UNA STRADA C'È, È LA POLITICA DELL'ESSERCI

Quelle e quelli dell'autoriforma, ottobre 2001

1. Dall'orrore delle torri newyorchesi sembra essere di fatto iniziato un orrendo "tempo di guerra". Il tempo in cui o si è con qualcuno o con qualcun altro, o pro o contro, o vendicatori dell'occidente o complici del terrorismo.
Il rischio è che finiscano presto per scomparire gli spazi di democrazia, i luoghi della parola e del confronto, delle mediazioni e degli incontri ­ non è più tempo di discorsi, si dice, siamo in guerra.
Ma per noi, uomini e donne dell'autoriforma gentile della scuola, - ne abbiamo discusso a Bologna il 15 e 16 settembre - è invece proprio adesso fondamentale mantenere, riprodurre e moltiplicare i luoghi delle parole dei contatti degli incontri. E non per avere nicchie in cui sopravvivere, resistendo alla tempesta infinita, facendo passare la nottata. Ma spazi di relazioni generative di relazioni: spazi per il pensiero intimo e divergente, per far circolare esperienze, storie e comunicazioni vitali: il territorio della politica e della polis. Siamo insomma nel tempo della crisi, e insieme del bisogno, di politica e democrazia, che nel suo senso migliore vuol dire esserci in prima persona e non abdicare a dire quel poco o quel tanto di vero che si sa di dire.
Peraltro se qualcosa dimostra il mostruoso attentato di Washington e New York, è che non c'è salvezza negli scudi e nelle armi: se anche la più super delle super potenze (l'unica) è vulnerabile nel suo cuore "umano" e perfino militare, allora forse non c'è difesa armata possibile da chi mette in gioco, per dare morte, la propria vita, e vive come tutti, accanto a tutti, il mondo aperto della globalizzazione (nella fase non della "fine della storia", come era stato detto, bensì della geografia, come abolizione delle distanze nel tempo zero dei collegamenti e della comunicazione). Il grande villaggio, fabbrica di assemblaggi del postmoderno, l'ha portato in seno e forse persino finanziato quell'altro mondo, nemico, invisibile che semina morte, che attraversa gli stati nazione e che rischia oggi di produrre un nuovo tipo di guerra civile. Allora, se anche solo si cerca "sicurezza" ­ versione privatizzata della pace - occorre accettare il rischio del discorso e del confronto; occorre ridare occasioni alla politica, ricreare tessuti di relazioni e di conoscenza.
Certo si tratta di un'altra politica rispetto a quella che abbiamo conosciuto nel novecento ­ almeno nel novecento "ufficiale" dominante, maschile. Una politica che ha bisogno di ridefinire parole e linguaggio, che chiede sorveglianza e cura del discorso, per essere in conflitto senza essere contro, senza fare dell'altro il nemico, senza le forme distruttive del vincere o perdere.

2. Nell'autoriforma gentile della scuola abbiamo conosciuto un'altra forma del fare politica. Una forma esistenziale che parte dalla nostra soggettività, dal nostro appartenere a un genere, dall'essere uomini e donne attraversati da storie diverse, segnate da ordini simbolici diversi. Dalla nostra intera vita. L'esperienza dell'insegnamento ci ha fatto scoprire l'efficacia delle parole che aprono all'intelligenza delle cose, che non producono umiliazione, che non richiudono gli esseri umani e i problemi in gabbie troppo strette: solo a queste condizioni i conflitti servono a comprendere meglio sé e il mondo, ad illuminare le zone grigie interne a ciascuno e a ciascuna per conoscerle e affrontarle.
Le relazioni che abbiamo costruito nell'autoriforma sono culturali, politiche, professionali, umane: dunque attraversate dalla differenza, dunque appassionate, difficili, laboriose. Ma abbiamo vissuto conflitti contenuti in una trama relazionale, non la politica delle maggioranze e minoranze, delle "linee" e delle piattaforme da diffondere alle masse. Siamo stati disseminati e "orizzontali", senza grandi organizzazioni, strutture permanenti, deleghe. Era ed è l'invenzione della politica delle donne, che ha attraversato il novecento, e si è incontrata, oggi, nei luoghi più diversi con uomini che hanno avuto anche altri percorsi e una molteplicità di storie. Per noi della scuola ha significato la consapevolezza di come il nostro lavoro sia intriso di soggettività, relazioni e cura: non riducibile a tecnica di trasmissione-misurazione di contenuti neutri, buoni per sogni di onnipotenza e di controllo.

3. Oggi ci sembra che questa esperienza di riflessione sulle proprie pratiche nei luoghi in cui si vive e lavora, cioè si esiste politicamente, dando parola ad un sapere di sé e del mondo costruito in uno spazio pubblico e in un tessuto sociale, possa uscire più allo scoperto per dire che è possibile cambiare le forme della politica, che è possibile una autoriforma della politica.
I venti di guerra spazzano la società, spezzano le parole, ammutoliscono. Chiedono solo schieramento, arruolamento o fuga, potere e contropotere. Noi pensiamo invece che è possibile ripartire da una politica dell'esserci, dal far politica come fare società, polis, costruzione di luoghi pubblici di relazioni significative, radicate nei nostri corpi sessuati e nelle nostre storie di vita. Luoghi di lavoro e non lavoro, spazi per relazioni ravvicinate e aperte alle contaminazioni, territori fondati sulla diversità e la pluralità, sottratti alla legge privatistica del mercato e a quella di massa della militarizzazione. Pratiche linguistiche capaci di trovare parole che lascino spazio all'altro, che non abbiano la presunzione di riempire tutti gli interstizi. Pratiche di un discorso capace di regolarsi in relazione, senza affidarsi a strutture permanenti che poi rischiano di occupare tutto lo spazio, forme tradizionali di rappresentanza dietro le quali sparire, non esserci. Già nel "movimento dei movimenti" che ha riempito Genova, e in un certo senso anche nelle vicende successive, abbiamo visto come la società ­ delle associazioni, del volontariato, delle professioni: del lavoro in relazioni significative - abbia mostrato la sua politicità e autonomia. Medici, avvocati, infermieri, giornalisti hanno fatto del loro lavoro il loro esserci politico. Oggi ci sembra più difficile pensare che questa ricchezza di relazioni sociali possa farsi irreggimentare in qualche esercito, ridurre a spettatrice di guerre celesti o film dell'orrore; fermare e controllare nei processi di comunicazione sociale. Oggi si tratta di inventare pratiche di esistenza libera.
Secondo noi nel disastro di orrore e sangue che si alimenta del fanatismo, che si alimenta dell'odio, che si alimenta della disperazione di mondi cancellati dalla scena, è ancora viva la possibilità di ripartire da altre pratiche e altri rapporti, vitali, disseminati e profondi: dalla politicità dell'esistenza, dal tessuto di rapporti concreti che non riducono uomini e donne, bambini e bambine a masse da conquistare o bersagli da colpire, ma ne fanno il cuore di un altro mondo possibile.

 

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