Il cittadino extracomunitario che, spesso per la prima volta,
entra in una casa di reclusione italiana si trova ad affrontare
una realtà più dura del corrispettivo "collega" italiano.
A differenza di quest'ultimo, infatti, l'extracomunitario è abbandonato
a se stesso in quanto generalmente non ha una famiglia all'esterno
che lo possa sostenere anche economicamente. Anzi spesso le famiglie
in patria non vengono neanche avvertite dato che per molti (soprattutto
per gli appartenenti alle nazioni maghrebine) la detenzione costituirebbe
un motivo di vergogna e li screditerebbe agli occhi dell'intera
comunità. Pochi hanno la fortuna di essere aiutati da amici. Questi,
infatti, anche se in possesso di regolare permesso di soggiorno,
preferiscono comunque eclissarsi per timore di essere coinvolti
nella sventura dell'amico. .
Per tacere poi dei problemi legati alla pratica del culto religioso
(soprattutto per i musulmani), come il non poter consumare pasti
contenenti alimenti proibiti o la necessità di avere luoghi destinati
alla preghiera quotidiana. .
Da un punto di vista strettamente giuridico, la maggior parte
dei detenuti extracomunitari che si è rivolta allo Sportello legale,
tenuto anni addietro da chi scrive presso il II raggio del carcere
di San Vittore in Milano, ha sempre rammostrato la necessità di
farsi spiegare cosa dicevano le ordinanze emanate dai G.I.P. che
convalidavano l'arresto e disponevano contestualmente la custodia
cautelare. .
Visto che, infatti, raramente tali atti vengono tradotti nella
lingua d'origine, per motivi di economia processuale, dato che
i giudici si limitano ad accertarsi che l'imputato abbia inteso,
sia pur in maniera generica, il significato di quello che gli
sta accadendo, ci si trova di fronte a soggetti cui è in realtà
denegato il sacrosanto diritto di difesa.
Il cittadino extracomunitario non è certo in grado di capire il
linguaggio tecnico con cui sono scritte le ordinanze dei giudici,
nella maggior parte dei casi incomprensibili anche ai più esperti
imputati italiani, per cui il soggetto, che magari all'interrogatorio
ha risposto frettolosamente di essere consapevole di ciò che gli
accade, si trova poi a non aver neanche compreso quali siano realmente
le accuse a suo carico. Né può certo confidare sulle spiegazioni
dei difensori, soprattutto se d'ufficio, i quali spesso mostrano
poca pazienza di fronte alle inevitabili difficoltà di comunicazione.
.
Evidentemente, consapevole di tali problematiche, la legge n 332
dell'agosto 1995 ha aggiunto tre nuovi commi all'art. 94 delle
Disposizioni di attuazione del Codice di procedura penale, la
cui finalità sembrerebbe, infatti, quella di garantire all'imputato
detenuto (in particolare all'extracomunitario) la piena ed effettiva
conoscenza del provvedimento che costituisce titolo di custodia
cautelare. .
Il comma 1-ter del succitato art. 94 prevede che copia del provvedimento
che dispone la misura carceraria (anche quelli che rigettano un
riesame od una richiesta di revoca o sostituzione) deve essere
trasmesso al Direttore del carcere da parte del G.I.P. affinché
sia notificato all'interessato.
La direzione deve poi attivarsi perché tali provvedimenti siano
inseriti nella cartella personale del detenuto. .
Il comma 1-quater, sempre nella medesima ottica, prevede che il
detenuto ha sempre diritto a consultare la cartella personale
e di ottenere copia dei provvedimenti dell'autorità giudiziaria
in essa contenuti.
Il comma 1-bis prevede che all'atto del colloquio previsto dall'art.
23 del Regolamento d'esecuzione dell'Ordinamento Penitenziario,
o anche successivamente, il direttore o anche un operatore penitenziario
da lui designato deve accertarsi, eventualmente con l'aiuto di
un interprete, che l'interessato "abbia precisa conoscenza del
provvedimento che ne dispone la custodia" illustrandogli, ove
occorra il contenuto dello stesso.
E' quasi inutile osservare, oltre alla mancanza di un interprete
a disposizione del carcere, che il criminologo del raggio, di
turno in quel giorno, che si trova ad effettuare anche venti "colloqui
di primo ingresso" in una sola mattinata, non ha proprio il tempo
materiale di soffermarsi sugli aspetti giuridici del caso.
Tale adempimento, tuttavia, costituisce un vero e proprio obbligo
per la direzione, la quale non dovrebbe limitarsi ad un'informazione
burocratica, ma dovrebbe procedere ad un vero e proprio colloquio
anche e soprattutto al fine di consentire il detenuto di proporre
tempestivamente ed efficacemente la richiesta di riesame al Tribunale
della libertà, visto che il più delle volte l'interessato (soprattutto
l'extracomunitario) non ha adeguata assistenza tecnica al momento
dell'ingresso.
A tal proposito grandi perplessità suscita ancora la disposizione
del comma 1-bis che prevede che l'obbligo di verificare che l'imputato
abbia una precisa conoscenza del provvedimento possa essere adempiuto
"anche successivamente" al colloquio di ingresso: il termine di
dieci giorni entro cui debbono essere presentate le istanze di
riesame, viene di solito a decorrere dal momento in cui il soggetto
entra in carcere (tuttalpiù uno o due giorni dopo), sicché lo
slittamento del colloquio illustrativo rischia di vanificare totalmente
la funzione informativa dello stesso. .
Pur consapevoli della lodevole intenzione del Legislatore e del
carico di lavoro della direzione, occorre osservare tuttavia che
l'applicazione delle nuove norme è, a tutt'oggi, rimasta inesistente.
Vedi articolo sul "GRATUITO PATROCINIO"