Riportiamo un vecchio scritto di Luigi Berlinguer, apparso sulla Repubblica del 28 settembre 1988, ai tempi in cui era rettore dell'università di Siena e intellettuale di spicco dell'area del PCI.
Particolarmente interessanti e illuminanti appaiono i giudizi sferzanti che il Berliguer di allora rivolge anticipatamente al Berliguer di oggi (o di ieri). Egli infatti si può dire che condanni con asprezza tutta la sua futura politica scolastica, in particolar modo l'aziendalismo (che il nostro ha sempre sfacciatamente negato di aver introdotto) e la privatizzazione, le cui porte il governo di centrosinistra ha abbondantemente spalancato con la decentralizzazione di Bassanini, la legge di parità e recentemente l'avallo ai buoni-scuola.
Ma l'ambiguità di Berliguer è già tutta presente in questo vecchio scritto, aldilà di queste annotazioni critiche del secondo paragrafo. Soprattutto dove anticipa qual è il soggetto maggiormente interessato e favorevole a un'opera riformatrice del sistema scolastico italiano e che sarà il maggior partner del governo in molti settori: la Confindustria. In questa ambiguità rientra anche il richiamo alla crescita economica del paese e alla sua competitività che di anticapitalista, come sarebbe lecito aspettarsi da un comunista, ha veramente assai poco.
Un'ultima annotazione sulla retorica e antiquata immagine della cultura che il futuro ministro della P.I. ha in mente: "solenne, rigorosa, severa". Quanto di più moderno e appassionante ci possa essere per un ragazzo delle nostre scuole, costretto troppo spesso a sopportare, date queste premesse, la noia quotidiana della vita scolastica.HO VISSUTO momenti di intensa emozione domenica scorsa a Bologna, alla cerimonia conclusiva delle celebrazioni del nono centenario e alla firma della carta delle università europee. C'era l'alta accademia di tutto il mondo, quella mattina, nella mirabile cornice di Piazza Maggiore. I più qualificati rappresentanti istituzionali della cultura e della scienza mondiali, ivi convenuti, erano testimonianza tangibile della sovranazionalità del sapere, ed intenso veicolo anche per i nostri appuntamenti di integrazione europea.
È stato un solenne messaggio di grande valore morale. Il rigore e la severità degli studi hanno così parlato al paese, hanno ribadito la pregnanza civile e la valenza economica dell'università per una società moderna, le sue esigenze di libertà e di autonomia, l'imprescindibile necessità che uno stato che si rispetti destini ad essa le risorse necessarie, anche ingenti, per tutelarne - appunto - libertà ed autonomia.
Mi sono domandato se tutti gli ambienti politici hanno presente questa verità divenuta ormai elementare: se si vuole crescere economicamente, oggi, bisogna investire in ricerca e insegnamento, nell'università e nella scuola, che sono ormai risorse primarie della società. Nel nostro governo mi pare che si manifestino invece tendenze opposte. Singolare davvero, quando si osserva la crescita di consapevolezza della Confindustria in proposito, più volte presente nei discorsi dell'ing. Lombardi e dello stesso avv. Agnelli in questi giorni proprio a Bologna. Al contrario, mi addolora profondamente constatare da tempo la caduta di sensibilità del movimento sindacale ed il suo lungo silenzio su questo tema.
Eppure è chiaro ai più che, per crescere, una società deve investire nell'università e nella scuola; deve sostenere materialmente e moralmente i loro operatori nello svolgimento del delicato compito di studiare ed insegnare. L'attività educativa è praticamente impossibile senza vocazione e motivazione. Non ci si può dedicare all'insegnamento con animo distratto o rassegnato, con la sensazione di essere tollerati o - peggio - combattuti. È regola politica elementare adottare tutte le misure possibili perché i docenti siano motivati nel proprio lavoro formativo, nell'espletamento di questo servizio così indispensabile al paese.CHE cosa sta succedendo invece? Qualche mese fa, in margine all'agitazione degli insegnanti della scuola secondaria per ottenere un adeguato riconoscimento retributivo, si è scatenato un vero e proprio linciaggio della categoria, additata al generale ludibrio solo perché non più rassegnata a tollerare stipendi vergognosi. Si è persino pensato di caricare sul paese intero un'imposta ad hoc per pagare gli aumenti retributivi agli insegnanti, rei in tal modo di aggravare con la loro ingordigia il carico fiscale degli italiani. E poi si è detto che si vuole spedire un po' di professori a fare i bagnini o i guardiani dei fari.
Di recente sono ripartite - con più virulenza che mai - le fantasie sulla "privatizzazione", ammantate di modernismo e celate dietro un inaccettabile disfattismo sul presunto sfascio della scuola pubblica. Si confonde autonomia con privato, quasi che il concetto autonomia non fosse un concetto anche e corposamente pubblicistico. Si rimette in discussione il patto costituzionale che cattolici e laici democratici hanno stipulato per impegnarsi nella qualificazione e nelle garanzie pluralistiche della scuola pubblica. Si diffonde l'insana illusione che la salvezza educativa del paese sia nelle mani dell'efficienza di novelli managers privati (che tutti sanno abilissimi nell'attingere continuamente ai fondi dello Stato). Ora poi si racconta che le università - sprecone e inconcludenti - devono procacciarsi da sé i mezzi per lavorare, stravolgendo così una grande tradizione e valori radicati nella storia d'Europa, che hanno fatto libera (e per questo grande) la nostra ricerca. Reaganismo e confessionalismo d'accatto.
Sono solo alcuni esempi di una martellante campagna demolitrice che penetra insidiosamente nell'opinione pubblica con esiti infausti, di cui mi domando quanti suoi promotori siano consapevoli. Si provocano così sconforto e demotivazione fra i docenti, e se ne piangeranno le conseguenze. Comprendo che tutta questa bagarre fa parte di un gioco tattico di punzecchiamento fra i due maggiori partners rivali di governo, ma non posso fare a meno di notare che questo disinvolto strumentalismo rischia di sconvolgere i valori fondamentali della moderna convivenza sociale e dello Stato. Intollerabile.
Il delicato equilibrio su cui si fonda la funzione educativa non può reggere colpi d'ascia né diversivi così rozzi. Esso richiede al contrario che si ponga mano ai molti ed urgenti interventi di cui ha da tempo bisogno. In campo universitario la risposta più urgente è affidata anzitutto ad una rapida definizione legislativa del quadro istituzionale-ministeriale, che sarebbe assai negativo per l'università se tardasse ulteriormente nel suo cammino parlamentare. Ma è affidata anche ad una ben più cospicua disponibilità di risorse pubbliche, e insieme alla corretta disciplina dell'autonomia che responsabilizzi gli amministratori circa i risultati conseguiti, soprattutto di fronte all'opinione pubblica scientifica.IN campo scolastico, va ricordato che il nostro livello è complessivamente sulla media europea. Non mancano tuttavia varie urgenze ormai improcrastinabili, tra le quali segnalerei due carenze a mio avviso di particolare rilievo: l'educazione scientifica e le lingue straniere. Credo che su questi due fronti ci si dovrebbe impegnare con particolare decisione e tempestività, specie in vista del traguardo europeo, per superare un difetto tradizionale della nostra scuola. Le nostre istituzioni educative sono gravemente carenti di cultura e pratica sperimentale e con esse di attrezzature, laboratori, di sostegno tecnico, capaci di diffondere adeguatamente la conoscenza scientifica e quella strumentale delle lingue straniere moderne, in un'azione che non si limiti all'insegnamento tradizionale e scolastico, ma coinvolga gli studenti con adeguate metodologie sperimentali e di diretto apprendimento.
Ho fatto solo alcuni esempi di contenuto fra i tanti che si potrebbero fare, per affacciare in concreto un terreno costruttivo di azione politica per la scuola, senza diversivi e senza diffondere scoramento e demotivazione.