Il
PRC e il movimento antiglobal.
In
preparazione di Genova si moltiplicano le iniziative, i dibattiti, le proteste.
In questo articolo si analizzano potenzialità e limiti dell'azione
del PRC nel movimento antiglobalizzazione. REDS. Giugno 2001.
Il nostro
partito non si è trovato spesso a che fare con un movimento. Nato in
pieno riflusso dieci anni fa, da allora è stato messo alla prova ben
poche volte. E da quelle poche volte non ne è uscito brillantemente.
Ricordiamo il movimento anticoncertativo del '93, quello dell'autunno del
'94 contro la riforma pensionistica, il movimento contro la guerra nei Balcani
e quello contro il concorsone degli insegnanti. Ogni volta il PRC si proponeva
come sponda istituzionale, ma non riusciva ad essere, se non in pochissime
occasioni, parte del movimento. La gran parte delle volte ne è
stato fagocitato, o, all'opposto, ne è rimasto estraneo. In Italia
il movimento Seattle non ha ancora le caratteristiche di massa che hanno animato
i movimenti di cui sopra, ma potremmo esservi vicino. Ancora una volta però
temiamo che le grandi potenzialità del partito non saranno sfruttate
né a vantaggio proprio né a vantaggio dei movimenti. Il movimento
Seattle Il movimento
in Italia è costituito in larga misura da compagne e compagni che sono
o erano già attivisti di qualche altra cosa. Anche se si registrano
"nuovi arrivi" (specie universitari), nei fatti la novità
di questo movimento non sta nell'aver creato nuova militanza (cosa ben difficile
in un periodo di riflusso ed infatti anche i movimenti che abbiamo nominato
sopra non hanno fatto nascere nuove leve militanti), ma nell'aver messo insieme
una militanza che prima era estremamente frammentata. Questa militanza fa
sostanzialmente riferimento a due culture politiche assai differenziate tra
loro e variegate al loro interno. La prima
è una cultura che nasce negli anni ottanta sull'onda del tramonto della
militanza più direttamente politica, spesso da ambienti cattolici (ma
non solo, vi sono molti delusi dei partiti della sinistra). E' l'associazionismo
basato sulla solidarietà con il Terzo Mondo, all'antimilitarismo, dedito
a progetti di solidarietà, al commercio equo solidale, alle lotte ambientaliste.
Questa cultura si basa sul "fare", su una solidarietà molto
concreta, la valorizzazione dell'intervento locale, l'impegno nella "sensibilizzazione",
nella messa in discussione del proprio stile di vita. Al suo interno convivono
diverse opzioni per cui questa area non può essere definita pacifista
"strategica", anche se vi è una generale simpatia per la
non-violenza. La Rete Lilliput è oggi il riferimento organizzativo
più consistente. La seconda
cultura è più "politica", legata ai centri sociali
e a una parte del "sindacalismo di base". Ciò che la differenzia
dalla prima non è l'interpretazione della globalizzazione. Anzi: spesso
questi compagni si servono proprio dei dati e delle analisi dell'associazionismo
per trattare questi temi. Ciò che la caratterizza è una forte
enfasi e radicalità sul terreno dell'azione contestatrice. Dal punto
di vista strategico convivono dentro questa cultura le ramificazioni più
varie, dall'anarchia, al comunismo, ad una sorta di riformismo sui generis.
Al suo interno l'accento posto sulla mobilitazione di massa e sulla costruzione
di eventi oppositivi, ha varie sfumature che in Italia si raccolgono per semplificare
nell'area delle "tute bianche" e in quella del "Network per
i diritti globali". Queste due
culture però hanno fili che le uniscono al di là delle apparenze.
Il primo è quello dei contenuti e dei temi della contestazione, sui
quali non registriamo divergenze degne di nota, anche se c'è differenza,
a volte anche sostanziale, sulle soluzioni proposte. Il secondo è una
certa ripulsa per la maniera tipica di far politica della sinistra, con la
sua divisione tra pubblico e privato, la costante ricerca dell'egemonia, la
tendenza al compromesso deteriore, il basarsi sulla delega. Il terzo è
l'attrazione per forme concrete del far politica, anche se questa spinta si
sostanzia in azioni assai differenti. E il PRC? Il problema
del PRC è che la sua cultura di fondo è sostanzialmente estranea
alle due culture di cui sopra. Certo, il PRC ha mantenuto un atteggiamento
molto aperto e di forte valorizzazione di questo movimento. Si tratta di un
progresso positivo: ricordiamo le chiusure nei confronti del movimento dei
centri sociali che all'epoca della nostra nascita era già in calo ma
ancora consistente. Nelle pagine di Liberazione troviamo oggi molte schede
esemplificative dei danni della globalizzazione, tutti gli appuntamenti del
movimento, ecc. Il nostro segretario non perde occasione per valorizzarne
le scadenze. Il PRC è chiaramente percepito a livello di massa come
l'unico soggetto politico fiancheggiatore del movimento. Ottimo. Ma. Il problema
del PRC sta nella sua cultura politico-organizzativa. Cioè nella maniera
concreta con cui la gran parte dei suoi circoli fa politica. La maggior parte
dei circoli è concretamente impegnata nella propaganda elettorale e
nella preparazione delle feste, oppure nella gestione della presenza nelle
istituzioni. La militanza è abituata a pensare che essere comunisti
è esattamente questo. La cultura del "fare" è sostanzialmente
estranea a molti circoli. Molti militanti del PRC paiono ai militanti delle
due culture che abbiamo descritto più sopra come strani esseri che
si occupano di cose tutto sommato assai noiose e sostanzialmente astratte
e che sprecano in gran parte il privilegio di avere tante sedi a disposizione.
L'appoggio al movimento che il partito dà a livello centrale è
dunque privo di conseguenze pratiche, con la parziale eccezione della partecipazione
alle manifestazioni del movimento. Attenzione:
non stiamo affermando che a fronte di una dirigenza "illuminata"
vi sarebbe una base arretrata. Le responsabilità della dirigenza sono
precise. Innanzitutto non vi è alcuna indicazione operativa per trasformare
le sedi di partito in luoghi di aggregazione utili al movimento. Manca un
dibattito democratico sul movimento e sul ruolo dei comunisti in questo movimento
come nei movimenti in generale. In realtà il PRC finisce solo per offrirsi
come sponda istituzionale. Il problema è che questo ruolo è
visto con grande diffidenza dal movimento in tutte le sue componenti, come
è emerso in occasione delle aperture di Bertinotti a Frattini sulle
manifestazioni di Genova. E' un movimento che vuole rappresentarsi da sé.
Un'altra
responsabilità della nostra direzione è che da un lato chiama
la militanza ad una grande apertura verso la società e i movimenti,
ma nei fatti spinge ad una politica che privilegia il realismo delle alleanze
e della presenza istituzionale con tutte le compatibilità che questo
comporta, specie a livello locale. Per questo
i militanti del PRC non sanno come rapportarsi a questo movimento e ognuno
agisce secondo la propria cultura di origine, dato che il PRC è un
guazzabuglio di subculture, anche se con denominatori comuni. Si va dal settarismo
di una parte della sua minoranza ad un vero e proprio codismo verso le "tutebianche"
da parte di alcuni settori di maggioranza, da preoccupazioni circa la "visibilità"
del partito a velleità di egemonia, dall'"invidia" di settori
giovanili del partito verso le capacità "belliche" di pezzi
di movimento ad una sostanziale diffidenza verso i movimenti in genere che
caratterizzano i residui del cossuttismo. Che fare? A partire
dai circoli territoriali ci si deve distinguere per rompere in maniera netta
con la routine. Per stare nel movimento antiglobalizzazione è inutile
sognare impossibili egemonie quando nei fatti si è estranei: bisogna
entrarci con entusiasmo e spirito aperto, ma entrarci significa fare delle
cose. Esempi: perché non prevedere nelle nostre sedi delle giornate
di vendita di prodotti del commercio equo e solidale? Sentiamo spesso nel
partito delle ironie su questo tema. Anche compagni moderatissimi e che ad
ogni elezione non si fanno problemi ad allearsi anche con i rappresentanti
locali di Dini, dicono con un sorrisetto: ma pensi davvero che si risolva
così il problema della diseguaglianza? No, ma anche la lotta
per un aumento salariale non risolve la lotta capitale /lavoro, eppure ciò
non ci porta a ignorare l'importanza della lotta sindacale. I compagni possono
ad esempio intessere legami sul territorio creando dei gruppi di acquisto
solidali, che si stanno diffondendo un po' ovunque. Perché non prevedere
poi dei progetti e dei gemellaggi di circoli con situazioni di lotta, cooperative,
fabbriche, sezioni di partito di Paesi del Terzo Mondo? Ogni militante dovrebbe
in prima persona rafforzare l'associazionismo che sta alla base di questo
movimento: per un comunista è normale far parte di un sindacato, dovrebbe
esserlo altrettanto far parte di una associazione solidale e partecipare alla
sua costruzione. I comunisti inoltre, ed è la cosa più importante,
sono presenti nel movimento sindacale: da questa posizione possono essere
utilissimi a superare il deficit più consistente di questo movimento,
che è ancora troppo di classe media e assai poco operaio e popolare.
Le RSU nelle quali siamo presenti possono essere dei motori per dibattiti,
azioni di sensibilizzazione, progetti di solidarietà all'interno dei
posti di lavoro. Sono suggerimenti
concreti che ognuno di noi può attuare senza attendere il via dagli
organismi dirigenti, per essere in prima fila a costruire il movimento antiglobalizzazione.