguale alle altre e niente lasciava presagire che dopo alcune ore sarebbe successo un casino di quelle dimensioni.
     Addirittura molte guardie passavano per le celle ad incitarci a continuare a "bussare" con le gavette, dicendo che erano anche loro dalla nostra parte, invece i bastardi stavano preparando l'ambiente per le 100 guardie che già da ore affollavano lo spaccio del carcere, ubriachi ed esaltati.
     Alle 13:00 siamo scesi all'aria e tutto sembrava tranquillo, poi all'improvviso si è affacciato alla finestra della cella un nostro compagno, gridando a un altro detenuto che era all'aria con noi, che le guardie lo cercavano e che avevano preso il fratello e lo stavano picchiando.
     Noi sentivamo le voci e le grida del fratello di questo detenuto, però pensavamo fosse soltanto un caso isolato. Dopo una decina di minuti hanno aperto il cancello dell'aria e sono entrate una ventina di guardie, quasi tutte mai viste ma con modi bruschi, al loro comando D c'era l'Ispettore Canu, in servizio a Sassari, con un elenco in mano che noi ancora non sapevamo di cosa si trattasse.
     Ci hanno tutti squadrati e hanno preso un detenuto di Sassari sui 45 anni che era arrestato da pochissimo tempo e niente poteva aver fatto. Dopo averlo preso di forza lo hanno portato fuori dal cortile nel tunnel che porta fin quasi dentro il carcere. Ci siamo abbassati e abbiamo visto che il tunnel era pieno di guardie, 50 forse, ed hanno iniziato a colpirlo con calci e pugni fino a farlo svenire, e una volta rinvenuto è iniziato tutto da capo fino a farlo svenire nuovamente. Dopo dieci minuti sono entrati di nuovo nel cortile, hanno preso un altro detenuto e malgrado le sue suppliche al suo capo servizio, Brigadiere Casu, anche a lui è toccata la stessa sorte. Tra di noi qualcuno ha provato a lamentarsi per questo trattamento dicendo che non potevano trattarci come animali e per questa frase alcune guardie "straniere" volevano picchiarlo ma sono state fermate dall'ispettore Canu perché non era nella lista. Da quella frase abbiamo cominciato a capire che era in atto una vera e propria rappresaglia. Dal cortile destinato a noi, tramite un vetro, vediamo il passaggio di detenuti di altri bracci e piani. Anche qua la stessa musica, colpi gratuiti a tutti come è capitato ad un compagno che quando ha visto picchiare un altro detenuto ha gridato "lasciatelo bastardi", questi sono rientrati, l'hanno preso e gli hanno dato una "sussa" come ad una bestia, solo per quella frase, dato che non poteva aver fatto niente in precedenza, essendo arrestato da pochi giorni. Li abbiamo visto colui che si è professato il nostro dio, il famoso uomo con lo spolverino bianco che ci ha terrorizzati per tutto un mese, quel bastardo dell'ispettore Ettore Tomassi. Dopo un po' hanno iniziato a farci rientrare dentro l'istituto e niente di quanto accaduto ci avrebbe fatto immaginare quello che avremo visto, e per alcuni subito. Già dal tunnel ci rendemmo conto che stava accadendo qualcosa, dato che eravamo circondati da guardie il tipico"cordone", che per noi non è entrato in funzione; una volta entrati dentro amo visto guardie in ogni posto, se si considera che di solito ci sono 4-5 guardie, il giorno saranno state circa 150 comprese quelle in servizio a Sassari. I detenuti erano tutti rinchiusi dentro bracci non adibiti ad uso celle, in infermeria o in chiesa. Si sentiva un casino madornale tra le grida di dolore dei detenuti, le grida di esaltazione delle guardie e il rumore delle nostre celle che venivano sistematicamente distrutte. Noi fummo chiusi nel braccio "del metadone" e da li oltre a sentire si vedeva anche parte di quello che stava accadendo.
     Mentre guardavo, stando attento a non farmi beccare ho visto un detenuto di Alghero che dopo essere stato pestato da circa 10 secondini è stato lanciato "nel vero senso della parola" dalle scale per arrivare al primo piano dove gli e stato riservato lo stesso trattamento e da li lanciato nuovamente al piano terra dove c'erano altre guardie. Io già non vedevo più niente ma non penso che queste ultime l'abbiano trattato diversamente. Questo trattamento è toccato anche ad altri detenuti che non ho potuto riconoscere tante erano le guardie che infierivano su di loro. Dopo alcuni minuti sono stato costretto ad allontanarmi dal cancello e non ho potuto vedere altro di quello che accadeva. Dal braccio ci chiamavano cella per cella e anche in questa situazione non cambiava niente da prima e cioè colpi. Colpi se guardavi, colpi se alzavi la testa, colpi se eri lento e colpi se eri veloce, ma soprattutto colpi se eri nella "lista". Eravamo circa 30 detenuti dentro questo braccio e di questi almeno 15 sono stati pestati a sangue e tutti spogliati e lasciati nudi nei bracci dove non mancava qualche calcio in culo, schiaffi o spintoni. La nostra cella è stata l'ultima ad uscire dal braccio, e pensavamo che fosse per un trattamento particolare dato che è quella che più si affaccia sulla strada e abbiamo comunicato con la gente fuori facendo un casino niente male. Ci hanno fatto uscire uno ad uno e fatti spogliare, fare le flessioni e questa è stata la peggiore delle umiliazioni, fare flessioni nudi davanti a decine di guardie che ridevano e sfottevano e noi che non potevamo parlare e dovevamo stare faccia al muro.
     Ancora nudi ci hanno fatto andare verso le celle e nei bracci c'era tutta la roba delle celle buttata a terra e naturalmente distrutta. Mentre cercavamo di vedere se trovavamo qualcosa di nostro ci hanno strattonati e spinti, per poi riaccompagnarci in cella e trovare le sorprese. Non appena dentro ci accorgiamo che siamo tre anziché quattro, mancava un compagno che è rientrato circa dieci minuti dopo. Inutile dire che i dieci minuti fuori dalla cella li ha passati a prendere colpi, infatti non appena dentro abbiamo accertato che era tutto un livido, aveva pedate in tutte le parti del corpo, per non parlare dei pugni e dei calci. Tornando al discorso della cella abbiamo trovato tutte le cose buttate al centro, vestiti, pasta, riso, frutta, verdura, libri, immagini sacre e tutti gli oggetti personali.
     A giudicare da come tutto fosse distrutto e zozzo, abbiamo dedotto che dopo avere ammucchiato tutto al centro, ci sono saltati sopra fino a rompere tutto.
     Ci hanno rubato e distrutto tutto, dai fornelli alla dama, dal pentolone alle carte, documenti posta e fotografie, senza restituirci niente malgrado le promesse del comandante. A questo punto, mi pare fossero le 16:45, sono entrate in cella sei guardie tra cui un "bestione" che parlava con accento "continentale" che ci ha minacciato di pestarci se entro 15 minuti la cella non fosse stata ordinata e pulita. Ci sono voluti due giorni a sistemare il casino che hanno fatto, figurarsi farlo in 15 minuti. Naturalmente le umiliazioni e gli abusi non finirono quel giorno ma continuarono per tutto il mese di aprile e primi di maggio, cioè fino al giorno del loro arresto.
     Purtroppo non tutti i secondini presenti il giorno del pestaggio sono stati arrestati, infatti molti sono in servizio anche adesso ed alcuni hanno tentato di fare ritrattare i vari detenuti che li accusavano. Questo è tutto quanto riguarda la mia esperienza del 3 aprile, posso ritenermi fortunato di non essere stato vittima degli aguzzini e delle loro violenze.
     Questa è naturalmente una sintesi ma sono certo ci siano altre persone più adatte di me a raccontare quello che veramente è successo, cioè le vittime del pestaggio che si trovano in altri istituti. Le violenze e le umiliazioni continuano tuttora e spesso si vedono o si sentono detenuti che urlano. Tra breve ci sarà il processo contro le guardie accusate del reato commesso il 3 aprile, e tutti qua sperano che vengano condannati ma sicuramente verranno assolti, dato che ne lo stato ne chi lo rappresenta ha mai pagato e mai pagherà.

Un detenuto del carcere di San Sebastiano


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Lettera
Sono un detenuto del carcere di S. Sebastiano; il 18-3-2000 mi è stata revocata la detenzione domiciliare che avevo ottenuto con il subordine del programma nel sert di Alghero e mi hanno portato nella casa circondariale di Sassari (S. Sebastiano). Dopo alcuni giorni è iniziata una "protesta" dei detenuti per ottenere il funzionamento del sopravitto e l'applicazione regolare dei colloqui con i familiari, ma essendo in atto uno sciopero dei direttori, queste attività non venivano svolte in maniera corretta. Alla protesta non ho partecipato per il semplice motivo che mi trovavo in carcere solo da pochi giorni ma comunque la ritengo legittimissima! Che non sarebbero stati effettuati i colloqui con i familiari il 3 aprile del 2000, ne venni a conoscenza la stessa mattina al ritorno da un udienza in tribunale tramite una circolare affissa lo stesso giorno!? quel lunedì in tribunale c'era mio padre che doveva poi farmi colloquio il pomeriggio, e quando al ritorno in carcere ho letto la circolare, mi sono alterato (ma senza offendere nessuno) dicendo che non vedevo la necessità di sospendere i colloqui perché la direttrice era in sciopero. Dopo un po' mi sono calmato e rassegnato all'idea di non poter incontrare mio padre. Verso le 13:40 sono uscito all'aria come la maggior parte dei detenuti ma dopo circa 15 minuti mentre ero nel secondo passeggio, dal cancello ho visto un detenuto che veniva strattonato da delle guardie fino alla fine del tunnel che porta all'aria. Sentivo le urla di dolore ed i colpi, chiedeva spiegazioni! Che cosa aveva potuto fare per essere picchiato in quel modo! A quel punto mi sono aggrappato alle sbarre del cancello e ho iniziato a urlare di lasciarlo stare, di non picchiarlo più e che cosa stesse succedendo! Ma continuavo a sentire le urla di dolore mentre lo portavano via. Dopo un po' le guardie si avvicinarono al cancello (Loriga Mario, Mura Pietro, Casu Mario e un altro che conosco ma non so il nome) e Loriga mi chiamava: "Vieni, c'eri anche tu". Non immaginavo cosa volessero mi avvicinai al cancello ormai aperto ma questo stesso agente mi afferra per i capelli e gli occhiali da sole (che mi erano stati prescritti dall'oculista) e mi tira fuori dal passeggio richiudendolo subito dopo. Non capivo cosa stesse accadendo e chiesi spiegazioni all'agente di cui non ricordo il nome, e lui con un paio di manette in mano mi dice: "é cambiato l'orario delle traduzioni".
     La cosa mi suonava strana ma mi sono fatto ammanettare tranquillamente senza però essermi accorto prima che all'interno del tunnel (largo meno di due persone messe a fianco) erano sistemate una decina di guardie in anfibi e mimetica disposti in due file. Comunque dopo essere stato ammanettato gli stessi agenti che ho indicato hanno iniziato a schiaffeggiarmi e spintonarmi verso il tunnel mentre io opponevo resistenza; ma l'agente Mura Pietro mi ha preso per le manette e trascinato affinché le due file di guardie potessero farmi quello che in gergo carcerario si chiama "S. Antonio". Tentai di correre per prendere meno colpi ma quello che mi trascinava era troppo grosso e intanto qualche altro da dietro mi tirava e picchiava. Non saprei dire quante botte ho preso, ma erano tante! Dall'uscita del tunnel, risalendo qualche scalino che porta al corridoio del transito, non riuscivo più ad alzarmi in piedi dalle botte che ricevevo. Nel corridoio del transito era la stessa cosa! Mimetiche grigie da tutte le parti che picchiavano senza alcun controllo. Non riuscivo più a camminare ma Mura continuava a tirarmi per le manette che mi laceravano i polsi fino ad arrivare alla rotonda dove vidi perfettamente la direttrice M. Cristina Di Marzio in compagnia di una figura anziana con un soprabito, i capelli brizzolati e occhiali scuri. Solo dopo capii che si trattava del Provveditore Regionale Giuseppe Della Vecchia. Io urlavo di dolore per i colpi che continuavo a ricevere, volevo chiedere aiuto alla direttrice perché intervenisse! Ma visto il suo atteggiamento impassibile nel vedermi picchiato come un animale ... continuai a cercare di ripararmi come meglio potevo. Superata la porta della rotonda che va al corridoio della matricola (anche esso pieno di mimetiche grigie) sentivo le botte che colpivano me ma anche qualcun altro. Venni trascinato fino all'ultima stanza dei colloqui, i tavoli erano accatastati in un angolo e due detenuti erano a terra nudi ammanettati all'indietro mentre diverse guardie li picchiavano con ferocia. Mi buttarono a terra, ancora calci e pugni e mi ordinarono di spogliarmi. Le guardie che mi avevano accompagnato fin la mi lasciarono nelle mani delle mimetiche grigie e ancora calci e pugni! Si resero conto che ero ammanettato e quindi non potevo spogliarmi ma qualcuno mi fece alzare per togliermi le manette mentre altri continuavano ad urlare di tenere la testa bassa. Appena spogliato completamente mi riammanettarono dietro la schiena e mi spinsero con la faccia contro il muro. Dopo di me nella stanza entrarono altri 3 detenuti ai quali venne riservato lo stesso trattamento. Con la faccia verso il muro, con la testa che mi scoppiava dal dolore e sempre in apprensione per i colpi che arrivavano sentivo le urla di dolore che provenivano dalle altre sale colloqui. Fu in quel momento che vidi l'ispettore Tomassi con uno spolverino bianco e con il distintivo appeso alla tasca. Si avvicinava ad ognuno di noi e a tutti chiedeva se eravamo dei boss, che lui era il nostro dio e che se ci sentivamo leoni ci avrebbe fatto diventare agnelli. Mentre urlava queste frasi sconnesse distribuiva schiaffi e pugni a tutti. Poi ci trasferirono chi a Oristano e chi a Macomer dove riconobbi uno dei pestatori con il brigadiere Mattu (conosciuto anni prima al carcere di Sassari) che pur vedendo le mie condizioni continuarono a pestarmi ancora. I primi due giorni non ci permisero di uscire all'aria e con minacce ci costrinsero a fare la richiesta per tagliarci i capelli. Anche il comandante Cuccu, sfruttando il nostro stato psicologico, ci fece firmare un foglio bianco dove a suo dire avrebbe poi scritto falsi motivi delle cause delle nostre lesioni. Dal giorno in cui il sostituto procuratore Caria ha emanato gli ordini di custodia cautelare per i responsabili del pestaggio, sono visto dalle guardie come un pentito e trattato dagli altri detenuti discriminatamente. Mi trovo ancora nel carcere di Macomer lontano dai miei cari che sono impossibilitati a venire a trovarmi per mancanza di mezzi. Per ora voglio chiudere qui questo racconto altrimenti il blocco che sto utilizzando non basterebbe a scrivere tutto quello che ho dovuto subire in questi anni. Voglio dire solo un ultima cosa: ho commesso un reato! Sto scontando la mia pena! il carcere dovrebbe darmi la possibilità di capire che una volta fuori da queste mura dovrei vivere lavorando per poter avere un futuro! Ma se il carcere è vendetta e non giustizia! Se il carcere è repressione e non reinserimento! Se i primi a commettere reati sono coloro che si nascondono dietro le false istituzioni create da uno stato corrotto e imperialista! Che cosa diventerò quando finirò di scontare la mia pena... ?!

Un detenuto di S. Sebastiano


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Questi i fatti: in occasione di una protesta interna al carcere, esplosa spontaneamente a causa delle insostenibili condizioni di vita all'interno dello stesso, aggravate dal fatto che, essendo in atto la sostituzione o uno sciopero della direttrice, sarebbero stati sospesi per alcuni giorni "servizi aggiuntivi" come il "supplemento spesa" allo spaccio (ossia la possibilità di poter comprare allo spaccio del carcere alimenti oltre quelli passati dalla mensa), e il ricovero ospedaliero (giudicate se questi servizi siano aggiuntivi o innegabili), in più sono stati chiusi i rubinetti dell'acqua, altra cosa forse superflua... Non è da tralasciare la situazione di un presunto sovraffollamento di detenuti per cui si volevano effettuare dei trasferimenti in altre carceri dell'isola.
     A tutto questo i prigionieri hanno reagito iniziando la notte del tre aprile a sbattere utensili vari alle sbarre e ad urlare per denunciare il loro malessere pubblicamente.
     L'amministrazione per tutta risposta ha fatto intervenire le guardie speciali: G.O.M. (Gruppi operativi mobili della polizia penitenziaria, una struttura di intervento rapido, come tutte le polizie, ma non con compiti punitivi, giustificabili con situazioni di difficoltà e criminali impegnativi da gestire), per ristabilire l'ordine costituito. In realtà sono bastardi picchiatori che abbiamo già visto in azione anche a Genova. Attualmente è in corso il processo contro chi ha deciso o si è reso partecipe al pestaggio dei prigionieri, ma come avrete letto nelle testimonianze tutti questi "personaggi" sono liberi e continuano a lavorare all'interno delle carceri. Il 3 aprile del 2000 erano presenti: la direttrice Maria Cristina Di Marzio, il Provveditore regionale del Ministero Di Grazia e Giustizia Giuseppe Della Vecchia, il medico Adamo Antonio Salvatore Mario, il comandante delle guardie Ettore Tomassi e gli sbirri.

MANCU VOS CURRAT SA JUSTISSIA 'E SU POPULU!

Fonte: Dossier San Sebastiano, diffuso il 17 luglio 2002 da: victoria siempre, siempre_victoria@hotmail.com


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