Movimento
antiglobal: cominciamo a fare paura?
L'editoriale
di Angelo Panebianco sul Corriere della Sera del 23 giugno dimostra come sia
tramontato il neoliberismo come pensiero unico, mentre sta, ancora confusamente,
emergendo un pensiero alternativo che preoccupa le nostre classi dominanti.
Giugno 2001.
Il Corriere
della Sera ha pubblicato in prima pagina il 23 giugno un editoriale di Angelo
Panebianco, di cui più sotto riportiamo ampi stralci, dal titolo "I
contestatori tra timori legittimi e protezionismo. Vantaggi globali e la società
chiusa." Si tratta di un articolo estremamente interessante e per diverse
ragioni. Qui segnaliamo la più importante rimandando invece la contestazione
e l'analisi delle sue tesi allo speciale che pubblicheremo come REDS il primo
luglio. Ricordiamoci un anno fa che cosa eravamo abituati a sentire e leggere:
vigeva in ogni dove il pensiero unico neoliberale. Notate come invece questo
editoriale sia collocato interamente sulla difensiva, e come dimostri, al
di là di ogni nostra ragionevole speranza, che il pensiero unico è
morto e sepolto. Oggi si confrontano due pensieri: a quello neoliberale
se ne contrappone un altro, certo ancora confuso, di segno opposto, e questo
nuovo pensiero sta facendo breccia nella società. La paura delle nostre
classi dominanti non è più solo quella di creare allarmismo
per garantirsi un G8 senza contestazioni, ma quella di riconquistarsi una
egemonia culturale che sta rapidamente franando. Ecco l'editoriale. Un'idea pericolosa
si va diffondendo. È l'idea che i contestatori della cosiddet ta "globalizzazione"
abbiano più ragioni che torti nel criminalizzarla, nell'imputarle tutti
i mali de mondo. C'è in giro un quantità davvero eccessiva di
brave persone la quale pensa che, sì, vadano isolate le frange più
violente, ma pensa anche che il "fine" del movimento antiglobalizzazione
sia condivisibile, che la causa sia sacrosanta. Basta vedere, ad esempio,
quanti sacerdoti cattolici si sono messi in movimento per "dare una mano"
ai contestatori del prossimo G8; o leggere l'opinione del cardinale Silvano
Piovanelli pubblicata da questo giornale due giorni fa. Tutti costoro
accettano troppo facilmente gli slogan degli antiglobalizzatori: credono davvero
che il potere di vita e di morte sui destini del mondo sia nelle mani di un
pugno di multinazionali; credono davvero che la globalizzazione accresca la
povertà al di fuori del mondo occidentale. Nessuno di loro è
sfiorato dal dubbio che queste siano falsità. Nessuno di loro è
disposto, ad esempio, a prendere in considerazione il fatto, ampiamente documentato,
che, lungi dall'accrescere la povertà, l'apertura dei mercati abbia,
nell'ultimo decennio, contribuito potentemente a ridurla, e che i Paesi extraoccidentali
che più si sono aperti ai mercati se la siano cavata assai meglio di
quelli più chiusi. La vera novità
è che non ci sono, in fondo, vere novità. Cambiano le forme
e i modi ma il problema è sempre uno, da quando è nato il capitalismo:
il conflitto fra i fautori della società aperta e i fautori della società
chiusa, tra quelli che pensano che il commercio senza barriere e restrizioni
porti, col tempo, benessere e libertà a tutti coloro che vi vengono
coinvolti, e quelli che lo intendono solo come una forma di sfruttamento e
di oppressione (oltre che, va da sé, di "mercificazione"
dell'esistenza). Nel ventesimo secolo, ci sono stati due grandi tentativi
di fermare la società aperta, di ricostituire, in un modo o nell'altro,
la società chiusa: il totalitarismo nazista e quello sovietico-comunista.
Tutti hanno potuto constatare quali orrori ne siano scaturiti. Ma non tutti
i fautori della società chiusa hanno imparato la lezione, né
hanno cercato di capire perché è successo ciò che e successo.
E adesso, eccoli al seguito del "popolo di Seattle". Come se non
fosse proprio l'apertura delle società le une alle altre l'unica strada
possibile per togliere spazio alle tarannie politiche, per innescare sviluppo
autosostenuto, per fare arrivare un po' di libertà là dove non
se ne è mai vista prima. Ma, dicono i più ragionevoli, i processi
di globalizzazaone vanno "governati". Hanno ragione, ma è
più facile a dirsi che a farsi, e oltretutto i contestatori si sono
scatenati, proprio a partire dall'ormai storico incontro di Seattle del 1999,
in tutte le occasioni in cui gli Stati tentavano, faticosamente, di mettere
a punto qualche regola di comportamento comune, qualche strumento di governo.
Non colpisce il semplicismo del pensiero di certi portavoce del movimento
antiglobalizzazione (che immaginano il mondo retto da un governo occulto delle
multinazionali). Colpisce che ci siano così tante persone adulte disposte
ad assecondarli. Non vedono che, al di là delle pur legittime sensibilità
per i guai della parte povera del mondo, il motore politico del movimento
è fatto da protezionisti alla Bové. Poi ci sono
le cose serie, alcune delle quali figurano nell'agenda del G8, e altre no.
C'è la necessità, secondo diversi esperti, di riformare alcune
cruciali istituzioni (come il Fondo monetario). C'è, ancora, il fatto
che questa importantissima parte del mondo più ricco, l'Europa occidentale
appunto, vive in una cronica condizione di squilibrio (alla lunga, forse,
pericolosa per sé e per gli altri): ha dato vita a una integrazione
economica e monetaria senza però ancora dotarsi di una comune costituzione
democratica. Ma queste, appunto, sono cose serie. Che poco sembrano interessare
al "popolo di Seattle" e ai suoi rispettabili simpatizzanti.