I
comunisti e il movimento noglobal.
Tra
i comunisti troviamo due linee, ambedue erronee: da un lato un atteggiamento
settario ed arrogante verso questo nuovo movimento, e dall'altro un atteggiamento
acritico e privo di proposte. In questo articolo li discutiamo entrambi prendendo
a pretesto la discussione interna ai Giovani Comunisti di Milano. Il documento
1 non esprime sostanzialmente critiche nei confronti di questo movimento
e afferma che i comunisti devono portarvi i propri contenuti, ma su questi
si dilunga assai poco. Al lato opposto il documento
2 critica aspramente questo movimento, chiamando i comunisti a scalzarne
la direzione "piccolo-borghese". REDS. Aprile 2001.
su questo tema vedi anche I
comunisti e i movimenti I movimenti
per il consumo critico e i comunisti Tra gli anni
ottanta e novanta si è sviluppato, in forme sempre più estese
e partecipate, un associazionismo basato su una solidarietà concreta
a quello che generalmente viene definito "Terzo Mondo". La forma
più evoluta e di successo è stata la rete delle Botteghe del
Commercio Equo e Solidale che in contatto con cooperative e gruppi di base
dei Paesi latinoamericani, africani ed asiatici commercializza i loro prodotti.
A loro volta queste entità sono spesso finanziate da ong occidentali
e aiutate da volontari e cooperanti europei. Si è poi andata sviluppando
anche in Europa un'attenzione, pure animata da un vivace associativismo, al
"consumo critico", al boicottaggio di determinati prodotti, ecc.
I militanti di questi movimenti hanno varia provenienza, anche se sostanzialmente
vi incontriamo persone provenienti da gruppi cattolici e di sinistra radicale,
che trovano in queste attività nuovi motivi di impegno. L'insieme di
questa militanza, in gran parte giovanile, e' senz'altro superiore, per presenza
sul territorio, capacità di iniziativa, ecc. a quella espressa nel
suo insieme dal PRC, se si esclude l'attività istituzionale. Questo associazionismo
non cessa di suscitare in alcuni gruppi che si reputano marxisti una viva
diffidenza. Il documento 2, quello affine alle posizioni di Falce e Martello,
è un buon esempio a questo proposito. A partire dalla critica di quell'impostazione
cercheremo di comprendere come invece i comunisti dovrebbero rapportarsi con
i militanti dell'associazionismo legato al consumo alternativo. Nel documento
2, che ci apprestiamo a criticare, si afferma: "Nel
movimento di Seattle [...] di fatto si teorizza che il colpo principale al
capitalismo non possa essere più dato nei rapporti di produzione, ma
attraverso il consumo boicottandone marchi e prodotti. Questa concezione ipotizza
che si possa costruire una catena produttiva e commerciale in qualche modo
alternativa a quella delle multinazionali, basata su questi nessi: consumo
critico - commercio equosolidale - produzioni naturali controllate da piccoli
produttori. Questa proposta fa sicuramente piacere alla Coldiretti: ciò
non toglie che sia semplicemente utopistica o inutile. E' impossibile risalire
dall'ultimo anello della catena (il consumo) per mettere in discussione tutto
il sistema. I prodotti delle grandi aziende conquistano il mercato per i propri
prezzi stracciati e il loro strapotere nella distribuzione. [...] La piccola
produzione naturale non farebbe altro che ripercorrere la strada che la piccola
produzione capitalista ha già percorso trasformandosi in grande produzione.
Non è questa la storia di oltre un secolo del movimento cooperativo?
Nato da esigenze simili oggi è sempre più difficile distinguerlo
dal resto delle aziende." Il metodo
con cui il documento 2 affronta questo nodo è errato. Si confondono
vari piani: quello del movimento fisico (le associazioni che si muovono
nell'ambito del consumo critico, alternativo, ecc.) e quello di alcune teorizzazioni
(a volte dominanti e a volte no) presenti in quel movimento. E' vero che
in quel movimento vi è chi teorizza che, ad esempio, aumentando via
via il numero di Botteghe del Commercio Equo e Solidale si possa sconfiggere
lo strapotere delle multinazionali e imporre un tipo di società "diverso".
Si tratta di concezioni che in alcun modo condividiamo. Se le accettassimo
dovremmo concludere che l'ostacolo ad un mondo più giusto è
proprio un consumo sbagliato (eccessivo, sprecone, distorto, ecc.) da parte
della "popolazione" occidentale. Si finisce cioé per individuare
nei consumatori il proprio avversario. L'imperialismo e lo sfruttamento esisterebbero
perché i consumatori occidentali vogliono troppo, consumano
beni superflui, e dunque in questa maniera alimentano lo sfruttamento
del Terzo Mondo. E' vero che tutti gli occidentali di tutte le classi sociali
sono privilegiati rispetto ai loro "omologhi" del Terzo Mondo perché
in qualche modo condividono, seppur in maniera estremamente differenziata,
il privilegio imperialista. Da qui a dire però che tutti insieme, indistintamente,
sono responsabili dell'imperialismo, ce ne corre. Con siffatta teoria si salva
implicitamente la pellaccia dei potenti, e ci si colloca in una situazione
di totale impotenza: l'unica strada che rimarrebbe aperta per un reale cambiamento
sarebbe quella del convincimento uno a uno dei consumatori occidentali, compito
questo che ridurrebbe l'imponente ambizione di un sovvertimento dei rapporti
tra Nord e Sud del mondo al successo di prediche colpevolizzanti. Il documento
1 e in generale la maggioranza del PRC non prendendo posizione contro queste
teorie, spingono i propri militanti presenti nel movimento ad adaguarvisi. Ma.
Queste teorie non sono affatto condivise dalla maggioranza dei militanti di
questo associazionismo. In realtà molti di questi attivisti non hanno
affatto una teoria e sono impegnati su questo terreno per la semplice ragione
che pare loro una maniera molto pratica e concreta di solidarizzare con le
vittime dell'oppressione imperialista. Ma poniamo pure che quella che abbiamo
illustrato sopra fosse l'ideologia dominante di questo movimento: non cambierebbe
nulla nella necessità dei comunisti di parteciparvi e rafforzarlo.
I comunisti non entrano nei movimenti alla sola condizione che questi risultino
perfettamente allineati al marxismo. Perché se così facessero
non troveremmo alcun comunista in alcun movimento. La critica
che viene mossa dal documento 2 (ma, come abbiamo detto, è una critica
mossa anche da altri settori che si definiscono comunisti) tende a negare
la ragione stessa dell'esistenza di questo movimento. Noi pensiamo invece
che esso sia di per sé positivo per ciò che di oggettivo
rappresenta, al di là della sua ideologia dominante: è un movimento
di persone che si muovono contro lo strapotere delle multinazionali, e sono
dunque portate a riflettere sullo sfruttamento del Terzo Mondo, ecc. La gran
parte delle iniziative che in Italia si promuovono in solidarietà con
il Terzo Mondo, ecc. non sono affatto organizzate dai comunisti, ma da questi
settori, all'interno dei quali troviamo comunque molti comunisti, per fortuna. E' giusto
e sano che i comunisti siano impegnati in movimenti di questo tipo, perché
ciò contribuirà, come minimo, a creare una coscienza critica,
accumulerà forze, ecc. Lo stesso dicasi per le cooperative e i gruppi
locali che dal Terzo Mondo riforniscono le Botteghe. Non le idealizziamo e
sappiamo che dietro vi sono spesso piccole burocrazie, ecc. Ma non ci deve
sfuggire il dato di fondo, e cioé che questi microprogetti sono serviti
a molti gruppi contadini, di donne e di minoranze nazionali per autogestirsi,
riunirsi, organizzarsi. Questa dinamica crea un ambiente favorevole alla crescita
di una coscienza politica generale, che può essere poi spesa per lotte
di più vasta portata. L'esempio
a negativo della storia della cooperazione in Italia, citato nel passo che
abbiamo riportato del documento 2, c'entra poco. Certo oggi la COOP deve essere
considerata una impresa capitalista come le altre, e ciò deve servire
da monito a coloro che teorizzano che il capitalismo si "supera"
con la cooperazione. Ma il giudizio che oggi diamo su quell'azienda, e altre
di quel tipo, non può portarci a ritroso a maledire l'intera storia
del movimento cooperativo. Un conto è respingere l'ideologia proudoniana,
un altro è invece rapportarsi al movimento concreto di persone
che hanno fatto la cooperazione. E allora è ben difficile negare
che storicamente si è tratttao di una delle forme di organizzazione
e di lotta che le classi oppresse si sono date in questo Paese e che è
servita, al pari di altre, ad accumulare forze, esperienze, ecc. Ancora oggi
le regioni dove questo movimento si é sviluppato hanno un tessuto sociale
che tiene di più e dove la sinistra, le donne e i giovani sono
più forti. Non stiamo affermando che ciò si deve alla
COOP, ma che si tratta del portato storico di una esperienza che comprende
anche il movimento cooperativo. I comunisti
devono essere contro il protezionismo? Il documento
2 afferma: "Un
altro filone di pensiero nel movimento di Seattle è quello che esalta
il protezionismo come via di sviluppo che difenda i paesi del terzo mondo.
Come comunisti dobbiamo considerare protezionismo e neoliberismo due facce
della stessa medaglia. E non sapremmo proprio dire quale delle due è
più reazionaria. Il protezionismo non risolverebbe nulla per i paesi
del terzo mondo. Innanzitutto protezionismo vuol dire concorrenza dei lavoratori
di un paese contro quelli di un altro, esattamente come avviene col neoliberismo.
In secondo luogo il protezionismo aumenterebbe i prezzi dei prodotti comprimendo
ancora di più i consumi operai. La favola poi che "protezionismo"
voglia dire meno colonialismo è una delle più ridicole mai sentite.
Anzi: protezionismo vuol dire ancora più aggressività delle
grandi potenze verso i mercati del terzo mondo. Infatti tutti i paesi capitalistici
avanzati sarebbero ancora di più costretti a procurarsi direttamente
dai paesi arretrati quella quota di merci che non arriva più attraverso
lo scambio internazionale a causa dei dazi doganali." I comunisti
dovrebbero in ogni momento essere in grado di dire: se noi fossimo al governo
faremmo questo e quest'altro. Bene, se fossimo al governo in un paese del
Terzo Mondo noi che faremmo? Imporremmo alle merci di circolare liberamente?
Il che significherebbe concretamente che le merci prodotte sottocosto da un
Paese imperialista sarebbero in grado di entrare e di far chiudere l'industria
locale. L'imperialismo nella sua storia ha proprio deliberatamente utilizzato
questo strumento per asservire le economie dei Paesi coloniali e neocoloniali.
Analogamente non si vede perché i Paesi dipendenti non possano utilizzare
l'arma del protezionismo per difendersi. Il protezionismo non è una
misura neutrale, dipende da chi lo applica. Un conto sono le guerre commerciali
tra Paesi imperialisti, come quelle che spesso contrappongono Europa e USA:
dovrebbero lasciarci del tutto indifferenti, quanto dovrebbe lasciarci indifferenti
la concorrenza tra FIAT e Renault. Ma quando lo scontro è tra un Paese
neocoloniale e un Paese imperialista, non possiamo avere dubbi a favore di
chi dobbiamo schierarci. Nella battaglia tra multinazionali dei farmaci (e
gli stati che le supportano) e il Sudafrica (sulla questione delle medicine
antiAIDS) dobbiamo stare dalla parte di quest'ultimo, pur con tutti i dubbi
che possiamo nutrire sulla sua dirigenza politica. Un Paese del Terzo Mondo
ha tutti i diritti di utilizzare ogni arma di cui dispone per battere la potenza
dell'imperialismo: dalla violazione del copyright alla duplicazione illegale,
dall'uso di brevetti di altri all'innalzamento di barriere doganali, ecc.
Negare questo diritto ai Paesi del Terzo Mondo significa nei fatti
rendersi complici della spogliazione effettuata dai Paesi imperialisti nei
loro confronti. L'arma del protezionismo del resto è stata utilizzata
a varie riprese da direzioni nazionaliste antimperialiste, ad esempio, particolare
che dovrebbe colpire i compagni di Falce e Martello che si definiscono trotskisti,
anche dal regime messicano di Càrdenas (quello degli anni trenta) lodato
dallo stesso Trotsky. Passi
intermedi Il documento
2 afferma: "Insomma
il nodo centrale posto dal movimento di Seattle è a nostro avviso un
altro e deve essere tagliato alla radice. E' il nodo della proprietà
e del controllo. Non potrà esistere nessuna seria forma di controllo
sociale sulla produzione e sul consumo fino a quando la gran parte delle risorse
economiche produttive del mondo saranno concentrate nelle mani di un pugno
di capitalisti. Né con i boicottaggi, né con le leggi si può
imbrigliare il potere di questa ristretta élite. [...] Solo il proletariato
mondiale [...] può andare a incidere su questo nodo attraverso l'esproprio
delle principali multinazionali a livello mondiale. Per sottoporle al controllo
dei lavoratori in un regime complessivo di democrazia operaia. Questo è
quello che noi chiamiamo socialismo, ed è in ultima analisi l'unica
alternativa credibile che tutt'oggi conosciamo a questo sistema." Possiamo
immaginare che cosa accadrebbe se usassimo questo metodo nel movimento sindacale?
Dovremmo abolirlo perché lotta per i salari (quando va bene) invece
che mettere in discussione i rapporti di proprietà. Eppure lo stesso
documento 2 è, giustamente, pronto a valorizzare i parzialissimi movimenti
di lotta che ci sono stati in Italia contro i licenziamenti, per il salario,
contro il concorsone nelle scuole, e i cui militanti pensavano a tutto fuorché
ai rapporti di proprietà. Dunque non si vede bene perché utilizzare
due pesi e due misure: accontentarsi quando i lavoratori lottano per cinquantamila
lire di aumento, ma esigere da tutti gli altri niente di meno che la lotta
diretta per il socialismo. Mentre
il documento 1 ... Abbiamo preso
di mira il documento 2, perché ci offriva l'opportunità di precisare
una serie di problematiche che periodicamente emergono nella sinistra radicale.
Del resto era un po' più difficile compiere una critica circostanziata
del documento 1, quello che esprime le posizioni della maggioranza, dato che
nel capitolo che questo dedica al movimento Seattle ("Globalizzazione
- I movimenti internazionali di lotta e la realtà locale.") non
vi si trova alcuna considerazione degna di una qualche nota: non vi è
una analisi seria del movimento, non una indicazione, non una critica. Ci sentiamo
dunque in dovere di sottolineare la gravità di questo fatto. Non siamo
certo nostalgici di un partito e di gruppi dirigenti che "ci danno la
linea", ne facciamo volentieri a meno. Pensiamo però che il partito
dovrebbe essere un ambito dove, per lo meno, ci si sforza di trovare posizioni
condivise. Senza elaborare indicazioni e strumenti di analisi riguardo al
movimento Seattle, così come su altri piani, un giovane (ma anche un
adulto) prima o poi si domanderà a che diavolo serve essere comunisti.
Qui ci interessa sottolineare alcune conseguenze della non volontà
di dar vita a posizioni condivise: si formano militanti che o sono totalmente
interni ai movimenti, o totalmente interni al partito; non si aiutano i movimenti
a crescere e a migliorare; si accentua la frustrazione dei compagni che, non
vedendo alcun ruolo attivo di GC e PRC, sono portati a pensare che il problema
non è l'assenza di elaborazione e proposta, ma i deficit di "immagine"
e di "presenza visibile" (di qui tutte le lamentale sul ruolo delle
tute bianche, ecc.). Problemi che derivano dal non comprendere che ruolo si
debba avere nei movimenti.