Professionalità o egualitarismo?
Risposta ad Antonio Silvagni, di Danilo Molinari, ITC "Gadda", Paderno Dugnano (MI)

 

Nella sua analisi dal titolo "Gli Stipendi, la professionalità, gli insegnanti" (vedi aggiornamenti al n. 2 di Filorosso), Antonio Silvagni lamenta che "questione salariale e professionalità dei docenti sono due punti di un dibattito in corso che generalmente vengono tenuti distinti", ed auspica che vengano considerate "complementari e inscindibili della posizione e del ruolo dei docenti". Svolge quindi un'analisi sistematica per sostenere una tesi simile a quella portata avanti da ampi settori di Alternativa sindacale - i cui esponenti Antonio cita ampiamente - e per certi versi fatta propria ora anche dalla maggioranza della CGIL scuola: la tesi cioè secondo la quale vi è certo una questione salariale generale da sanare, ma che ciò deve avvenire senza sacrificare il riconoscimento di una professionalità differenziata e diversificata soprattutto in termini di impegno ed energie profuse per una didattica di maggior qualità (disponibilità a un orario potenziato, aggiornamento, ecc.).

Per sgomberare il campo da ogni equivoco, premetto di essere un iscritto alla CGIL scuola e militante di Alternativa sindacale, ma di non riconoscermi affatto in queste posizioni. Sono un insegnante di scuola superiore (e la mia esperienza come la mia analisi risentono dei limiti di questa parzialità di veduta) che si reputa abbastanza coscienzioso (in passato sicuramente più coscenzioso), disponibile all'impegno, che si è aggiornato quando ancora non era obbligatorio per il passaggio di gradone seguendo seminari, dibattiti e cicli pluriennali di approfondimento didattico. Nonostante ciò sono un convinto assertore dell'egualitarismo salariale, per le ragioni che ora cercherò di esporre, e un accanito avversario di qualsiasi tipo di differenziazione, per merito o impegno che sia.

Anzitutto Antonio, affrontando il problema della bassa retribuzione, è convinto che "essa genera sconforto e demotivazione in alcuni, alibi ad impegnarsi sempre meno in moltissimi altri, indifferenza in altri ancora" e conclude che "il risultato complessivo di tali reazioni soggettive consiste in un decadimento rapido del livello dell'insegnamento". Egli cioè - mi corregga se sbaglio - reputa scadente la qualità della scuola italiana, attribuendone la responsabilità ai bassi salari e cioè in ultima analisi agli insegnanti che danno in relazione a quanto ricevono: poco in cambio di poco. Più in là nell'analisi si scopre che non è così per tutti, ma che c'è anzi una parte minoritaria del corpo docente che, pur di fronte a questa ingiusta e scandalosa realtà, ha in tutti questi anni reagito e ancora reagisce con un alto senso di responsabilità e sacrificio, per il bene di una istituzione - la scuola - e di una finalità - l'educazione dei giovani - e che non può essere trattata alla stregua dei demotivati, degli indifferenti o degli imboscati di cui sopra. Discorsi del genere io personalmente li ho sentiti troppe volte e da troppe persone, e sarebbe quindi bene cercare di dare una quantificazione oggettiva a quegli avverbi in sé eccessivamente generici: in altre parole quanti sono gli "alcuni", i "moltissimi altri" e gli "altri ancora"?

Io debbo ritenere che questa di Antonio sia una percezione soggettiva, largamente condivisa nella categoria, e che va oltre la categoria stessa e attiene alla rappresentazione del lavoro e dei lavoratori che i lavoratori stessi si fanno: l'insegnante crede che il collega lavori meno o peggio di lui (basti pensare a cosa dicono i maestri e le maestre di professori e professoresse e viceversa!); gli insegnanti (e gli studenti) sono convinti che i collaboratori scolastici facciano poco o nulla; ... i cittadini (tra cui operai, impiegati, bottegai, ecc.) sostengono che gli insegnanti lavorano poco, che i tramvieri sono sempre in sciopero, che i vigili se ne stanno rintanati nei bar da cui escono solo per multare chi lavora, ecc. ecc.

Ma lasciamo da parte le altre categorie e parliamo degli insegnanti. Se andiamo a vedere le ricerche o i sondaggi, che a differenza delle percezioni soggettive hanno dalla loro un minimo di oggettività determinata dalla massa dei dati, dalle loro aggregazioni e comparazioni, vediamo che questo senso comune diffuso altro non è se non una forma di pregiudizio che spesso serve a giustificare le posizioni differenzialiste.

Ad esempio, l'Ansa del 9 ottobre 2000 (reperibile nella sezione "stampa" di Filorosso) dà notizia di un rapporto sul gradimento delle prestazioni degli insegnanti delle superiori, elaborato da Databank intervistando un campione di genitori con figli che frequentano le secondarie superiori. Tra tutte le componenti del settore scolastico (strutture, curricoli, attrezzature didattiche e scientifiche, attrezzature e pratiche sportive, ecc.) gli insegnanti rappresentano di gran lunga la più apprezzata, con un indice di soddisfazione pari a 83,3. "In particolare, ai genitori piacciono la disponibilità dei "prof" all'incontro con i familiari (88,2%), la competenza e capacità di legare con i ragazzi (84,6%) e la loro preparazione scientifica (85,1%). I voti più alti, nelle pagelle stilate dai genitori, vanno soprattutto ai docenti degli Istituti tecnici".

Claudia Petrucci in "Produttività della Scuola e valutazione dell'insegnamento" (Valore Scuola del 29 giugno 1989, reperibile sul sito del Coordinamento scuole in lotta), cita ricercatori inglesi (Rutter) e statunitensi (Purkey e Smith) che ai fini della qualità del sistema scolastico individuano parametri "che hanno a che fare con la creazione di un'atmosfera di dignità, di rispetto reciproco e di cooperazione", che sul versante docente si traducono anche in "corresponsabilità degli operatori nelle decisioni e sui programmi, i metodi, il budget; lo spirito di corpo tra i docenti; un'atmosfera favorevole alla sperimentazione e alla verifica collegiale", ecc. Mi pare che queste caratteristiche cooperative vadano nella direzione di una collegialità di intervento organizzativo e didattico che meglio si coniuga sul versante salariale con l'egualitarismo che con la differenziazione. Sempre nello stesso articolo si viene a sapere che le ricerche giungono alla conclusione che ciò che davvero motiva gli insegnanti sono le "ricompense intrinseche": "un clima di lavoro cooperativo, un buon grado di autonomia professionale", ed inoltre che "la competenza media degli insegnanti sembra da numerose ricerche, addensata su valori piuttosto alti".

Una delle cause della demotivazione o del disinteresse degli insegnanti lamentati da Antonio a mio avviso sta proprio nella sfiducia nelle capacità della categoria e dei sindacati che la rappresentano di ottenere miglioramenti retributivi adeguati per tutti. Tanta più reale questa incapacità se, come lo stesso Antonio sostiene, aumenti salariali consistenti (europei) "non sono compatibili con le attuali cifre degli occupati nella Pubblica istruzione". In questa affermazione sono implicite due conseguenze: o si riduce il numero degli addetti o si comprimono i salari, prevedendo aumenti solo per alcuni di essi. Mi sembra questo il caso tipico del lavoratore che assume prioritariamente non il suo punto di vista, ma quello della controparte. È l'introiezione più o meno consapevole e condivisa da parte dei lavoratori della "politica dei sacrifici necessari" sostenuta a partire dagli anni '80 dai governi e concretizzata nella linea sindacale sancita dagli accordi del luglio '93. È la ormai vecchia politica del rigore iniziata col taglio della scala mobile, la politica degli "interessi nazionali", delle compatibilità di bilancio, dei parametri di Maastricht, volta a contenere costo del lavoro e spesa pubblica per mantenere ampi margini di profitto e un sistema economico nazionale competitivo. Non c'è fonte o indicatore che smentisca come ai tagli alla spesa pubblica corrispondano proporzionalmente enormi incrementi dei profitti (24% nell'ultimo anno). Ai lavoratori spettano i sacrifici; a ciascuna categoria la sua parte. Ma perché la pace sociale, necessaria al sistema economico, sia garantita è bene che essi non costituiscano una massa compatta. E in questa logica intervengono tutti i discorsi di differenziazione all'interno di ogni categoria, scuola e pubblico impiego compresi: gli aumenti legati alla produttività, alla qualità, al merito, alla disponibilità, ecc.

In questa direzione va anche la proposta conclusiva di Antonio. Egli dapprima sostiene che "le forme di incentivazione economica prevalse in questi anni non hanno prodotto risultati significativi in termini di miglioramento della motivazione non tanto per l'esiguità delle cifre stanziate, ma perché sono state incentivate soprattutto attività collaterali alla docenza". Quindi conclude ipotizzando "una ridestinazione delle risorse già esistenti come i 1000 miliardi del concorsone" a quegli insegnanti disposti ad essere presenti 30 o 36 ore settimanali (non è ben chiaro) a scuola per correggere compiti, preparare lezioni e materiali didattici, ricevere genitori e studenti, coordinarsi con altri colleghi, aggiornarsi via internet, impartire lezioni private e consulenze.

Non più dunque una differenziazione per merito, ma una diversa organizzazione dell'orario di lavoro con l'introduzione dell'orario differenziato.

Siamo d'accordo che il fondo di istituto, la prima forma di differenziazione salariale, è stato ed è un fallimento "anche" per le ragioni dette da Antonio. Ma poiché è difficile che in una scuola qualsiasi attività di gestione o di coordinamento possa esulare completamente dalla didattica (a meno che con questo termine non si voglia intendere la didattica tradizionale centrata sugli ambiti rigidamente disciplinari e sul rapporto "libero" e unidirezionale docente-classe) il fatto a mio avviso più grave è che qualsiasi attività di gestione o collaterale alla docenza ha inevitabili ricadute didattiche (o se si vuole pseudodidattiche) in cui vengono coinvolte molte più persone di quante siano quelle che in realtà vengono compensate con le risorse del fondo. In altre parole i "tanti" che continuano ad occuparsi "anche solo" della didattica, qualunque sia la sua forma, si sono trovati un aumento consistente di attività da espletare, spesso per il proliferare di progetti ideati per giustificare l'accaparramento delle risorse del fondo da parte di "pochi", con la conseguenza di un aumento generalizzato di carichi di lavoro senza un'adeguata corresponsione di salario.
Un'inchiesta dell'aprile '98 condotta da Alternativa sindacale scuola di Milano ("Cosa pensano le lavoratrici e i lavoratori della scuola su: condizioni lavorative, riforme, contratto, sindacato"), su un campione di 820 lavoratori di scuole di ogni ordine e grado del milanese rivelava che mediamente i docenti svolgono "143 ore mensili pari a quasi 36 ore settimanali". Di queste ore la docenza (le famose 18 o 22 ore) occupa solo il 54% del tempo effettivo di lavoro. Il resto se lo prendono nell'ordine le seguenti attività: preparazione lezioni e materiali per l'insegnamento (14%), correzione compiti (10%), aggiornamento e autoaggiornamento (6%), collegi, consigli, commissioni (6%), preparazione valutazioni, scrutini, ecc. (4%), adempimenti burocratici come registri, verbali, ecc. (3%), altro come gite, accompagnamenti, progettazioni, ecc. (3%).

In altre parole l'orario differenziato a 36 ore che propone Antonio per pochi volontari è già nei fatti la realtà obbligatoria per tutti; l'unica differenza è che certe attività vengono svolte in luoghi differenti dall'edificio scolastico (casa, biblioteche, centri culturali, ecc.) con maggiore libertà per i docenti di determinarne i momenti più agevoli e opportuni. Mentre correzione compiti, preparazione delle lezioni, ricevimento parenti sono attività che tutti i docenti svolgono obbligatoriamente e regolarmente, mi chiedo come (e soprattutto quando) un ipotetico "volontario delle 36 ore" possa coordinarsi con un collega ad orario normale (o ridotto), senza che quest'ultimo sia "costretto" a fermarsi a scuola qualche ora in più probabilmente senza essere pagato (perché i fondi, a quel punto, sono già stati destinati). Personalmente l'unica cosa a cui mirerei è il potenziamento o il reperimento di momenti e spazi idonei per la relazione anche individuale docente-alunno, assolutamente gratuita per lo studente, aldifuori della classe!
Se poi la scuola dell'autonomia e delle riforme come riconoscono tutti comporta un aumento generalizzato dei carichi di lavoro e una richiesta di maggior professionalità, la risposta più giusta e solidale non può essere quella di aumentare l'orario di alcuni, ma di ridurlo per tutti procedendo a nuove assunzioni, di favorire la formazione e l'aggiornamento con periodi sabbatici, di differenziare eventualmente le funzioni riconoscendo però l'unicità del ruolo e delle retribuzioni.

Il problema quindi è sempre quello delle risorse destinate nel suo complesso alla scuola: insufficienti, ora come ora, per dotare la scuola di strutture adeguate ai bisogni formativi ed educativi degli studenti; insufficienti per garantire un salario adeguato all'impegno profuso da tutti i lavoratori del comparto.

Un'ultima osservazione, che riprende l'incipit dell'analisi di Antonio. Diversamente da lui io credo che i piani del salario e della cosiddetta professione docente debbano essere mantenuti rigidamente separati. Si devono cioè distinguere e mantenere distinte le questioni "sindacali" dalle questioni "politiche". Troppo spesso infatti la percezione soggettiva di cui sopra, che spinge un insegnante e considerarsi più bravo o più impegnato di un altro, deriva dall'idea di scuola che uno ha, dai differenti valori pedagogici, educativi, politici a cui si ispira, rispetto a quelli di un altro (reazionario, autoritario, fascistoide, ecc.). È giusto battersi per affermare la propria idea di scuola, di qualità, di modello educativo, ma non è giusto legare a questa battaglia la rivendicazione di trattamenti stipendiali differenziati o più in generale di questioni salariali, quando troppo frequentemente avviene che coincida "chi lavora poco o male" con "chi non la pensa come me". Non dico che questo sia il caso di Antonio; le sue argomentazioni che pur non condivido non mi autorizzano a simili conclusioni. Il fatto però è che spesso, soprattutto in CGIL, si incontra chi sostiene e rivendica la sua differente posizione "politica" e ne fa discrimine di rappresentanza sindacale. In un recente incontro in camera del lavoro di Milano, un delegato sindacale ha espressamente dichiarato di non rappresentare e di non voler rappresentare chi non si ispira allo stesso suo modello di scuola, difendendo i processi di riforma in atto come pure le carriere e la differenziazione salariale.

Un rappresentante sindacale, e a maggior ragione un sindacato, a mio avviso deve rappresentare qualsiasi lavoratore per il solo e semplice fatto che è un lavoratore, aldilà delle sue opinioni politiche, morali e religiose, se non vuole incorrere lui stesso nella violazione dell'art. 1 dello statuto dei lavoratori. Sarebbe un bel paradosso!
Ecco perché una volta sconfitto il piano del merito non bisogna ora cadere nella trappola dell'impegno o delle pretese "capacità individuali o senso di responsabilità" di pochi che riuscirebbero, bontà loro, "a supplire alle diffuse inefficienze didattiche degli altri".

 

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