Sulla
repressione nel carcere di S. Sebastiano, Sassari
Ogni carcere è costruito con i mattoni dell'infamia ed è
chiuso con le sbarre per paura che Cristo veda come gli uomini straziano
i loro fratelli.
Oscar Wilde
Nonostante siano passate settimane ancora non è chiaro
quanto sia successo lunedì 3 aprile nel carcere di S. Sebastiano posto
nel cuore della città di Sassari in Sardegna.
Sappiamo bene però che il carcere è delitto, privazione, violenza e lunedì
in Via Roma 51, a Sassari il carcere ha mostrato il suo vero volto in
tutta la sua brutalità, facendo rimbombare ulteriormente le parole del
nuovo comandante della polizia penitenziaria, Ettore Tomassi che all'indomani
della sua nomina, ossia il giorno del pestaggio si sarebbe presentato
alla popolazione carceraria con le seguenti parole: "Io sono il vostro
dio, in 15 giorni diventerete come agnellini. Sappiate che il lager è
un paradiso, qui inizia l'inferno".
Questi i fatti: in occasione di una protesta interna al carcere, esplosa
spontaneamente a causa delle insostenibili condizioni di vita all'interno
dello stesso, aggravate dal fatto che, essendo in atto la sostituzione
o uno sciopero della direttrice, sarebbero stati sospesi per alcuni giorni
"servizi aggiuntivi" come il "supplemento spesa" allo
spaccio (ossia la possibilità di poter comprare allo spaccio del carcere
alimenti oltre quelli passati dalla mensa), e il ricovero ospedaliero
(giudicate se questi servizi siano aggiuntivi o innegabili!), in più sono
stati chiusi i rubinetti dell'acqua, altra cosa forse superflua...
Non è da tralasciare la situazione di un presunto sovraffollamento di
detenuti per cui si volevano effettuare dei trasferimenti in altre carceri
dell'isola. A tutto questo i prigionieri hanno reagito iniziando, la notte
del 3 aprile, a sbattere utensili vari alle sbarre ed a urlare per denunciare
il loro malessere pubblicamente. L'amministrazione, per tutta risposta,
avrebbe fatto intervenire le squadre speciali: G.O.M. (gruppi operativi
mobili della polizia penitenziaria, una struttura d'intervento rapido,
come tutte le polizie, ma non hanno compiti punitivi. Giustificabili con
situazioni di difficoltà e criminali impegnativi da gestire), per ristabilire
l'ordine costituito.
Questo chiaramente secondo le istituzioni. Avendo la situazione destato
eccessivo clamore Diliberto prontamente è intervenuto e dopo aver promesso
indagini e inchieste, ha sentito il dovere di soffermarsi sul lavoro dei
secondini, sottolineando che, riportiamo esattamente le sue parole: "la
polizia penitenziaria svolge un lavoro difficile e molto delicato, che
deve essere realizzato in strutture adeguate e moderne, ma a S. Sebastiano
sono costretti a lavorare in condizioni allucinanti".
Ecco perché si sta pensando di vendere l'area appetibile e centrale a
privati a patto che questi diano allo stato chiavi in mano, un nuovo carcere,
cioè lo stato vuole costruire un nuovo carcere efficiente e moderno a
costo zero. Questo, per loro è l'unico problema e l'unica soluzione. A
volte, aggiungiamo noi, lavorare con difficoltà, causa stress, quindi
è giusto che le guardie si sfoghino sulle vite umane da loro custodite,
legalizzando a loro piacimento pestaggi, soprusi e torture, tanto sono
detenuti che sono lì per espiare delle colpe, non persone ma solo dei
carcerati.
Quello che è successo il 3 aprile è stato un massacro, una spedizione
punitiva in piena regola, con testimoni screditati ed inutili in quanto
semplici prigionieri. Ecco la lampante funzione repressiva, e non rieducativa
o di recupero del carcere, in tutta la sua massima espressione.
L'art. 27 della costituzione italiana che recita: "Le pene non possono
consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere
alla rieducazione del condannato", è stato tranquillamente calpestato,
ancora una volta, in nome della democrazia e dell'ordine pubblico. Bilancio
(provvisorio e non ufficiale!), 70 detenuti pestati a sangue perquisiti
da cima a fondo (intestino compreso), e trasferiti in altre strutture,
per alcuni nessun colloquio nessuna visita.
Forse perché si vuole impedire di vedere i segni del massacro, o si vuol
tentare di occultare le prove e curare senza troppi clamori fratture,
ecchimosi, perdita improvvisa di diversi denti in una settimana circa.
Troppi segni gli aguzzini hanno sbadatamente lasciato sui corpi dei ribelli.
Prima sono entrati nelle celle, devastandole, rompendo armadietti, brande
e gettando dalle finestre indumenti, cibo, riserve d'acqua e quant'altro,
poi li hanno assaliti.
Si sa che uno è in coma, uno ha entrambi i polsi fratturati, molti non
sono stati neppure ancora visitati, tutti, compresa la sezione femminile,
hanno comunque preso calci e pugni alla schiena, alle gambe e ai testicoli.
Solo alcuni parenti delle vittime hanno voluto parlare, con gli occhi
insanguinati dalla rabbia per come hanno trovato i loro congiunti, "il
viso quasi intatto, solo un po' sofferto. Il corpo dilaniato, dolori ovunque
impossibilitati ad assumere posizioni "normali", (troppe fratture
non previste forse?) e così via... più che un racconto un bollettino di
guerra.
La risposta non tarda ad arrivare: venerdì 14 aprile i familiari dei prigionieri
riuniti in un comitato spontaneo hanno organizzato una fiaccolata di solidarietà,
la partecipazione è stata di circa 150 persone tutti in silenzio hanno
sfilato nelle vie intorno al carcere, senza simboli né bandiere. I detenuti
hanno risposto accendendo le loro fiaccole (accendini) con le braccia
che cercavano di raggiungere i manifestanti in un abbraccio soffocato
ed impossibile. L'atmosfera si è scaldata nel momento in cui i cuori si
sono incontrati al di là della sbarre, al di là delle celle e delle mura
apparentemente invalicabili.
Ma il resto della città non ha capito o non ha voluto capire. Una richiesta
di solidarietà per un fatto così aberrante a cui non si è risposto pienamente
forse perché sono detenuti e dopo tutto se sono dentro sono colpevoli
e se lo meritano... La maggioranza silenziosa, quindi, continuerà a tacere
acconsentendo a mattanze legali ed impunite, continuerà a fingere di non
sentire le urla che troppe volte hanno squarciato quelle mura per uscire
fuori, ma l'importante è che il carcere sia fuori dalla città, così che
i prigionieri non possano turbare ulteriormente la "povera vita dei
cittadini onesti" troppo occupati a pensare esclusivamente a se stessi.
All'appuntamento non sono mancati purtroppo i soliti avvoltoi venuti a
chiudere la loro campagna elettorale cavalcando gli eventi ed elargendo
promesse; a loro va tutto il nostro disprezzo. Non sono mancati neppure
simpatici casi di auto-combustione spontanea (cioè la spontanea messa
al rogo di auto) di alcune guardie e generosi pacchi regalo dal contenuto
esplosivo lasciati qua e là nelle carceri sarde.
Esprimiamo la nostra solidarietà ai prigionieri e ai familiari
Ribadiamo il nostro profondo disprezzo nei confronti di coloro che gestiscono,
ad ogni livello le strutture carcerarie nonché il rifiuto di riconoscere
lo stato italiano borghese, imperialista e nel caso della Sardegna straniero
e colonialista.
Saluti rivoluzionari
Con tenerezza e forza
Sa Cunfederatzione de sos comunistas Sardos
Fonte: Sulla repressione nel carcere di S. Sebastiano, Sassari comunicato
della Sa Cunfederatzione de sos comunistas Sardos diffuso il 19 aprile 2000 da
ihb@sigmasrl.it
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Pestaggi in cella al
carcere di Sassari
Quanto avvenuto all'interno del carcere San Sebastiano
di Sassari rispecchia la drammatica situazione cui sono ridotti sempre
più istituti penitenziari italiani.
Sovraffollamento
Il carcere di Sassari è una struttura vecchia e fatiscente che dovrebbe
contenere non più di 100 detenuti e ne rinchiude oltre il doppio. Già
negli anni passati si era parlato di una sua chiusura, con il progetto
succulento di costruire un nuovo carcere fuori città, ma poi i finanziamenti
sono sfumati e il lager ottocentesco che sorge al centro della città è
rimasto lì, continuando ad ammassare sempre più detenuti.
Maltrattamenti
Da prima che scoppiassero le proteste di fine marzo e inizio aprile 2000,
gli abitanti delle strade adiacenti al carcere di Sassari avevano già
segnalato le urla provenienti dall'interno dell'istituto, già si parlava
di morti sospette, ma nulla è stato fatto per porre rimedio. È servito
che i detenuti prendessero la parola, con tutte le ripercussioni nei loro
confronti cui sono dovuti andare incontro.
Arroganza delle guardie
Il clima emergenziale sulla criminalità montato dall'inizio del 1999 e
la politica intrapresa con il governo D'Alema e il Guardasigilli Diliberto
hanno avuto tragici effetti sul clima che si vive all'interno delle carceri.
Oltre ad aggravare le già drammatiche condizioni di sovraffollamento si
è assistito ad un costante aumento degli atteggiamenti prevaricatori della
sorveglianza carceraria. Capeggiati dalle rappresentanze sindacali CGIL,
che alla ricerca del consenso hanno inseguito le tendenze fasciste e forcaiole
ampiamente diffuse nel corpo della polizia penitenziaria, gli agenti di
custodia hanno sfruttato l'ondata giustizialista per portare avanti le
loro rivendicazioni a tutto danno delle persone recluse. Non va dimenticato
che la protesta dei detenuti sassaresi nasce proprio dalle drammatiche
condizioni cui si era arrivati durante lo sciopero dei direttori delle
carceri che aveva avuto come effetto la mancanza di cibo e acqua per i
reclusi.
Censura
La difficoltà con cui le notizie dei pestaggi e delle morti sospette sono
trapelate da dentro le mura del carcere di Sassari sono nulla a confronto
dei tanti episodi che quotidianamente rimangono nel buio o hanno rilievo
solo a carattere locale. Ciò che succede all'interno degli istituti penitenziari
italiani rimane avvolto da una cortina impenetrabile.
Conflittualità
In questo clima, nonostante il tentativo di tenere tutto nascosto, sempre
più frequenti sono gli episodi di protesta collettiva e individuale delle
persone detenute e delle loro famiglie. Una rivolta è scoppiata nel carcere
di Parma all'inizio di quest'anno. Già in quell'occasione l'atteggiamento
delle forze di polizia e dei funzionari del ministero di giustizia fu
di dare la minore risonanza possibile, nel timore che l'ondata di protesta
potesse estendersi ad altre carceri. Anche in quel caso furono messe a
tacere le motivazioni della protesta che denunciavano le pessime condizioni
di vita all'interno del super-carcere di Parma. In quell'occasione si
scelse la via della trattativa e dell'irruzione soft, oggi a Sassari,
dopo i maltrattamenti delle guardie stanziali i detenuti hanno dovuto
subire anche l'intervento delle squadracce dei Gom (Gruppi operativi mobili).
Servizi segreti penitenziari
Uno degli effetti devastanti della gestione Diliberto è stato proprio
il rafforzamento degli apparati speciali della polizia penitenziaria.
I Gruppi Operativi Mobili sono agenti speciali della polizia penitenziaria
alle dirette dipendenze del ministero di via Arenula che effettuano irruzioni
all'interno delle carceri. La loro storia è disseminata di pestaggi, devastazioni,
omicidi di detenuti. Inchieste e interrogazioni parlamentari sull'operato
dei GOM sono sempre apparse come prese in giro per la loro totale inefficacia.
Nel 1999 l'allora ministro Diliberto affiancò i GOM con un'ulteriore struttura
di intelligence, l'Ufficio Garanzie Penitenziarie (UGAP) e vi mise a capo
il generale Enrico Ragosa, già capo dei GOM e proveniente dal SISMI. L'UGAP
non solo svolge il suo lavoro sporco all'interno delle carceri italiane,
ma sta attivamente prendendo parte alla ricostruzione affidata all'Italia
del sistema giudiziario e penitenziario in Kossovo.
Solidarietà
Un elemento veramente nuovo di quanto avvenuto a Sassari è stata la mobilitazione
esterna che ha solidarizzato con la protesta dei reclusi. Cortei sotto
al carcere, riconsegna dei certificati elettorali, denuncia di quanto
stava accadendo sono un segnale forte che va raccolto per chi vuole portare
avanti la lotta contro il carcere e tutte le istituzioni totali e di controllo.
liberiamoci del carcere
Fonte: Pestaggi in cella al carcere
di Sassari diffuso il 4 maggio 2000 da liberiamoci del carcere, out.out@libero.it
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Un contributo
alla discussione dopo i fatti di Sassari
Il pestaggio dei detenuti nel carcere San Sebastiano
di Sassari, insieme agli altri episodi che stanno emergendo dall'oscuro
calderone degli istituti penitenziari della penisola, indicano una tendenza
che il sistema punitivo italiano ha ormai intrapreso da diverso tempo.
Il carcere italiano sente gli effetti della transizione dalla cosiddetta
società disciplinare, che ha caratterizzato il sistema di produzione della
fabbrica, alla società di controllo, che si abbina invece al mondo del
lavoro flessibile e precario. Ciò che sembra caratterizzare questa fase
di transizione è un potenziamento delle strutture segregative tradizionali
(carceri e istituzioni totali) e un affiancamento di nuove strutture di
controllo rivolte a intere categorie di soggetti (migranti, tossicodipendenti,
tifosi, squatter, autonomi, ...) il cui allarme sociale è alimentato da continue
campagne emergenziali.
Il modello penitenziario statunitense, rispetto cui l'Italia mostra analogie
e differenze, vede una crescita esponenziale del sistema di controllo
caratterizzata dalla incarcerazione di un numero sempre crescente di persone
(2 milioni di persone, con un tasso di 600 persone incarcerate ogni 100.000
abitanti), la costruzione di nuove prigioni, il fiorire di carceri e polizie
private, la creazione della potente lobby della polizia penitenziaria,
in grado di influenzare le dinamiche economiche e politiche dei diversi
stati e contee americane.
Il carcere USA non solo si è espanso e riempito, ma ha svolto una funzione
di agenzia di controllo diffuso. Nei confronti di intere categorie di
persone (proletariato nero e ispanico, microcriminalità femminile e minorile)
si è assistito a un uso massificato del carcere senza un incremento dei
reati, ma in base a considerazioni sull'allarme sociale suscitato.
Dunque appare che nella società di controllo il carcere cresce e aggiunge
la funzione di contenitore segregativo per intere fasce di popolazione.
In questo modo aumenta ulteriormente la differenziazione tra le persone
detenute.
Si va dal carcere di massima sicurezza, per i "nemici dello stato",
a quello puramente contenitivo, passando per i diversi gradi del trattamento.
Le nuove strutture di controllo che affiancano il carcere si aggiungono
a esso e non lo sostituiscono. I ghetti metropolitani, la detenzione amministrativa,
le terapie coatte in comunità, i sistemi diffusi di videosorveglianza
hanno lo scopo di costruire attorno al carcere in espansione un cerchio
ancora più grande e crescente di soggetti sottoposti a forte controllo
sociale. Il modello statunitense insegna che a fronte di 2 milioni di
persone incarcerate ve ne sono più del doppio in libertà vigilata e le
metropoli USA si ristrutturano secondo un'urbanistica del controllo.
Gli aspetti carcerari della trasformazione italiana sono stati affidati
a Giancarlo Caselli, figura chiave della stagione emergenziale dagli anni
70 fino all'antimafia degli anni 90. Dopo il processo Andreotti, Caselli
è stato messo in salvo dal governo amico a Roma, con il compito di mettere
mano alla ristrutturazione del sistema penitenziario. La cacciata del
precedente direttore del dipartimento dell'amministrazione penitenziaria,
il gozziniano Alessandro Margara, e l'insediamento di Caselli hanno rappresentato,
anche dal punto di vista dell'immagine, un chiaro segnale del cambiamento.
Il carcere in Italia non può essere, neanche solo a livello propagandistico,
luogo del reinserimento. Le misure alternative e la legge Gozzini devono
rimanere a normare, con la loro impostazione premiale, una fascia di popolazione
detenuta che si valuta recuperabile al sistema lavorativo o alle strutture
terapeutiche. Il carcere deve però saper anche contenere intere categorie
di persone nei cui confronti non viene avviato nessun intervento trattamentale,
prediligendo la sua funzione segregativa.
Nascono così nuove forme di carcerazione speciale, che si vanno ad affiancare
a quelle già esistenti. Si fa largo uso della carcerazione preventiva
(quindi senza accesso alle misure alternative), si limita la presunzione
d'innocenza per alcune categorie di soggetti, per la detenzione straniera
c'è un passaggio diretto dal carcere ai centri di permanenza temporanea
che attuano l'espulsione dal territorio italiano.
A conclusione della martellante campagna sulla Tolleranza Zero nell'autunno
del 1999 il governo D'Alema presentava la versione riveduta del pacchetto
sicurezza, contemporaneamente Giancarlo Caselli illustrava il suo piano
di intervento per le carceri.
Il primo provvedimento aumenta i poteri di indagine della polizia, introduce
il braccialetto elettronico, colloca nella fascia detentiva medio-alta
lo scippo e il furto in appartamento, inasprisce le norme contro la recidiva,
elimina il terzo grado di giudizio. Controllo del territorio da un lato
e diverso uso del carcere per la microcriminalità dall'altro.
In attesa degli investimenti sull'apparato industriale-carcerario (edilizia
pubblica e privata, appalti per le forniture) il progetto ministeriale
presentato da Caselli prevede la differenziazione detentiva su tre livelli
(sicurezza, ordinario, attenuato) funzionale a gestire il crescente afflusso
di popolazione carcerata.
La sicurezza nei confronti dei soggetti considerati irriducibili viene
garantita all'interno delle super carceri, lasciate in eredità, dalla
stagione dell'emergenza politica degli anni 70 e 80. Ai corpi dei detenuti
politici si aggiungono quelli dei successivi nemici dello stato, come
già fu con l'istituzione delle carceri speciali nel 1977.
La premialità di impronta gozziniana continua a operare nel livello ordinario,
che deve funzionare da vero e proprio purgatorio, con un accesso alle
misure alternative riservato a pochissimi soggetti. L'efficacia con cui
la Gozzini ha messo a tacere la conflittualità all'interno delle carceri
italiane va mantenuta, soprattutto in vista del peggioramento delle condizioni
di sovraffollamento. L'inasprimento delle pene a seguito delle campagne
emergenziali ha la funzione di rendere più lungo e tortuoso il percorso
per taluni reati, se non addirittura di far passare dal livello ordinario
a quello di sicurezza.
Il livello attenuato infine ha il compito di reinserire i soggetti nel
circuito produttivo, o in altri istituti di controllo (comunità terapeutiche,
ospedali, servizi sociali, privato sociale) e sostituisce le vecchie strutture
dello stato sociale con il Terzo Settore.
Oltre ai programmi governativi su sicurezza-carcere-controllo, la voce
da padrone in questa fase di ristrutturazione carceraria, la stanno facendo
direttori e guardie penitenziarie. Entrambe le categorie vanno ad assumere
nuove responsabilità all'interno di questo sistema e rivendicano la loro
parte di potere.
Già negli anni passati è accaduto che fossero proprio funzionari penitenziari
(medici, direttori, guardie) a far esasperare la situazione tra i detenuti
dentro il carcere per portare avanti con più autorevolezza le proprie
rivendicazioni. Non stupisce quindi che i pestaggi nel carcere di San
Sebastiano siano seguiti alla protesta dei detenuti per le condizioni
in cui erano costretti dallo sciopero dei direttori, né sorprende che
gli agenti penitenziari abbiano colto l'occasione per far sentire più
forte la loro voce o che il governo abbia deciso lo stanziamento di 160
miliardi per costruire nuove carceri.
Direttori e guardie penitenziarie si configurano come le figure forti,
che insieme a un massiccio ed efficiente apparato giudiziario possono
gestire il nuovo sistema penale e carcerario. I primi vogliono riconosciuto
un più alto livello dirigenziale, i secondi continuano a strappare aumenti
di organico, retribuzione e amnistie per i maltrattamenti ai detenuti dal
governo che li riconosce come interlocutori privilegiati del modo carcerario.
Ad un'analoga dinamica si è assistito anche in occasione della ristrutturazione
del sistema sanitario carcerario, entrata in vigore all'inizio di quest'anno
con il passaggio di competenze dal ministero di grazia e giustizia a quello
della sanità. Lì fu la lobby dei medici penitenziari a sfruttare le drammatiche
condizioni delle persone malate detenute per fare in modo che fossero
quanto più mantenuti i privilegi acquisiti durante la gestione separata
della sanità carceraria.
La novità di quanto è seguito ai pestaggi di San Sebastiano è stata piuttosto
la solidarietà verso i detenuti che si è espressa fuori dal carcere. È
un segnale importante che proviene da settori sociali con cui il movimento
non ha alcun collegamento, neanche comunicativo. È invece fondamentale
raccogliere questo messaggio, perché il carcere attuale si combatte soprattutto
da fuori.
La conflittualità interna deve fare i conti con le pressioni enormi esercitate
dal regime premiale, che individualizza i percorsi e punisce con gli alti
tetti edittali la non-collaborazione. Le lotte dei detenuti sono per forza
di cose rivendicative e nonostante questo vengono spesso represse duramente.
Fuori dal carcere deve nascere un movimento di critica e di lotta con
quei soggetti sociali che subiscono il sistema di controllo. La nostra incapacità a dialogare con questi settori sociali, la nostra
povertà e arretratezza di analisi sono il punto di partenza diverso, speriamo,
il punto di arrivo.
liberiamoci del carcere
Fonte: Un contributo alla discussione dopo i fatti di Sassari, diffuso
l'8 maggio 2000 da: liberiamoci del carcere, out.out@libero.it
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Diritti umani o
soltanto diritti sindacali?
Il 27 e il 28 marzo i direttori dei 250 carceri italiani
scioperano perché vorrebbero degli scatti di carriera e di stipendio.
Siccome sono italiani è loro consuetudine rivolgere gli scioperi contro
i "cittadini" e non contro i "padroni". Quindi il
27 e il 28 marzo non hanno firmato le consuete carte che servono a garantire
ai detenuti il rispetto dei loro diritti fondamentali, ossia ricevere
la posta, poter incontrare i familiari, oppure telefonare ai figli, visto
che i regolamenti penitenziari sono disegnati in modo tale che se un bambino
vuole andare a trovare il genitore detenuto deve per forza perdere un
giorno di scuola. Il 27 e il 28 i direttori hanno bloccato gli iter burocratici,
e il 28 e il 29 i detenuti di tutta Italia si sono ritrovati bruscamente
separati dalle famiglie. La cosa succede spesso, queste modalità di sciopero
sono tristemente note ai detenuti, e i più avveduti sanno che i direttori
contano proprio su qualche casino creato dai detenuti per poter dire che
il loro è un lavoro difficile, un lavoro da "domatori di leoni".
I detenuti avveduti di solito stanno buoni, sopportano, e sperano che
gli aumenti di stipendio glieli diano lo stesso ai direttori, così loro
possono incontrare i familiari senza troppe storie.
A Sassari il 28 e il 29 marzo i detenuti hanno rumoreggiato, forse perché
il carcere è al centro della città e dalle finestre vedevano i parenti
in fila fuori dai cancelli, e si accorgevano che non li facevano entrare.
Oggi che abbiamo accesso alla relazione ufficiale dell'ispezione disposta
dal Ministero di Giustizia, leggiamo che "il comportamento dei detenuti
è arrivato quasi ad integrare il reato di oltraggio", il che tradotto
vuol dire che i detenuti hanno protestato a voce contro qualcosa, ed hanno
"quasi" commesso il reato di "oltraggio", che tra
l'altro è uno dei reati recentemente depenalizzati. Insomma, i detenuti
avevano "quasi detto delle parolacce" oppure "detto delle
quasi parolacce".
Evidentemente questo non era sufficiente per perorare la causa dell'aumento
di stipendio, e allora si è deciso di inviare una relazione allarmante
al Ministero, sostenendo che una ventina di questi detenuti "pericolosi"
andavano trasferiti al fine di garantire, così recita la formula standard,
"l'ordine e la sicurezza dell'istituto". Il resto dei fatti
è noto: il Ministero (nella figura del Provveditorato Regionale) autorizzava
i trasferimenti, i quali venivano messi in atto il pomeriggio del 3 aprile.
Siccome in servizio nel carcere di Sassari c'erano solo 200 agenti, il
Ministero, sempre nella figura del Provveditorato, disponeva l'invio di
80 agenti di rinforzo per questa operazione che evidentemente qualcuno
prefigurava come difficilissima. Il resto della storia è nota, e per noi
la notizia al momento finisce qui, nel senso che la magistratura con calma
ci dirà se e quale violazione dei diritti umani dovremo rubricare nei
nostri archivi.
Siccome però tutta la vicenda ha preso il via da una protesta sindacale
dei direttori, vorremmo notare un piccolo paradosso. Ci si è scandalizzati
perché i trasferimenti dei detenuti sono avvenuti "con uso eccessivo
della forza"... già, ma forse che senza l'uso della "forza"
i trasferimenti sarebbero stati giusti? Il "cittadino detenuto"
protesta a voce contro i soliti disservizi dei soliti scioperi all'italiana,
e cosa gli succede? Lasciamo perdere le mazzate, ma viene licenziato in
tronco e trasferito. Con buona pace dei diritti sindacali minimi. Sì,
perché il detenuto spesso è anche un "lavorante", assunto dopo
una lunga trafila dall'Amministrazione Penitenziaria, che in cambio di
600.000 lire al mese gli affida lavori di pulizia, di cucina, di giardinaggio,
di edilizia. Il cittadino detenuto assunto dall'Amministrazione Penitenziaria
viene licenziato in una frazione di secondo se "quasi dice delle
parolacce" oppure se "dice delle quasi parolacce". Licenziato
e trasferito. Il trasferimento per un detenuto significa poco se è ricco,
in fin dei conti le celle italiane si assomigliano tutte, ed essere spostati
da una parte o dall'altra non fa differenza.
La differenza c'è, ed è grande, per i detenuti non miliardari. Il trasferimento
significa l'allontanamento dalla famiglia, che a quel punto dovrà percorrere
qualche centinaio di chilometri all'andata e altrettanti al ritorno per
poter fare l'ora di colloquio settimanale, e il viaggio costa, e se si
lavora bisogna prendere ogni volta un giorno di ferie. Il trasferimento
allontana dagli avvocati, che per andare a trovare il detenuto chiederanno
ogni volta, chissà, mezzo milione. Il trasferimento significa soprattutto
venir licenziati ovviamente in tronco dal vecchio carcere, e dover rifare
la pratica nel nuovo carcere, pratica che in media porta via 6 mesi (in
carceri grandi come Rebibbia ci vuole più di un anno prima di essere "assunti").
Il detenuto che lavora guadagna poco, ma per molte famiglie è tutto quello
su cui si può fare affidamento, fatto salvo qualche sussidio comunale
o roba (piccola) del genere.
Avete notato che poi la storia si è conclusa con un altro sciopero, questa
volta degli agenti? Gli agenti hanno dichiarato "sciopero bianco"
in tutta Italia (come forze dell'ordine non possono fare altri tipi di
sciopero), annunciando con gran clamore che avrebbero applicato alla lettera
(alla loro lettera) il regolamento. Avete letto cosa intendevano per "applicare
alla lettera il regolamento"? "Nei controlli notturni nelle
celle forse alcuni colleghi dopo averle accese non spegneranno le luci,
perché non c'è scritto da nessuna parte che debbano farlo, e forse i detenuti
non riusciranno a dormire. Ci vorrà tempo per perquisire i parenti dei
detenuti che vogliono andare ai colloqui, quindi probabilmente i colloqui
saranno quasi azzerati. Ci vorrà tempo per distribuire la posta, quindi
probabilmente i detenuti non riceveranno posta. Ci vorrà tempo per digitare
i numeri telefonici richiesti dai detenuti per parlare coi familiari,
quindi probabilmente i detenuti non parleranno coi familiari"...questo
preannunciavano orgogliosi i sindacalisti della Polizia Penitenziaria...con
buona pace dei diritti sindacali minimi, ma veramente minimi, dei detenuti.
Il governo, sensibile a tali impeccabili rivendicazioni sindacali, gli
ha dato subito ragione, ha promesso i soliti aumenti, i soliti avanzamenti
di carriera, i nuovi stanziamenti... e, il 9 maggio, ha chiesto la corsia
preferenziale per un provvedimento di legge che condoni i circa 16.000
provvedimenti disciplinari pendenti nei confronti dei 43.000 agenti di
Polizia Penitenziaria. Insomma, pestare i detenuti conviene. Speriamo
che agli infermieri in prossimità del rinnovo del contratto non venga
in mente di pestare i malati, o ai ferrovieri di pestare i passeggeri...
Francesca Mambro e Valerio Fioravanti
Fonte: pubblicato il 22 maggio 2000 su http://www.ideazione.com/interazione/
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Dossier:
Da Sassari a Poggioreale ... o viceversa?
a cura del Coordinamento Liberiamoci dal
carcere di Napoli
Cronaca
di un pestaggio annunciato
Date-fatti-informazioni: Gennaio-Giugno 2000
Presentazione
Il 3 aprile di quest’anno un gruppo di agenti reclutati nelle
carceri sarde entra nell’istituto di Sassari per eseguire una
perquisizione straordinaria e trasferire una ventina di detenuti.
Il 3 maggio i magistrati di Sassari emettono 82 ordini di
custodia cautelare contro 79 guardie, il Provveditore delle carceri
della Sardegna, la direttrice e il comandante di Sassari. Scoppia il
caso Sassari. Le polemiche scoppiate in seguito alle prime
rivelazioni sui fatti di violenza investe l’amministrazione
penitenziaria, e soprattutto il corpo di polizia che governa le
carceri. I racconti dei calci in faccia con gli anfibi, delle
secchiate di acqua gelida, delle umiliazioni dei denudamenti e delle
perquisizioni anali fanno il giro delle redazioni di giornali e
televisioni. Si scopre la vergogna del carcere italiano, per tanti
anni rimasto silente e nascosto.
Il 7 maggio la violenta reazione dei sindacati della polizia
penitenziaria prende corpo nella prima manifestazione nazionale di
protesta contro gli arresti operati dalla magistratura sarda. La
piazza scelta è quella di Napoli; lo scenario le mura del carcere di
Poggioreale. Perché proprio Napoli? Perché per protestare contro 82
arresti avvenuti a Sassari si decide di indire una manifestazione di
protesta fuori al carcere di Poggioreale? Perché il provveditore
delle carceri della Sardegna, campano, per effettuare l’operazione
di Sassari fa trasferire da Benevento il suo ex capo delle guardie?
E chi ha autorizzato il trasferimento dell’uomo duro che ha gestito
lo sfollamento?
Il 19 maggio, dopo che il Governo ha risposto ai fatti di Sassari
con un l’aumento degli organici della polizia penitenziaria e
l’apertura di nuove prigioni, i centri sociali napoletani
organizzano una manifestazione di solidarietà ai detenuti fuori al
carcere di Poggioreale. Il ‘popolo dei dannati della terra’ risponde
con una battitura delle stoviglie sulle sbarre che dura fino a tarda
notte: è la prima iniziativa di protesta che parte da un carcere
italiano. I detenuti chiedono che sia messo fine al clima di
violenza e di intimidazione che impera nel penitenziario, mostrano
cosa significa vivere 17 persone in una cella, chiedono assistenza
medica, condizioni di vita dignitose. La storia della lotta dei
detenuti per l’indulto e l’amnistia comincia da qui, dalla denuncia
degli orrori del modello della massima deterrenza che è Poggioreale.
Cosa rappresenta nel sistema penitenziario italiano di oggi il
‘modello Poggioreale’? Qual è la classe dirigente che ha costruito
questo modello, quale il ruolo che essa occupa nelle architetture
del potere penitenziario e il mandato politico a cui obbedisce? Cosa
accadrà nelle nostre prigioni quando l’operazione indulto/amnistia
sarà conclusa?
Dopo un decennio di emergenze criminali, di campagne di allarme e
ideologie della sicurezza, di tolleranze zero e criminalizzazione
della miseria, oggi scopriamo l’indecenza di un sistema carcerario
rimasto troppo a lungo nascosto e silente. Napoli, e il suo carcere,
hanno costituito probabilmente un importante laboratorio di
sperimentazione delle forme del sorvegliare e punire negli scenari
della crisi sociale contemporanea.
Alcune delle trasformazioni che hanno investito il carcere
italiano in questo tempo sono senza dubbio passate da questa città.
Lavorando alla cronologia che vi proponiamo siamo partiti dai fatti
di Sassari, per approdare, inevitabilmente, a Poggioreale. Proprio
quando credevamo di aver individuato un percorso, ci siamo resi
conto che si trattava di un tragitto a doppia corsia di scorrimento:
da Sassari a Poggioreale, e viceversa.
Napoli, 30 giugno 2000
Fonte: pubblicato su http://www.noglobal.org/
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Dossier:
Pestaggio a S. Sebastiano
Dolore
Mi sono spogliato
Attesa, paura, dolore.
L'attesa si è fatta cristallo
E a questo soffitto
Ho inchiodato la paura.
***
***
Alcuni detenuti di San Sebastiano ci hanno scritto
per raccontare cosa è realmente successo il tre aprile del 2000
all'interno del carcere. Con questo dossier vogliamo dare ampio spazio
alla loro voce dato che sono gli unici testimoni vittime di questa sporca
vicenda.
Come al solito i mezzi di comunicazione di massa
hanno dato più peso alle problematiche della direzione carceraria
manipolando i fatti tra l'altro con grave ritardo di quattro giorni.
Tutto questo ci porta a pensare che niente sia
casuale; questo ritardo dimostra come si volesse nascondere immediatamente
la verità.
Cosa impossibile da attuare visto il clamore
suscitato da detenuti, familiari e amici.
In base alle testimonianze siamo arrivati alla
conclusione che la spedizione punitiva sia stata studiata in precedenza
contro coloro che erano segnati nelle liste punitive di cui i secondini
stessi parlano.
Il pestaggio di San Sebastiano non è certamente
un fatto isolato; soprusi e abusi sono purtroppo una piaga del sistema
carcerario mondiale e da sempre quello che succede dietro le mura è
tabù.
Questo avviene sia per interesse del potere capitalista
che non vuole mostrare il vero volto della repressione che esercita sul
sociale, sia perché l'influenza di questo stesso potere su coloro
che detiene nelle sue prigioni determina reazioni contrastanti quali la
paura e l'insicurezza oppure l'aperta ribellione.
Questo non accade solo dentro le galere ma anche
nella società, dove impera il codice disciplinare della discriminazione
verso chi non è compatibile con il modello di sviluppo capitalistico.
SOLIDARIETÀ AI DETENUTI E ALLE FAMIGLIE
RESISTENZA ALLO STATO TERRORISTA!
FUOCO ALLE GALERE!
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Lettera
Io sono recluso nel carcere di Sassari da quasi tre
anni. In tutto questo tempo di detenzione trascorso qui dentro sono stato
presente e ho vissuto come tanti altri, tante ingiustizie e soprusi. Ma
quello che ho visto accadere il 3 aprile a Sassari non potrò mai
scordarlo: a detta di molti amici che di galera ne hanno fatto, e hanno
molta più esperienza di me, nelle loro memorie non affiora niente
che possa assomigliare a un raid punitivo simile al 3 aprile.
Non mi prolungherò molto nel raccontare
questa brutta storia, perché certe situazioni come questa vogliono
vissute per capirla, perché nel raccontarle non si potrà
mai arrivare a leggere il terrore e l'impotenza che io vedevo negli occhi
e nelle facce dei miei compagni.
Il raid punitivo il giorno si svolse in tre parti:
1° fase provocazione, 2° fase umiliazione psicologica, 3° e ultima fase,
per chiudere in bellezza, pestaggio assoluto. Molti di quelli che sono
rimasti qua sono convinti che tutto il pestaggio non era previsto; io
la penso diversamente, la cosa non gli è sfuggita di mano, ma era
stata studiata a tavolino. Perché diversamente, il giorno, sospendere
i colloqui? I secondini sapevano che questo carcere è un terreno
facile per compiere i raid e colpire senza pagare!
D'altronde su 200 detenuti il 95% sono tossicodipendenti:
chi darebbe ascolto a loro? Questo avranno pensato, ma le cose sono andate
diversamente, come tutti sappiamo. Questo grazie alla volontà dei
familiari che unendosi in fiaccolate e proteste hanno fatto in modo che
la verità affiorasse aldilà delle quattro mura carcerarie
e tutti hanno potuto sapere.
Nella 1° fase, cioè quella della provocazione,
ricordo che i nostri carcerieri passavano nelle celle e ci invitavano
a protestare, bussare con gavette per farci sentire, dicendoci chiaramente
che i detenuti di Sassari erano dei coglioni, dei deboli, perché
eravamo gli unici a non ottenere mai ciò che ci sarebbe spettato
di diritto da parte dell'amministrazione penitenziaria, tutto questo perché
giorni prima abbiamo cercato di far sospendere lo sciopero indetto dalla
Di Marzio, direttrice del carcere, privandoci quindi dei generi di prima
necessità come l'acquisto di acqua, di cibo e di tante altre cose.
E il mangiare non è che potevamo prenderlo dall'amministrazione
visto che non sazierebbe neanche un cardellino, come si sa il mangiare
che ci spetta viene rubato puntualmente dalle guardie dalla cucina e gli
avanzi li passano a noi e tutt'oggi è così.
La provocazione fatta con l'inganno da parte
dei nostri carcerieri era dovuta al fatto che fuori erano già pronti
i nostri aguzzini che di li a pochi minuti sarebbero entrati per mettere
in atto il raid punitivo nei nostri confronti: ecco perché dicevano
"fate casino, fatevi sentire!".
2° fase, quella che riguarda l'umiliazione psicologica.
Come ho detto all'inizio non starò a raccontarvi dei particolari
del tre aprile, i nomi dei ragazzi picchiati e tutte le situazioni vissute,
ma le parti cruciali una di queste appunto è l'umiliazione che
i nostri aguzzini ci infliggevano, e per loro era facile visto il numero
di guardie, erano tanti, molti confronto a noi, ci facevano uscire dalle
aree in fila indiana e con la testa bassa in modo da non poterli vedere
in faccia. Ci urlavano ugualmente e ci davano colpi sulla schiena eppure
né io né gli altri eravamo sulla lista di quelli che dovevano
essere pestati, quelli della lista erano considerati più facinorosi
e dovevano essere puniti col dolore fisico, a loro idea. Ci chiudevano
ammassati in delle sezioni e nell'aspettare il nostro turno sentivamo
le urla strazianti degli amici usciti prima di noi, ma nel frattempo ci
avevano fatto spogliare di tutti i vestiti, nudi come vermi, e non ci
permettevano neanche di prendere il nostro vestiario che era sotto gli
indumenti di quelli che venivano fatti spogliare dopo di noi, questo mentre
gli aguzzini ci passavano sopra come nella moquette di casa loro; non
potevi reagire, non potevi fare nulla, dovevi stare nudo a subire i colpi,
pedate, cazzotti, i voli dalle scale senza dire niente con tutto che da
nudi i colpi si sentono di più.
3° fase, quella del pestaggio: infatti, come
ho già detto, noi non eravamo nella lista nera e ci siamo salvati
rispetto ad altri amici. Quelli sfortunati, che per idea di non si sa
bene chi erano considerati i più facinorosi, dovevano essere torturati
oltre che picchiati; ricordo che uno di questi doveva tenere una mela
con la nuca pressata sul muro, mentre qualcuno gli strappava i peli del
pube, se la faceva cadere lo massacravano di colpi ma naturalmente la
mela cadeva puntuale e allora giù con i colpi. Un altro veniva
buttato dalle scale da piano a piano e ad ogni piano, ad aspettarlo, c'erano
le guardie per dargli la sua razione di colpi. Dimenticavo di dire che
questi della lista erano tutti ammanettati, buttati a terra sul pavimento
oltre al sangue mischiato con feci c'erano tanti capelli strappati dalla
radice, a raccoglierli tutti ci si poteva aprire un negozio di parrucche.
Una volta ridotti a stracci umani i detenuti
picchiati venivano fatti passare nella rotonda della prigione in modo
che il comandante Tomassi e la direttrice Di Marzio potessero ammirare
dalla loro postazione quanto il raid stesse riuscendo alla perfezione.
Il pestaggio fu lungo e interminabile e durò
un paio d'ore, ma come dimenticare le urla, il rumore di costole rotte
sotto i colpi e le suppliche di perdono? Una cosa tengo a precisare: le
rappresaglie e qualche altro pestaggio durarono diversi giorni fino a
quando cioè molti di quei secondini furono denunciati. Però
molti altri di quei secondini ci sono ancora e li vediamo ogni giorno,
eppure i loro nomi sono stati fatti al magistrato ma lavorano a San Sebastiano
come se nulla fosse. Io spero solo dopo il processo di non trovarmeli
più qua, perché sono sicuro che le conseguenze per noi sarebbero
molto peggiori.
Un detenuto di San Sebastiano
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Lettera
Sono un detenuto del carcere di Sassari, scrivo queste
poche righe per raccontare i fatti accaduti il 3 aprile del 2000 a S.
Sebastiano. Tra qualche mese ci sarà il processo alle guardie del
pestaggio, io spero che vengano condannate per lo schifo e l'umiliazione
che hanno fatto passare a tutti noi. Vorrei che tutto questo non si dimentichi,
perché se il 3 aprile qui dentro ci fosse stata una telecamera
forse qualcuno si sarebbe messo le mani in testa per ciò che hanno
fato. Tutto è cominciato all'ora d'aria, era circa l'una e mezza
io ed altri miei compagni stavamo nel cortile del centro e tutto sembrava
in apparenza tranquillo fino a quando sono arrivate alcune guardie che
cercavano un detenuto ma non trovandolo sono nuovamente uscite.
Più tardi (abbiamo visto tutto chiaramente
attraverso la garitta) le guardie trovavano e prendevano il detenuto che
precedentemente cercavano, e senza nessun motivo questi personaggi indegni
lo portavano via a calci e pugni. Loro erano più di 10 ma in quel
momento non si pensava a contarli; la cosa più spaventosa è
stata quando davanti al nostro cortile passava il detenuto con tutti questi
personaggi che lo portavano via trascinandolo a terra a forza di botte.
Dopo che qualcuno dei miei compagni ha chiesto "perché tutto
questo? "si sono avvicinate un paio di guardie che ci hanno urlato
che problemi avevamo e che quello che stava succedendo non ci riguardava.
Dopo una decina di minuti sono tornate nel cortile dove avevano preso
il detenuto di prima e hanno preso un altro compagno riservando anche
per lui senza nessun motivo lo stesso trattamento. Allora quando abbiamo
visto per la seconda volta questo schifo qualcuno dei nostri compagni
ha chiesto nuovamente che cosa stesse succedendo e perché stavano
facendo questo, ma non ci e stata data nessuna spiegazione. Sono tornati
per la terza volta ma però questa volta nel nostro cortile, e anche
in questa situazione ci siamo resi veramente conto della cattiveria che
ci stavano facendo. Io credo che non ci sia niente di male nel chiedere
spiegazione del perché alcuni compagni vengano presi e pestati
a sangue (non sto esagerando) ma infatti chi ha chiesto queste spiegazioni
è stato preso e portato fuori dal cortile a calci e pugni e noi
non potevamo fare nulla. Non si può spiegare cosa sentivo dentro,
ascoltando le urla di dolore dei miei compagni. È; chiaro che queste
persone senza nessun ritegno erano tutte ubriache si vedeva senza ombra
di dubbio, per non parlare poi di chi era a capo di questi maiali, il
comandante Ettore Tomassi, lui godeva mentre vedeva e collaborava a tutto
questo. Ricordo bene poi che mentre ci facevano rientrare nelle celle
c'era un lungo cordone di guardie che ci urlavano di camminare a faccia
bassa, e lui il signor Tomassi diceva : "vi faccio diventare agnellini
in 15 giorni". Tutto questo è durato per più di due
ore, la cosa più orribile è stata quando ci hanno rinchiuso
dentro un braccio e le urla dei nostri compagni che sentivamo erano da
paura. Ho intravisto dall'angolo del cancello un detenuto che le guardie
buttavano per le scale a calci e pugni. Dopo di che ci hanno chiamati
uno per volta a rientrare nelle celle, nel mentre ci facevano spogliare
nudi, fare flessioni e al solito ci dicevano di non alzare la faccia di
fare in fretta, insomma ci stuzzicavano ancora di più per reagire,
ma non ostante questo stavamo zitti. Quasi tutti siamo stati accompagnati
a calci e schiaffi nelle celle, che le guardie stesse avevano ridotto
un porcile e volevano che tutto fosse messo in ordine in mezz'ora (non
sono bastati 3 giorni a renderle un pochino decenti). Ci tengo a precisare
che io non sono stato toccato, ma solo per un semplice motivo: la sera
stessa verso le 17:30 mi hanno chiamato a lavorare a me e altri detenuti
e per descrivere lo schifo che c'era in tutto il carcere non basterebbe
una biblioteca, tra sangue e tante altre cose che mi fanno schifo solo
a pensarci. Non so a quanto possa servire questo mio scritto ma spero
anche se ci credo poco che vengano condannati per ciò che hanno
fatto, ma come già scritto non ci credo, tra l'altro tanti di questi
continuano a lavorare in altri carceri e qualcuno è ancora qua.
Quindi è evidente che continuerà così.
Un detenuto del carcere di Sassari
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Lettera
Sassari 01 - 10 - 2001
Sono detenuto nel carcere di San Sebastiano dal 25
- 07 - 1998 e su richiesta di un amica faccio un resoconto dei fatti accaduti
presso questo carcere in data 3 aprile 2000, giorno in cui si verificò
il pestaggio di un centinaio di detenuti inermi da parte di oltre 100!!
Guardie di Polizia Penitenziaria che, con una freddezza paragonabile alle
squadriglie cilene oppure italiane negli anni di piombo, hanno messo in
atto questo brutale e ingiustificato pestaggio.
Tutto ha inizio due giorni prima; a causa dello
sciopero dei direttori delle carceri ci siamo trovati a dover stare per
tre giorni senza poter usufruire della spesa (sopravitto) che senza la
firma di questi ultimi non può essere autorizzata. Per spesa non
si intende solo prodotti alimentari o per l'igiene ma beni di prima necessità
tra cui il più importante l'acqua.
Tra l'altro non si potevano avere ne il vino
e le sigarette e se consideriamo che il 10% dei detenuti di questo carcere
sono dentro per problemi di droga e di " disadattamento sociale"
si può capire come la tensione sia arrivata subito alle stelle.
Non è stato fatto comunque nessun tipo
di sciopero violento ma solamente una manifestazione pacifica con "
battitura" delle sbarre con le gavette, in poche parole tanto casino
e niente violenza o danneggiamenti, come possono testimoniare i numerosi
cittadini di Sassari e le tivù accorse davanti al carcere attirate
dall'assordante rumore delle gavette battute sulle sbarre.
Forse tutto ciò non è piaciuto
alla nostra direttrice Dott.ssa Cristina Di Marzio che ha pensato bene
di fare una rappresaglia degna della migliore delle vendette mafiose.
La mattina del 3 aprile era uguale alle altre
e niente lasciava presagire che dopo alcune ore sarebbe successo un casino
di quelle dimensioni.
Addirittura molte guardie passavano per le celle
ad incitarci a continuare a "bussare" con le gavette, dicendo
che erano anche loro dalla nostra parte, invece i bastardi stavano preparando
l'ambiente per le 100 guardie che già da ore affollavano lo spaccio
del carcere, ubriachi ed esaltati.
Alle 13:00 siamo scesi all'aria e tutto sembrava
tranquillo, poi all'improvviso si è affacciato alla finestra della
cella un nostro compagno, gridando a un altro detenuto che era all'aria
con noi, che le guardie lo cercavano e che avevano preso il fratello e
lo stavano picchiando.
Noi sentivamo le voci e le grida del fratello
di questo detenuto, però pensavamo fosse soltanto un caso isolato.
Dopo una decina di minuti hanno aperto il cancello dell'aria e sono entrate
una ventina di guardie, quasi tutte mai viste ma con modi bruschi, al
loro comando D c'era l'Ispettore Canu, in servizio a Sassari, con un elenco
in mano che noi ancora non sapevamo di cosa si trattasse.
Ci hanno tutti squadrati e hanno preso un detenuto
di Sassari sui 45 anni che era arrestato da pochissimo tempo e niente
poteva aver fatto. Dopo averlo preso di forza lo hanno portato fuori dal
cortile nel tunnel che porta fin quasi dentro il carcere. Ci siamo abbassati
e abbiamo visto che il tunnel era pieno di guardie, 50 forse, ed hanno
iniziato a colpirlo con calci e pugni fino a farlo svenire, e una volta
rinvenuto è iniziato tutto da capo fino a farlo svenire nuovamente.
Dopo dieci minuti sono entrati di nuovo nel cortile, hanno preso un altro
detenuto e malgrado le sue suppliche al suo capo servizio, Brigadiere
Casu, anche a lui è toccata la stessa sorte. Tra di noi qualcuno
ha provato a lamentarsi per questo trattamento dicendo che non potevano
trattarci come animali e per questa frase alcune guardie "straniere"
volevano picchiarlo ma sono state fermate dall'ispettore Canu perché
non era nella lista. Da quella frase abbiamo cominciato a capire che era
in atto una vera e propria rappresaglia. Dal cortile destinato a noi,
tramite un vetro, vediamo il passaggio di detenuti di altri bracci e piani.
Anche qua la stessa musica, colpi gratuiti a tutti come è capitato
ad un compagno che quando ha visto picchiare un altro detenuto ha gridato
"lasciatelo bastardi", questi sono rientrati, l'hanno preso
e gli hanno dato una "sussa" come ad una bestia, solo per quella
frase, dato che non poteva aver fatto niente in precedenza, essendo arrestato
da pochi giorni. Li abbiamo visto colui che si è professato il
nostro dio, il famoso uomo con lo spolverino bianco che ci ha terrorizzati
per tutto un mese, quel bastardo dell'ispettore Ettore Tomassi. Dopo un
po' hanno iniziato a farci rientrare dentro l'istituto e niente di quanto
accaduto ci avrebbe fatto immaginare quello che avremo visto, e per alcuni
subito. Già dal tunnel ci rendemmo conto che stava accadendo qualcosa,
dato che eravamo circondati da guardie il tipico"cordone", che
per noi non è entrato in funzione; una volta entrati dentro amo
visto guardie in ogni posto, se si considera che di solito ci sono 4-5
guardie, il giorno saranno state circa 150 comprese quelle in servizio
a Sassari. I detenuti erano tutti rinchiusi dentro bracci non adibiti
ad uso celle, in infermeria o in chiesa. Si sentiva un casino madornale
tra le grida di dolore dei detenuti, le grida di esaltazione delle guardie
e il rumore delle nostre celle che venivano sistematicamente distrutte.
Noi fummo chiusi nel braccio "del metadone" e da li oltre a
sentire si vedeva anche parte di quello che stava accadendo.
Mentre guardavo, stando attento a non farmi beccare
ho visto un detenuto di Alghero che dopo essere stato pestato da circa
10 secondini è stato lanciato "nel vero senso della parola"
dalle scale per arrivare al primo piano dove gli e stato riservato lo
stesso trattamento e da li lanciato nuovamente al piano terra dove c'erano
altre guardie. Io già non vedevo più niente ma non penso
che queste ultime l'abbiano trattato diversamente. Questo trattamento
è toccato anche ad altri detenuti che non ho potuto riconoscere
tante erano le guardie che infierivano su di loro. Dopo alcuni minuti
sono stato costretto ad allontanarmi dal cancello e non ho potuto vedere
altro di quello che accadeva. Dal braccio ci chiamavano cella per cella
e anche in questa situazione non cambiava niente da prima e cioè
colpi. Colpi se guardavi, colpi se alzavi la testa, colpi se eri lento
e colpi se eri veloce, ma soprattutto colpi se eri nella "lista".
Eravamo circa 30 detenuti dentro questo braccio e di questi almeno 15
sono stati pestati a sangue e tutti spogliati e lasciati nudi nei bracci
dove non mancava qualche calcio in culo, schiaffi o spintoni. La nostra
cella è stata l'ultima ad uscire dal braccio, e pensavamo che fosse
per un trattamento particolare dato che è quella che più
si affaccia sulla strada e abbiamo comunicato con la gente fuori facendo
un casino niente male. Ci hanno fatto uscire uno ad uno e fatti spogliare,
fare le flessioni e questa è stata la peggiore delle umiliazioni,
fare flessioni nudi davanti a decine di guardie che ridevano e sfottevano
e noi che non potevamo parlare e dovevamo stare faccia al muro.
Ancora nudi ci hanno fatto andare verso le celle
e nei bracci c'era tutta la roba delle celle buttata a terra e naturalmente
distrutta. Mentre cercavamo di vedere se trovavamo qualcosa di nostro
ci hanno strattonati e spinti, per poi riaccompagnarci in cella e trovare
le sorprese. Non appena dentro ci accorgiamo che siamo tre anziché
quattro, mancava un compagno che è rientrato circa dieci minuti
dopo. Inutile dire che i dieci minuti fuori dalla cella li ha passati
a prendere colpi, infatti non appena dentro abbiamo accertato che era
tutto un livido, aveva pedate in tutte le parti del corpo, per non parlare
dei pugni e dei calci. Tornando al discorso della cella abbiamo trovato
tutte le cose buttate al centro, vestiti, pasta, riso, frutta, verdura,
libri, immagini sacre e tutti gli oggetti personali.
A giudicare da come tutto fosse distrutto e zozzo,
abbiamo dedotto che dopo avere ammucchiato tutto al centro, ci sono saltati
sopra fino a rompere tutto.
Ci hanno rubato e distrutto tutto, dai fornelli
alla dama, dal pentolone alle carte, documenti posta e fotografie, senza
restituirci niente malgrado le promesse del comandante. A questo punto,
mi pare fossero le 16:45, sono entrate in cella sei guardie tra cui un
"bestione" che parlava con accento "continentale"
che ci ha minacciato di pestarci se entro 15 minuti la cella non fosse
stata ordinata e pulita. Ci sono voluti due giorni a sistemare il casino
che hanno fatto, figurarsi farlo in 15 minuti. Naturalmente le umiliazioni
e gli abusi non finirono quel giorno ma continuarono per tutto il mese
di aprile e primi di maggio, cioè fino al giorno del loro arresto.
Purtroppo non tutti i secondini presenti il giorno
del pestaggio sono stati arrestati, infatti molti sono in servizio anche
adesso ed alcuni hanno tentato di fare ritrattare i vari detenuti che
li accusavano. Questo è tutto quanto riguarda la mia esperienza
del 3 aprile, posso ritenermi fortunato di non essere stato vittima degli
aguzzini e delle loro violenze.
Questa è naturalmente una sintesi ma sono
certo ci siano altre persone più adatte di me a raccontare quello
che veramente è successo, cioè le vittime del pestaggio
che si trovano in altri istituti. Le violenze e le umiliazioni continuano
tuttora e spesso si vedono o si sentono detenuti che urlano. Tra breve
ci sarà il processo contro le guardie accusate del reato commesso
il 3 aprile, e tutti qua sperano che vengano condannati ma sicuramente
verranno assolti, dato che ne lo stato ne chi lo rappresenta ha mai pagato
e mai pagherà.
Un detenuto del carcere di San Sebastiano
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Lettera
Sono un detenuto del carcere di S. Sebastiano; il
18-3-2000 mi è stata revocata la detenzione domiciliare che avevo
ottenuto con il subordine del programma nel sert di Alghero e mi hanno
portato nella casa circondariale di Sassari (S. Sebastiano). Dopo alcuni
giorni è iniziata una "protesta" dei detenuti per ottenere
il funzionamento del sopravitto e l'applicazione regolare dei colloqui
con i familiari, ma essendo in atto uno sciopero dei direttori, queste
attività non venivano svolte in maniera corretta. Alla protesta
non ho partecipato per il semplice motivo che mi trovavo in carcere solo
da pochi giorni ma comunque la ritengo legittimissima! Che non sarebbero
stati effettuati i colloqui con i familiari il 3 aprile del 2000, ne venni
a conoscenza la stessa mattina al ritorno da un udienza in tribunale tramite
una circolare affissa lo stesso giorno!? quel lunedì in tribunale
c'era mio padre che doveva poi farmi colloquio il pomeriggio, e quando
al ritorno in carcere ho letto la circolare, mi sono alterato (ma senza
offendere nessuno) dicendo che non vedevo la necessità di sospendere
i colloqui perché la direttrice era in sciopero. Dopo un po' mi
sono calmato e rassegnato all'idea di non poter incontrare mio padre.
Verso le 13:40 sono uscito all'aria come la maggior parte dei detenuti
ma dopo circa 15 minuti mentre ero nel secondo passeggio, dal cancello
ho visto un detenuto che veniva strattonato da delle guardie fino alla
fine del tunnel che porta all'aria. Sentivo le urla di dolore ed i colpi,
chiedeva spiegazioni! Che cosa aveva potuto fare per essere picchiato
in quel modo! A quel punto mi sono aggrappato alle sbarre del cancello
e ho iniziato a urlare di lasciarlo stare, di non picchiarlo più
e che cosa stesse succedendo! Ma continuavo a sentire le urla di dolore
mentre lo portavano via. Dopo un po' le guardie si avvicinarono al cancello
(Loriga Mario, Mura Pietro, Casu Mario e un altro che conosco ma non so
il nome) e Loriga mi chiamava: "Vieni, c'eri anche tu". Non immaginavo
cosa volessero mi avvicinai al cancello ormai aperto ma questo stesso
agente mi afferra per i capelli e gli occhiali da sole (che mi erano stati
prescritti dall'oculista) e mi tira fuori dal passeggio richiudendolo
subito dopo. Non capivo cosa stesse accadendo e chiesi spiegazioni all'agente
di cui non ricordo il nome, e lui con un paio di manette in mano mi dice:
"é cambiato l'orario delle traduzioni".
La cosa mi suonava strana ma mi sono fatto ammanettare
tranquillamente senza però essermi accorto prima che all'interno
del tunnel (largo meno di due persone messe a fianco) erano sistemate
una decina di guardie in anfibi e mimetica disposti in due file. Comunque
dopo essere stato ammanettato gli stessi agenti che ho indicato hanno
iniziato a schiaffeggiarmi e spintonarmi verso il tunnel mentre io opponevo
resistenza; ma l'agente Mura Pietro mi ha preso per le manette e trascinato
affinché le due file di guardie potessero farmi quello che in gergo
carcerario si chiama "S. Antonio". Tentai di correre per prendere
meno colpi ma quello che mi trascinava era troppo grosso e intanto qualche
altro da dietro mi tirava e picchiava. Non saprei dire quante botte ho
preso, ma erano tante! Dall'uscita del tunnel, risalendo qualche scalino
che porta al corridoio del transito, non riuscivo più ad alzarmi
in piedi dalle botte che ricevevo. Nel corridoio del transito era la stessa
cosa! Mimetiche grigie da tutte le parti che picchiavano senza alcun controllo.
Non riuscivo più a camminare ma Mura continuava a tirarmi per le
manette che mi laceravano i polsi fino ad arrivare alla rotonda dove vidi
perfettamente la direttrice M. Cristina Di Marzio in compagnia di una
figura anziana con un soprabito, i capelli brizzolati e occhiali scuri.
Solo dopo capii che si trattava del Provveditore Regionale Giuseppe Della
Vecchia. Io urlavo di dolore per i colpi che continuavo a ricevere, volevo
chiedere aiuto alla direttrice perché intervenisse! Ma visto il
suo atteggiamento impassibile nel vedermi picchiato come un animale ...
continuai a cercare di ripararmi come meglio potevo. Superata la porta
della rotonda che va al corridoio della matricola (anche esso pieno di
mimetiche grigie) sentivo le botte che colpivano me ma anche qualcun altro.
Venni trascinato fino all'ultima stanza dei colloqui, i tavoli erano accatastati
in un angolo e due detenuti erano a terra nudi ammanettati all'indietro
mentre diverse guardie li picchiavano con ferocia. Mi buttarono a terra,
ancora calci e pugni e mi ordinarono di spogliarmi. Le guardie che mi
avevano accompagnato fin la mi lasciarono nelle mani delle mimetiche grigie
e ancora calci e pugni! Si resero conto che ero ammanettato e quindi non
potevo spogliarmi ma qualcuno mi fece alzare per togliermi le manette
mentre altri continuavano ad urlare di tenere la testa bassa. Appena spogliato
completamente mi riammanettarono dietro la schiena e mi spinsero con la
faccia contro il muro. Dopo di me nella stanza entrarono altri 3 detenuti
ai quali venne riservato lo stesso trattamento. Con la faccia verso il
muro, con la testa che mi scoppiava dal dolore e sempre in apprensione
per i colpi che arrivavano sentivo le urla di dolore che provenivano dalle
altre sale colloqui. Fu in quel momento che vidi l'ispettore Tomassi con
uno spolverino bianco e con il distintivo appeso alla tasca. Si avvicinava
ad ognuno di noi e a tutti chiedeva se eravamo dei boss, che lui era il
nostro dio e che se ci sentivamo leoni ci avrebbe fatto diventare agnelli.
Mentre urlava queste frasi sconnesse distribuiva schiaffi e pugni a tutti.
Poi ci trasferirono chi a Oristano e chi a Macomer dove riconobbi uno
dei pestatori con il brigadiere Mattu (conosciuto anni prima al carcere
di Sassari) che pur vedendo le mie condizioni continuarono a pestarmi
ancora. I primi due giorni non ci permisero di uscire all'aria e con minacce
ci costrinsero a fare la richiesta per tagliarci i capelli. Anche il comandante
Cuccu, sfruttando il nostro stato psicologico, ci fece firmare un foglio
bianco dove a suo dire avrebbe poi scritto falsi motivi delle cause delle
nostre lesioni. Dal giorno in cui il sostituto procuratore Caria ha emanato
gli ordini di custodia cautelare per i responsabili del pestaggio, sono
visto dalle guardie come un pentito e trattato dagli altri detenuti discriminatamente.
Mi trovo ancora nel carcere di Macomer lontano dai miei cari che sono
impossibilitati a venire a trovarmi per mancanza di mezzi. Per ora voglio
chiudere qui questo racconto altrimenti il blocco che sto utilizzando
non basterebbe a scrivere tutto quello che ho dovuto subire in questi
anni. Voglio dire solo un ultima cosa: ho commesso un reato! Sto scontando
la mia pena! il carcere dovrebbe darmi la possibilità di capire
che una volta fuori da queste mura dovrei vivere lavorando per poter avere
un futuro! Ma se il carcere è vendetta e non giustizia! Se il carcere
è repressione e non reinserimento! Se i primi a commettere reati
sono coloro che si nascondono dietro le false istituzioni create da uno
stato corrotto e imperialista! Che cosa diventerò quando finirò
di scontare la mia pena... ?!
Un detenuto di S. Sebastiano
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Questi i fatti: in occasione di una protesta interna
al carcere, esplosa spontaneamente a causa delle insostenibili condizioni
di vita all'interno dello stesso, aggravate dal fatto che, essendo in
atto la sostituzione o uno sciopero della direttrice, sarebbero stati
sospesi per alcuni giorni "servizi aggiuntivi" come il "supplemento
spesa" allo spaccio (ossia la possibilità di poter comprare
allo spaccio del carcere alimenti oltre quelli passati dalla mensa), e
il ricovero ospedaliero (giudicate se questi servizi siano aggiuntivi
o innegabili), in più sono stati chiusi i rubinetti dell'acqua,
altra cosa forse superflua... Non è da tralasciare la situazione
di un presunto sovraffollamento di detenuti per cui si volevano effettuare
dei trasferimenti in altre carceri dell'isola.
A tutto questo i prigionieri hanno reagito iniziando
la notte del tre aprile a sbattere utensili vari alle sbarre e ad urlare
per denunciare il loro malessere pubblicamente.
L'amministrazione per tutta risposta ha fatto
intervenire le guardie speciali: G.O.M. (Gruppi operativi mobili della
polizia penitenziaria, una struttura di intervento rapido, come tutte
le polizie, ma non con compiti punitivi, giustificabili con situazioni
di difficoltà e criminali impegnativi da gestire), per ristabilire
l'ordine costituito. In realtà sono bastardi picchiatori che abbiamo
già visto in azione anche a Genova. Attualmente è in corso
il processo contro chi ha deciso o si è reso partecipe al pestaggio
dei prigionieri, ma come avrete letto nelle testimonianze tutti questi
"personaggi" sono liberi e continuano a lavorare all'interno
delle carceri. Il 3 aprile del 2000 erano presenti: la direttrice Maria
Cristina Di Marzio, il Provveditore regionale del Ministero Di Grazia
e Giustizia Giuseppe Della Vecchia, il medico Adamo Antonio Salvatore
Mario, il comandante delle guardie Ettore Tomassi e gli sbirri.
MANCU VOS CURRAT SA JUSTISSIA 'E SU POPULU!
Fonte: Dossier San Sebastiano, diffuso il 17 luglio 2002 da: victoria
siempre, siempre_victoria@hotmail.com
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