Breve storia e alcune riflessioni sulla flessibilità del lavoro e
contrattazione individuale: il declino dei diritti di cittadinanza.
di Andrea Fumagalli
1. Premessa: breve e succinto excursus storico sul processo di
deregulation del mercato del lavoro in Italia.
Il processo di flessibilizzazione del mercato del lavoro in Italia è
iniziato a ``long, long time ago'', esattamente nel 1984, diciassette
anni fa. Tutto ebbe inizio con la legge n. 863, promulgata il 19
dicembre di quell'anno, il primo di una serie di regali di Natale, esito
del cosiddetto Protocollo Scotti sul costo del lavoro (1983), il
prototipo (inconsapevole?) della futura nefasta concertazione sindacale.
In quella legge, furono allargati i criteri per il part-time, introdotti
i contratti di solidarietà e i contratti di formazione-lavoro. Seguì
poi nel 1987, la legge 56 che diede la possibilità di estendere il
contratto a termine a tutti i settori.
Sul lato del salario e dei diritti sindacali, dopo il fallimento del
referendum abrogativo relativo al decreto di San Valentino del 14
febbraio 1984 emesso al Governo Craxi che riduceva l'incidenza della
scala mobile, ovvero il meccanismo automatico che difendeva il potere
d'acquisto dei salari dagli incrementi del tasso d'inflazione, ha inizio
in quegli anni il processo di revisione della stessa scala mobile che
sfocerà poi nell'accordo del 31 luglio 1992, che sanciva l'abolizione
degli scatti di contingenza. Al riguardo, ricordiamo che alla base di
quel (nefasto) accordo, accettato con tribolazione da Trentin, allora
segreterio generale della Cgil, in nome dell'unità sindacale e della
supina accettazione del Trattato di Maastricht, vi era la garanzia che
la Banca Centrale mai avrebbe provveduto ad una svalutazione della lira,
per evitare un incremento dell'inflazione, ora che i salari non
sarebbero sarebbero stati più protetti dal rincaro del costo della vita.
La storia ci racconta che poco più di un mese dopo, il 9 settembre 1992,
il Sistema Monetario Europeo (Sme) collassa e la lira comincia la più
grande svalutazione del dopoguerra (superiore anche a quella della
seconda metà degli anni Settanta: - 30% in un anno). La forte
instabilità valutaria e i vincoli posti dallo stesso Trattato di
Maastricht portano il governo, guidato da un altro socialista Giuliano
Amato a decretare una manovra finanziaria lacrime e sangue
dell'ammontare di 90.000 miliardi, la prima di una lunga serie di Leggi
finanziarie tese a smantellare lo Stato sociale per consentire il
rispetto dei parametri di Maastricht in materia di deficit pubblico e
inflazione. Ha inizio così il processo di convergenza verso
l'armonizzazione monetaria europea, il cui costo verrà esclusivamente
addebitato ai ceti del lavoro dipendente e precario, sia in termine di
organizzazione che di salario.
L'accordo sul costo del lavoro del 23 luglio 1993 (si conferma
l'abitudine di siglare accordi di concertazione prima che comincino le
sudate e attese ferie estive) espropria la determinazione del salario
nominale dal novero delle variabili contrattuali. A partire da quella
data a tutt'oggi, la dinamica del salario monetario viene infatti
predeterminata e vincolata al tasso d'inflazione programmato e quindi
non è più oggetto di contrattazione sindacale, almeno a livello
nazionale. Poiché, il tasso d'inflazione programmato è costantemente
inferiore al tasso d'inflazione effettivo, per tutti gli anni '90 si
assiste ad una rincorsa del salario per mantenere inalterato il suo
potere d'acquisto che non sempre ha esiti positivi. Anche nel caso, in
cui l'obiettivo viene raggiunto, grazie alla contrattazione integrativa
(sempre meno diffusa), il risultato complessivo è che tutti gli
incrementi di produttività e del Pil non vengono distribuiti al reddito
da lavoro ma sono ad esclusivo appannaggio dei profitti e delle rendite.
Insomma, se anche la torta si allarga, se tutto va bene, al lavoro va la
stessa fetta, e nella maggior parte dei casi, anche meno. Ciò spiega
perché il salario relativo (vale a dire, in rapporto alla ricchezza
complessivamente prodotta), che è l'unica misura corretta della
distribuzione del reddito, abbia visto una costante diminuzione negli
ultimi dieci anni per un ammontare superiore ai dieci punti percentuali.
Con l'accordo del luglio 1993 si conclude così il processo di
deregolamentazione e flessibilizzazione del salario monetario, iniziato
con il decreto Craxi nel 1984. Tutto sommato, è stato sufficiente un
breve lasso di tempo (meno dieci anni) per ottenere, con la complicità
dei sindacati confederali, l'agognato obiettivo confindustriale di far
sì che la variabile salariale venga completamente assoggettata alle
esigenze di profittabilità delle imprese. Non è ancora completato,
seppur ci si trovi a buon punto, il processo di espropriazione completo
del salario differito (ovvero di quella quota di reddito da lavoro,
accantonata mensilmente, sottoforma di liquidazione e contributi
previdenziali e sanitari). Ma l'attuale diffusione dei fondi pensioni
privati, la privatizzazione dei servizi sanitari e la discussione in
corso sull'utilizzazione del trattamento di fine rapporto (Tfr) per
finanziare gli stressi fondi pensionistici privati lascia ben poche
speranze per il futuro, soprattutto se si considera che nella gestione
di tali fondi sono implicati anche i sindacati confederali. Se oggi il
salario mensile è alla merce dei profitti industriali, domani il salario
differito sarà terra di conquista per le rendite finanziarie.
Maggior tempo ha invece impiegato il processo di flessibilizzazione
della prestazione lavorativa e la deregolamentazione del mercato del
lavoro. In primo luogo, è necessario ricordare la legge 146 del 12
giugno del 1990 sulla limitazione del diritto di sciopero, che sancisce
l'obbligatorietà del preavviso due settimane prima della dichiarazione
di sciopero e la garanzia del mantenimento dell'attività lavorativa per
i lavori di pubblica necessità, condizione preliminare per bloccare sul
nascere qualsiasi azione sindacale spontanea che non avvenga all'interno
dei parametri di concertazione sindacale. La legge 236 del 19 settembre
1994 ha aggiunto la possibilità di assumere lavoratori con contratto di
stage in apprendistato, la legge 299 del 16 maggio 1994 ha esteso l'uso
della mobilità e dei contratti di formazione-lavoro e disciplinato i
contratti di solidarietà (secondo i quali, i lavoratori, in parte, si
fanno carico, a loro spese, delle difficoltà economiche dell'impresa di
appartenenza). Nel frattempo, l'ennesimo accordo concertativi tra le
parti sociali (sempre sotto il cappello governativo del
Centro-sinistra), quello del 24 settembre 1996, denominato
eufemisticamente ``accordo per il lavoro'', consente, l'anno seguente,
l'approvazione della legge che più di tutte sancisce in modo definitivo
e irreversibile il via libera alla flessibilità totale della domanda di
lavoro da parte delle imprese, la legge 196 del 24 giugno 1997,
denominata ``pacchetto Treu'', dal nome del ministro del lavoro allora
in carica. In essa, si introduce il ``lavoro interinale'' (art. 1-11),
si estende l'uso dei contratti a termine (art. 12), dei contratti a
tempo parziale (anche per i titolari di laurea, con possibilità di
distacco dal pubblico al privato a costo zero per l'impresa privata,
art. 14), l'allungamento della durata dei contratti di formazione-lavoro
nelle aree depresse, art. 15), lo sviluppo dei contratti di
apprendistato, ecc., ecc.
Lo scopo dichiarato della Legge Treu è di flessibilizzare i parametri di
entrata nel mercato del lavoro, favorendo in tal modo l'occupazione. Di
fatto, invece favorisce un costante e crescente processo di sostituzione
del lavoro a tempo indeterminato con lavoro precario. Ed è infatti
questo l'obiettivo non dichiarato ma effettivo di questa legge, in
seguito alla quale si assiste al boom della contrattazione atipica,
soprattutto nella fase di entrata nel mercato del lavoro. Il
completamento della flessibilizzazione e deregolamentazione dei
meccanismi di assunzione arriva a totale compimento con la legge 469 del
23 dicembre 1997, che impone il decentramento e la privatizzazione del
collocamento e il predominio della chiamata individuale su quella
numerica.
Tale processo si innesta su un tessuto produttivo strutturalmente
flessibile caratterizzato da elevato decentramento, fondato su una
dimensione d'impresa molto limitata (più della metà della media
europea), con scarsa presenza pervasiva delle organizzazioni sindacali.
Ne consegue che in Italia, la quota di lavoro autonomo è più che doppia
rispetto all'Europa o agli Stati Uniti e che il numero dei lavoratori a
cui può essere applicato lo Statuto dei lavoratori è inferiore al 30%
dell'intera forza-lavoro. Se consideriamo i lavoratori parasubordinati
(ovvero, i co.co.co., collaboratori coordinati e continuativi, formula
lavorativa che resiste solo in Italia), i lavoratori autonomi
eterodiretti, le partite Iva, ecc., ecc., , il mercato del lavoro in
Italia si presenta come quello più flessibile d'Europa e, in tema di
tassi di mobilità, non ha nulla da invidiare a quello statunitense.
Questo triste primato è essenzialmente da imputare alle forze politiche
del centro-sinistra e alla concertazione sindacale, proseguita, dopo la
legge Treu, con il Patto di Natale del 1998 e lo sviluppo dei patti
territoriali e d'area.
Tuttavia, alle soglie del 2000, pare che tutto ciò non sia ancora
sufficiente. Una volta flessibilizzato il salario, deregolamentata il
meccanismo delle assunzione, occorre intervenire sui licenziamenti e
sulle stesse modalità concertative delle relazioni sindacali.
Su queste materie, è ancora il governo di Centro-sinistra, prima
presieduto da D'Alema, poi da Amato (sempre lui), a dare il là. Sarà poi
il neonato governo Berlusconi a continuare l'opera, con la presentazione
il 3 ottobre 2001 del libro bianco sul mercato del lavoro in Italia, nel
quale si tratteggiano le linee guida dell'intervento governativo vecchio
e nuovo.
Il gruppo di lavoro che redige il Libro Bianco è coordinato da Maurizio
Sacconi, attuale sottosegretario del Ministro del Lavoro Maroni, ma con
un passato da centro-sinistrista, e da Marco Biagi, docente dell'
Università di Modena, dell'area dei Ds, ed è composto da Carlo
Dell'Aringa, docente dell'Università Cattolica e segretario dell'Aran
(la Confindustria delle imprese pubbliche e dello Stato), di ispirazione
cattolica-popolare, Paolo Reboani, ricercatore Isae, da Paolo Sestito,
dell'Osservatorio del Ministero del Lavoro, già consulente per i
problemi del Mezzogiorno del fu governo D'Alema e da Natale Forlani, ora
amministratore delegato di Italia Lavoro (di proprietà pubblica, agenzia
statale per lo sviluppo occupazionale) ma ex segretario confederale
della Cisl. La composizione del gruppo di lavoro la dice lunga sul
rapporto di continuità che esiste tra il Libro Bianco di Maroni e il
passarto governo. Nel testo, oltre ad una dettagliata analisi del
mercato del lavoro in Italia, vengono proposte una serie di misure di
intervento che vertono su tre punti principali:
Incrementare la flessibilità di assunzione tramite l'introduzione di
nuova tipologia contrattuale di lavoro: il lavoro a progetto;
Sviluppare la flessibilità in uscita, tramite una revisione dell'art. 18
dello Statuto dei Lavoratori (Legge 300 del 20 maggio 1970): argomento
poi che diviene centrale nella delega interna alla Legge Finanziaria per
il 2002 in materia di riforma del mercato del lavoro;
Ridurre la contrattazione collettiva a vantaggio della contrattazione
individuale.
2. Dall'individualismo economico all'individualismo contrattuale: il
Libro Bianco di Maroni.
Le premesse:
``In Italia, i dipendenti si sentono estranei ad un coinvolgimento
dell'impresa in cui sono occupati. .... Il lavoratore non un semplice
titolare di un `rapporto di lavoro', ma un `collaboratore'. .... Esiste
un problema di `deficit culturale' che va sanato al più presto'' (p. 17)
``Un mercato del lavoro flessibile, al contrario di quanto spesso
temuto, può migliorare la qualità oltre che la quantità dei posti di
lavoro, rendendo più fluido l'incontro tra obiettivi e desideri delle
imprese e dei lavoratori in tema di caratteristiche della prestazione
lavorativa, consentendo ai singoli individui di cogliere le opportunità
lavorative più proficue ed evitando che gli stessi rimangano
intrappolati in ambiti ristretti e segmentati. I lavoratori necessitano,
in tale contesto, adeguate forme di tutela, ma queste devono agire
innanzitutto nel mercato, non operare contro il mercato'' (p. 22).
``In questi anni, ..., maggiore flessibilità e moderazione salariale non
sembrano aver portato ad uno spostamento a favore dei profitti lordi
nella distribuzione funzionale del reddito'' (p. 23).
``Il sistema di contrattazione collettiva ha mantenuto, ...,
caratteristiche di centralizzazione che si sono rilevate eccessive e
inadeguate ad assicurare quella flessibilità della struttura salariale
capace di adeguarsi ai differenziali di produttività e di rispondere ai
disequilibri di mercato. ... Essa produce norme che escludono la libera
pattuizione individuale e non lascia alcuna flessibilità alle parti''
(p. 24).
Il principi di fondo su cui si sviluppa il Libro Bianco e tutto il
processo di flessibilizzazione degli ultimi 15 anni si base sul primato
del libero mercato. Il mercato del lavoro è un mercato come tutti gli
altri, dove l'equilibrio è garantito dal libero incontro tra domanda e
offerta. Perché ciò avvenga occorre che vi sia piena flessibilità nella
domanda e nell'offerta di lavoro, in modo tale da consentire il
raggiungimento di un livello di salario in grado di garantire la piena
occupazione (flessibilità del salario).
La filosofia di questo approccio sta nell'individualismo metodologico,
ovvero quell'insieme di postulati che descrivono lo scambio economico
come un atto che avviene solo tra individui e non su basi aggregate o
collettive. L'individualismo economico è condizione necessaria e
sufficiente per garantire l'equilibrio economico generale e il massimo
benessere per tutti. Ne consegue che il principio regolatore del mercato
del lavoro deve essere l'individualismo contrattuale. Per raggiungere
ciò, occorre innanzitutto colmare il deficit culturale, di natura
ideologica, che ancora attanaglia buona parte dei lavoratori, che non si
rendono conto, che lavoro e capitale sono elementi paritari costituenti
il processo produttivo. Condizione propedeutica, infatti, perché domanda
e offerta di lavoro si esplichino in modo individuale, come una
qualsiasi attività di scambio tra agenti economici, è che
lavoratore/trice e impresa/imprenditore si muovino in ambiti di assoluta
parità, senza nessuna discriminazione aprioristica. Pertanto, qualunque
sia la forma contrattuale e giuridica che regola lo scambio paritario di
lavoro, essa deve svolgersi all'interno delle regola del libero mercato.
L'ambito giuridico di riferimento diventa così quello del diritto
privato e del diritto commerciale. Il diritto del lavoro e il diritto
pubblico o sono superflui o non devono avere nessuna voce in capitolo.
La contrattazione individuale è l'unico ambito che può regolamentare lo
scambio economico che avviene sul mercato del lavoro. Qualunque
intervento ad un livello sovra-individuale diventa distorsivo e quindi,
capitalisticamente, inefficiente.
Il processo di individualizzazione del rapporto di lavoro è in atto da
molto tempo nel nuovo paradigma dell'accumulazione flessibile,
soprattutto in seguito alla crescente presenza di lavoro cognitivo,
relazione, fondato sulle tecnologie di linguaggio (e non c'è nulla di
più individuale del linguaggio). Tale processo, non solo è implicito
nelle forme di lavoro autonomo, dove la contrattazione tra lavoratore e
committente è per definizione diretta e senza intermediari, non
essendoci formalmente un comando sul lavoro (rapporto di lavoro
indipendente), ma comincia sempre più a diffondersi anche all'interno
del lavoro subordinato (rapporto di lavoro dipendente).
La contrattazione integrativa aziendale, con la collaborazione
(inconsapevole?) dei sindacati confederali, ha favorito questa tendenza,
soprattutto laddove (ed è la maggioranza dei casi) essa si traduce in
forme di incentivi individuali che aumenta la disparità di trattamento
economico, di orario e di condizione tra lavoratori/trici con le stesse
qualifiche e gli stessi obblighi prescrittivi.
Il trasferimento dei diritti del lavoro e della cittadinanza dal piano
pubblico - costituzionale alla sfera privata diventa eclatante nel caso
del processo di regolazione in atto per quel particolare segmento del
mercato del lavoro costituito dalla forza-lavoro migrante.
Nella legge Bossi-Fini, la permanenza legale del migrante sul territorio
nazionale è subordinata all'esistenza di un ``contratto di lavoro''.
L'esistenza di un rapporto di lavoro è la condizione principale per
ottenere il ``contratto di soggiorno'', ovvero essere riconosciuto
soggetto di diritti civili (anche se non politici). In tal modo, il
permesso di soggiorno, ciò che Hannah Arendt definiva il ``diritto dei
diritti'' in quanto passaporto per la visibilità sociale e civile, è
vincolato dal contratto privato che si stipula sul mercato del lavoro:
contratto privato, in quanto il contratto di soggiorno, non essendo
illimitato, prevede la titolarità individuale di un rapporto di lavoro
temporaneo. E' facile immaginare quanto tale situazione renda
ricattabile il migrante e come il datore di lavoro possa disporre non
soltanto della forza-lavoro migrante ma anche della sua condizione di
civis.
Ciò che viene oggi proposto per i migranti, non tarderà ad essere esteso
a tutti i lavoratori /trici italiani. Il principio della contrattazione
individuale sul mercato del lavoro non solo consente la massima
flessibilità di assunzione e licenziamento, non solo favorisce il
dispiegarsi di ventagli retribuiti differenziati, non solo mina alla
radice qualsiasi possibilità di conflitto collettivo, ma soprattutto
sancisce il primato del rapporto economico su quello giuridico, erodendo
quello che è stato uno dei principi della rivoluzione francese: la
libertà della prestazione lavorativa, magari solo ``virtuale'' (in
quanto non sempre effettiva) comunque garantita dalla sfera del diritto
pubblico e costituzionale,. Se il lavoro è libero, se non esiste obbligo
al lavoro, allora il lavoro deve essere remunerato e il diritto
all'astensione dal lavoro (diritto di sciopero, ecc.), diventa diritto
costituzionale. Il lavoro schiavista e/o la servitù della gleba
giuridicamente non esistono più. I diritti civili sono garantiti
indipendentemente dall'attività lavorativa o non lavorativa
dell'individuo. Con riferimento alla Legge Bossi-Fini, tale distinzione
tende a non essere più valida.
3. Nuovi movimenti e nuove contraddizioni
Con il Libro Bianco di Maroni arriva a compimento l'intero processo di
deregulation del mercato del lavoro: un processo su cui si sono mostrati
concordi tutti i governi che si sono succeduti dai primi anni '80 in
poi, indipendentemente dall'appartenenza politica.
Si dipana così sotto i nostri occhi un disegno omogeneo e totalizzante
che tende a regolare la prestazione lavorativa unicamente sulla base del
rapporto di forza contrattuale tra singolo individuo e datore di lavoro.
Siamo all'essenza del rapporto di sfruttamento capitale-lavoro, nella
sua immediatezza, senza intermediazioni politiche, sociali e giuridiche,
così come si era sviluppato nelle fasi prefordiste.
Tale situazione si verifica, però, all'interno di un paradigma di
accumulazione che vede in modo sempre più massiccio il coinvolgimento
dell'attività cerebrale nel processo di valorizzazione della produzione
e sociale. Sempre più nel varie prestazioni lavorative, anche in quelle
che sembrano più distanti e diverse fra loro, più manuali o più
cognitive, con diverso grado di prescrizione delle mansioni, in
contesti cooperativi o gerarchici, ecc., ecc., gli aspetti comunicativi,
relazionali, linguistici, esperienziali, formativi e di sapere, sono
compresenti.
Apparentemente, tale cambiamento verso una maggior individualità
(soggettività) della prestazione lavorativa favorisce parimenti
un'individualizzazione del rapporto di lavoro: dal savoir faire al
laissez faire. E ciò era sicuramente vero nella fase pre-fordista della
produzione artigianale e dell'operaio di mestiere di fine `800 e prima
decade del `900, quando la produzione era essenzialmente materiale,
basata sulla divisione del lavoro manuale e dove la cooperazione
produttiva era inesistente.
Oggi, le tecnologie di comunicazione e linguaggio sono tanto più
produttive quanto più sono in grado di creare reti di produzione e
comunicazione, network e sistemi reticolari, cioè quanto più creano
cooperazione sociale. Ma la cooperazione che si attua è il più delle
volte cooperazione sfruttata o fondata su basi di comando gerarchico.
Solo chi è dotato di saperi esclusivi (quindi una stretta minoranza) è
in grado di sviluppare cooperazione linguistica paritaria e quindi
essere dotato di un potere contrattuale in grado di reggere la
contrattazione individuale. La stragrande maggioranza dei
lavoratori/trici, pur se a diversi livelli e con diversi gradi di
intensità, subisce, invece, l'individualizzazione del rapporto di lavoro
e la conseguente precarizzazione, pur all'interno di un processo di
valorizzazione sociale.
La contraddizione dell'accumulazione flessibile è dunque interna alla
coppia: produzione socializzata - contrattazione individuale che
rimanda, per quanto riguarda l'organizzazione del lavoro, all'ulteriore
contraddizione: cooperazione orizzontale della produzione -
verticalizzazione gerarchica delle decisioni e del comando. E'
all'interno di questi due poli che si dà forma la moltitudine del
lavoro, una moltitudine disomogenea, ma di classe, vale a dire
accomunata dall'essere soggetta più o meno direttamente o al comando
gerarchico o all'autoregolazione indotta dal controllo sociale.
E va in questa direzione, la recentissima tendenza nei mercati locali
del lavoro delle aree a più alta densità di produzione immateriale di
trasformare i contratti di lavoro parasubordinata e/o autonomo in
contratti atipici di subordinazione, al fine di meglio controllare,
sotto un esplicito comando diretto, la prestazione di lavoro cognitivo.
La questione della ricomposizione sociale passa attraverso la presa di
coscienza di questi elementi contradditori, tanto più difficile quanto
più le attività cerebrali umane, ovvero la vita stessa, sono
inesorabilmente inserito nel contesto produttivo. E passa anche
attraverso il riconoscimento, la ricerca, l'analisi dei diversi segmenti
del lavoro che animano il rapporto di sfruttamento flessibile.
Paradossalmente, ma non troppo, in tempi in cui la struttura del comando
economico si mondializza, viene meno la classica e fordistica
ripartizione tra primo mondo e terzo mondo, per il semplice fatto che in
ogni angolo del mondo, dal Nord al Sud, con intensità diverse e modalità
ancora tutte da indagare, queste due realtà, questi due mondi sono
contemporaneamente omnipresenti con tutto il carico di conflittualità
che ne deriva.
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