La mafia e l'acqua.
Il controllo mafioso dell'acqua come esempio di uso privato di una risorsa pubblica. Fonti : "L'acqua rubata" di Umberto Santino, del Centro Siciliano di documentazione Peppino Impastato, e altri. Ottobre 2002.


L'acqua è uno dei settori su cui i gruppi mafiosi hanno esercitato il loro dominio. La mafia siciliana non è solo un'organizzazione criminale ma qualcosa di più complesso: i gruppi criminali agiscono all'interno di un sistema di relazioni, hanno rapporti con il contesto sociale, con l'economia, la politica e le istituzioni, le attività delittuose sono intrecciate con attività legali e perseguono fini di arricchimento e di potere. Nessuna sorpresa quindi se la mafia ha rivolto particolare attenzione a una risorsa fondamentale come l'acqua, approfittando delle opportunità offerte dal contesto politico-istituzionale.

Con la costituzione dello Stato unitario non c'è stata in Italia una politica di pubblicizzazione e regolamentazione delle acque e in Sicilia, in particolare nelle campagne palermitane, si è imposta la pratica del controllo privato esercitato da guardiani, i "fontanieri", stipendiati dagli utenti. I guardiani erano nella maggioranza legati alla mafia, cos² pure i "giardinieri", cioè gli affittuari e gli intermediari. Il controllo sull'acqua ha causato contrasti che sono all'origine delle guerre di mafia. Nell'ottobre del 1874 viene ucciso a Monreale il fontaniere Felice Marchese. Il delitto si inserisce nel conflitto tra due organizzazioni mafiose rivali, i Giardinieri e gli Stoppaglieri, che è la prima guerra di mafia documentata. Successivamente, nell'agosto del 1890, si avrà un altro omicidio. Questa volta a cadere è il guardiano dell'acqua dell'Istituto psichiatrico di Palermo, Baldassare La Mantia, che si era rifiutato più volte di favorire i fratelli Vitale, gabelloti (affittuari) e capimafia della frazione palermitana Altarello di Baida. Le usurpazioni destinate all'irrigazione dei giardini rappresenta una delle fonti d'illecito guadagno della criminosa associazione, ed è facile intuire che la resistenza del La Mantia oltreché offesa all'autorità della mafia costitu² grave minaccia agli interessi economici della setta, potendo fare scuola agli altri guardiani dell'acqua non affiliati all'associazione. Sicché non deve sembrare strano che per questo motivo, in apparenza ed in altro ambiente non abbastanza grave, i Vitale e consoci abbiano determinato, come fecero, di uccidere.

L'acqua è una risorsa essenziale per la coltivazione degli agrumi che negli anni successivi alla creazione dello Stato unitario vengono esportati sul mercato nazionale e internazionale, in particolare negli Stati Uniti, principale meta di emigrazione dopo la sconfitta della prima ondata del movimento contadino (i Fasci siciliani). Il controllo dell'acqua e del mercato agrumicolo è nelle mani di gruppi mafiosi che avviano i primi rapporti con gli emigrati in America, tra cui ci sono i fondatori dell'organizzazione mafiosa d'oltre Oceano. Il controllo mafioso dell'acqua continuerà anche dopo e i mafiosi non esiteranno a ricorrere all'omicidio se esso verrà messo in forse. Nel 1945, a Ficarazzi, nei pressi di Palermo, al centro della pianura coltivata ad agrumi, viene ucciso Agostino D'Alessandro, segretario della Camera del lavoro, che aveva cominciato una lotta contro la mafia dell'acqua. Era stato "invitato" a desistere ma aveva continuato la sua battaglia, all'interno di una mobilitazione di contadini che raccoglierà centinaia di migliaia di persone impegnate nella lotta per la riforma agraria e per la democrazia, scontrandosi duramente con la mafia.

I mafiosi fanno sentire tutto il peso del loro potere all'interno dei consorzi di irrigazione di nuova istituzione. L'esempio più noto è il consorzio dell'Alto e Medio Belice. Il consorzio istituto nel 1933, in pieno periodo fascista, abbracciava un comprensorio di circa 106.000 ettari ed era stato costituito per la realizzazione di una diga sul fiume Belice. Esso rimase inattivo fino al 1944, per l'opposizione della mafia, che temeva che lo sviluppo dell'iniziativa potesse toglierle il monopolio dell'acqua. L'unica attività che il consorzio riesce a realizzare è la costruzione di strade che non è ostacolata dai mafiosi che organizzano la raccolta e la fornitura di pietre alle imprese di costruzione. Tra questi mafiosi c'è il giovane Luciano Liggio che costituisce una società di autotrasporti e non è contrario all'attività del consorzio intuendo che esso può offrire grandi opportunità. Infatti la costruzione di dighe sarà un ottimo affare per i mafiosi che sanno inserirsi accaparrandosi buona parte degli stanziamenti pubblici.

La grande "sete di Palermo" del 1977-78 fu l'occasione per l'apertura di un'inchiesta sulle fonti di approvvigionamento idrico nell'agro palermitano. Tra le poche fonti informative esistenti c'era la Carta delle irrigazioni siciliane redatta nel 1940 dalla sezione di Palermo del Servizio idrografico del Ministero dei lavori pubblici, da cui risultava "un aggrovigliarsi di usi di acque delle più diverse provenienze" e individuava 114 sorgenti e 600 pozzi che prelevavano l'acqua dalla pingue falda freatica. Un documento più recente, del 1973, redatto dall'Ente sviluppo agricolo (Esa) rilevava l'esistenza di 1.469 pozzi che attingevano alla falda freatica nella fascia costiera. Queste acque sotterranee per la grande rilevanza che avevano per il soddisfacimento del fabbisogno idrico della città e delle campagne avrebbero dovuto essere inserite nell'elenco delle acque pubbliche, invece vengono lasciate sfruttare dai privati e in prima fila sono i più noti rappresentanti dell'associazione mafiosa. A dire del magistrato che condusse l'inchiesta, il pretore Giuseppe Di Lello, il criterio nella redazione degli elenchi delle acque pubbliche è il "rispetto" delle acque private. Nel Prga (Piano regolatore generale degli acquedotti) redatto dal Ministero dei lavori pubblici e approvato nel 1968 figuravano solo 13 pozzi, di cui due salini e quattro in via di esaurimento per impoverimento della falda, mentre non c'era traccia dei pozzi ricchissimi d'acqua gestiti dai Greco di Ciaculli, una delle dinastie mafiose più note, e da altre famiglie mafiose: i Buffa, i Motisi, i Marcenò, i Teresi. Ovviamente la falda freatica andava impoverendosi per il vero e proprio saccheggio perpetrato dai privati e in particolari dai mafiosi e in molti pozzi era già in stato avanzato l'intrusione di acqua marina che ne rendeva impossibile l'uso.

L'acqua dovrebbe essere un bene pubblico, invece l'Azienda municipale acquedotto di Palermo (Amap) prende in affitto i pozzi dei privati e negli anni '70 il Comune di Palermo paga quella che dovrebbe essere la sua acqua circa 800 milioni l'anno. Particolare significativo: i privati per scavare i pozzi si servono dei mezzi dell'Esa, cioè di un ente pubblico, e con modica spesa realizzano affari consistenti. L'Amap, alla ricerca di nuove acque, trivella le zone povere d'acqua, lasciando le zone più ricche al monopolio dei privati. Le responsabilità di tale situazione sono state chiaramente individuate, ai vari livelli: dal Ministero dei lavori pubblici all'Assessorato regionale, al Provveditorato per le opere pubbliche, all'Ufficio del Genio civile e, ovviamente, all'Amap. Alcuni fatti costituivano reato e gli atti vennero inviati alla Procura della Repubblica ma l'inchiesta non ebbe seguito. Un'altra inchiesta condotta nel 1988 si concludeva con il rinvio a giudizio di vari mafiosi, di proprietari di pozzi e di alcuni tecnici, ma il processo si concluse con una serie di assoluzioni.

In media ogni anno piovono in Sicilia 7 miliardi di metri cubi d'acqua, quasi il triplo del fabbisogno calcolato in 2 miliardi e 482 milioni di metri cubi (1 miliardo e 325 milioni per l'irrigazione dei campi, 727 milioni per dissetare i centri abitati, 430 milioni per il fabbisogno industriale). Eppure la Sicilia soffre la sete, e in alcune zone, per esempio nelle province di Agrigento, Caltanissetta, ed Enna, è emergenza permanente. Ci sono dighe che da vent'anni attendono di essere completate, o non sono state collaudate e possono contenere solo una parte della capienza. Ci sono le condotte colabrodo (si parla di perdite del 50 per cento). Questo non è solo il frutto del controllo mafioso sull'acqua ma più in generale di una politica delle opere pubbliche all'insegna dello spreco e del clientelismo. L'opera pubblica, a prescindere dai miglioramenti che può arrecare alle condizioni di vita della popolazione di un determinato territorio, viene utilizzata come occasione di speculazione e di accaparramento del denaro pubblico. Perciò i lavori devono durare pressoché all'infinito e il risultato finale non conta. Attorno all'opera pubblica si forma un grappolo di interessi che coinvolge imprenditori, amministratori, politici, mafiosi che controllano la spartizione degli appalti, praticano i pizzi sulle imprese, forniscono loro materiali e servizi, o sono impegnati direttamente nell'attività imprenditoriale. Questo groviglio di interessi è alla base di quel che ancora oggi accade in Sicilia.

Nessuna delle dighe esistenti è autorizzata ad essere riempita completamente. Qualche caso, tra i più eclatanti. La diga Ancipa potrebbe raccogliere 34 milioni di metri cubi d'acqua, ne raccoglie solo 4 milioni. La diga presenta delle crepe, segnalate da più di trent'anni. La diga Disueri potrebbe contenere 23 milioni di metri cubi, ma deve fermarsi a 2 milioni e mezzo. La diga Furore, in provincia di Agrigento, completata nel 1992, non è mai entrata in funzione. Per altre dighe mancano gli allacciamenti. Spesso si dice che mancano i soldi, ma in più di un caso i soldi ci sono e non si spendono per inerzia delle amministrazioni che continuano a favorire l'approvvigionamento da parte di privati. Lo scorso mese di febbraio oltre sette milioni di metri cubi rischiavano di finire in mare, perché le dighe non erano in grado di contenere l'acqua caduta con le abbondanti piogge. In Sicilia si fanno processioni e cerimonie religiose per invocare la pioggia, ma quando c'è la pioggia bisogna svuotare le dighe. E questo non è solo mafia. E va ribadito che la mafia ha potuto operare, nel settore dell'acqua come in altri settori, perché ha goduto di un contesto favorevole e di complicità, omissive o attive, diffuse.

Data la frammentazione della gestione, spesso riesce difficile individuare le responsabilità. In Sicilia si dovrebbero occupare di acqua 3 enti regionali, 3 aziende municipalizzate, 2 società miste, 19 società private, 11 consorzi di bonifica, 284 gestioni comunali, 400 consorzi fra utenti e altri 13 consorzi. All'ennesima emergenza idrica, si è pensato di risolvere il problema nominando commissario il presidente della Regione. Per il 2000 un'ordinanza di protezione civile stanziava 54 miliardi per opere urgenti da realizzare nel giro di nove mesi e disponeva poteri di approvazione rapida dei progetti per il presidente della Regione, ma le inadempienze della Regione hanno indotto il ministro dei lavori pubblici a nominare, nel febbraio del 2001, un commissario dello Stato, il generale dei carabinieri Roberto Jucci. Il commissario si è dato da fare andando in giro per l'isola, redigendo una mappa degli invasi e ha proposto l'istituzione di un'Authority, cioè di un organo unico che sovrintenda a tutta la questione dell'acqua in Sicilia, gestendo unitariamente le dighe, il sistema idrogeologico, le condotte di adduzione, gli impianti comunali. La proposta era stata già fatta dalla giunta regionale nel 1990 ma non si è mai realizzata. Il generale si è dimesso pochi mesi or sono.