Cosa
è la globalizzazione.
La
globalizzazione è una fase particolare dell'imperialismo caratterizzata
dall'apertura senza precedenti dei mercati. Dell'imperialismo mantiene
dunque tutti i suoi tratti caratteristici e tipici. Per questo consideriamo
propedeutica la lettura del nostro documento Paesi imperialisti e Paesi dipendenti. Cionondimeno, in quanto
fase particolare, la globalizzazione ha proprie peculiarità che indagheremo
in questo scritto. Luglio 2001. REDS.
Il nocciolo della globalizzazione: l'estensione
senza precedenti del mercato mondiale
Le conseguenze dirette della globalizzazione:
l'accrescersi della concorrenza tra gli imperialismi
Le conseguenze economiche della globalizzazione
Le conseguenze sociali della globalizzazione
Le contraddizioni interne alla globalizzazione
Il nocciolo
della globalizzazione: l'estensione senza precedenti del mercato mondiale torna
sopra Il dominio
dei Paesi imperialisti sul resto del mondo ha conosciuto fasi alterne. Per
dominio non intendiamo necessariamente un controllo politico diretto
di tipo coloniale, che pure ha avuto larga fortuna negli ultimi cinque
secoli, ma un dominio economico che spesso si traduce comunque
in una fortissima influenza politica. Ad esempio i Paesi dell'America Latina
si liberarono dal dominio politico della Spagna all'inizio del sec.XIX, ma
non si liberarono mai del dominio economico di un qualche imperialismo, prima
quello spagnolo e portoghese, poi quello inglese, quindi quello statunitense
ed europeo. Questo dominio come abbiamo già visto viene chiamato dagli
imperialismi "apertura del mercato". Per Paesi aperti i vari
imperialismi intendono quelli che sono disponibili a farsi usare come territorio
di caccia da parte del capitale imperiale. I Paesi che perseguono invece
uno sviluppo autonomo vengono chiamati chiusi, e gli imperialismi fanno
di tutto, compreso le guerre, per aprirli, al loro dominio economico,
che comunque chiamano "sviluppo", "progresso", "civiltà". Nel 1500
il dominio dei Paesi imperialisti non andava molto al di là degli stessi
confini europei. Il sistema economico di questi Paesi era quello capitalistico,
anche se non ancora nella sua fase industriale; dato che il valore era creato
soprattutto dal commercio e in maniera più ridotta dalla produzione
di merci, questo capitalismo è da molti chiamato commerciale.
Nel resto del pianeta gli altri popoli erano impegnati in sviluppi autonomi
(Cina, India, America, ecc.), senza però raggiungere in tempo, al fatidico
appuntamento del 1500, un grado di sviluppo che consentisse loro un grado
tale di ricchezza e una complessità della struttura sociale tali da
poter affrontare l'attacco europeo. Ad esempio le civiltà dell'America
erano ad uno stadio di sviluppo che l'Europa occidentale aveva superato da
più di un migliaio di anni. Non stiamo affermando, quando parliamo
di sviluppo, che le civiltà europee fossero più umane,
progressive e felici di quelle americane. Né le une né
le altre ci entusiasmano, dato che si trattava comunque di società
dispotiche e fondate sullo sfruttamento delle grandi masse. Semplicemente
l'Europa era economicamente più ricca, e dunque con un più netto
progresso tecnologico, e dunque militare. Per questo sconfissero tutti coloro
che si opposero in questi secoli al dominio imperialista sul mondo. Alla fine
del XVIII secolo si affiancarono ai Paesi europei, come nuova potenza imperialista,
gli USA, poi tra la fine del XIX e l'inizio del XX sec. il Canada, il Giappone,
l'Australia e la Nuova Zelanda. Vi erano entità politiche che ambivano
a questo rango (ad esempio Cina, Impero Ottomano, ecc.), ma i Paesi imperialisti
fecero, tra l'altro, leva sul debito per sconfessarne le ambizioni. Il resto
del pianeta fu gradualmente "conquistato", ma a fasi alterne e con
qualche ritorno indietro. Dal punto di vista dell'apertura del mercato,
cioè dell'estensione del territorio di caccia degli imperialismi,
possiamo distinguere questi periodi: 1) Fino al
1500. Il mercato è confinato sostanzialmente alla stessa Europa. 3) Dalla metà del sec. XVIII al 1917. Il mercato si allarga
sino a comprendere l'Africa, l'Oceania, la Russia, l'Asia. Non sempre questo
dominio si attuò con le conquiste coloniali: la Cina fu sottomessa
attraverso guerre che imposero determinate condizioni commerciali, la Russia
attraverso il debito e la dipendenza tecnologica, ecc. 4) Dal 1917 alla fine degli anni ottanta. Il mercato mondiale
si restringe. Una serie di rivoluzioni separano lo sviluppo economico di alcuni
stati da quello degli imperialismi, creando mercati chiusi. In pratica
cioè, non vi era scambio commerciale significativo tra Paesi imperialisti
e Paesi con sviluppo separato, né investimenti stranieri, richieste
di prestiti, ecc. Sino alla seconda guerra mondiale uscirono dal mercato globale
Russia e Mongolia, dopo la seconda guerra mondiale i Paesi dell'Europa Orientale,
quindi la Cina, la Corea del Nord, Cuba, il Vietnam, il Laos, la Cambogia,
l'Afghanistan. 5) Dal 1990 ad oggi. L'URSS si scioglie e insieme ai Paesi dell'Europa
Orientale si apre al mercato globale. Pur spesso in assenza
di una rivoluzione politica la stessa cosa accade anche in Cina, Cuba, Vietnam,
Mongolia, Laos, Cambogia, Afghanistan. Questo cambiamento non è stato
ovviamente repentino, ma preparato da una graduale apertura da parte della
Cina e da un crescente indebitamento dei Paesi dell'Europa dell'Est nel corso
degli anni ottanta.
AMMONTARE
ANNUALE DELLE ESPORTAZIONI MONDIALI (in
miliardi di dollari)
Fonte:
Piot Finance et économie, la fracture, 1995
Altre caratteristiche
che sono normalmente considerate tipiche della globalizzazione, sono
invece tipiche più in generale dell'imperialismo, cioè,
detto in parole povere, ci sono sempre state, anche se magari in diverse forme.
La globalizzazione insomma non è un nuovo sistema di dominio, ma
l'estensione senza precedenti di quello vecchio. Gli effetti di questa
apertura non si sono potuti pienamente dispiegare all'inizio degli
anni novanta, perché si è verificata una crisi recessiva internazionale
durata sino al 1993. Ma oggi ci siamo dentro in pieno, e dobbiamo comunque
tener conto che la fase è appena ai suoi inizi e, a meno di rivoluzioni,
è destinata a durare decenni. Dobbiamo
inoltre distinguere la globalizzazione, che è una fase dell'imperialismo,
cioè di un complesso sistema economico, dalle politiche neoliberiste
inaugurate all'inizio degli anni ottanta da Reagan e dalla Thatcher. Tra i
due fenomeni non vi è alcuna relazione perché sono di natura
diversa. Anche se Reagan e Thatcher non fossero mai esistiti, la globalizzazione
ci sarebbe stata lo stesso. I mercati chiusi come l'URSS e la Cina
infatti avevano già fallito da tempo il loro tentativo di vincere in
termini di produttività la battaglia contro gli imperialismi, per molte
ragioni che qui non indaghiamo. La corsa agli armamenti di Reagan ha solo
accelerato un po' un destino che, in assenza di una rivoluzione sociale in
quei Paesi, era inevitabile. Certo possiamo dire che l'ideologia neoliberale
è senz'altro quella più consona ad accompagnare e giustificare
la globalizzazione. Il suo nocciolo è costituito dalla fede che le
forze del mercato, se lasciate libere di esprimersi, potranno aggiustare
qualsiasi stortura del sistema e dunque, con il tempo, anche temperare le
ingiustizie sociali, ecc. Questa ideologia però era nel corso degli
anni ottanta minoritaria, mentre nella fase entrante della globalizzazione
ha dilagato in ogni dove, così come nei secoli passati l'ideologia
evangelizzatrice ha accompagnato i conquistadores spagnoli nella prima fase
di espansione dell'imperialismo, l'ideologia del progresso ha accompagnato
i vascelli inglesi alla conquista dell'Asia, e l'ideologia anticomunista ha
accompagnato la lotta per la reintegrazione dell'Asia e dell'Europa dell'Est
nel mercato imperialista. Il fatto comunque che l'ideologia neoliberale
sia stata rilanciata con successo negli anni ottanta, ha costituito elemento
di facilitazione per il successo della nuova fase. Sottolineiamo comunque
che, in presenza di determinate condizioni sociali (ad esempio grandi mobilitazioni
operaie), potremmo assistere ad un ritorno di fiamma di politiche keynesiane
nei Paesi imperialisti, pur nel contesto di una economia globalizzata; ovvero,
detto in parole povere, a politiche ridistributive interne ai Paesi
imperialisti della ricchezza prodotta dal saccheggio imperiale. Non dobbiamo
nemmeno confondere la fase della globalizzazione con il generale riflusso
del movimento operaio. Esso risale per quanto riguarda USA ed Europa alla
fine degli anni settanta, e per quel che riguarda l'America Latina e l'Asia
alla fine degli anni ottanta. Una eventuale ascesa delle lotte operaie non
avrebbe in alcun modo evitato il collasso degli stati burocratici che si autodenominavano
comunisti. Certo, il fatto che il movimento operaio sia in ogni dove
sulla difensiva, ha certamente permesso alle classi dominanti dei Paesi imperialisti
di muoversi con grande disinvoltura e audacia e imboccare senza esitazioni
la strada della globalizzazione. Le conseguenze
dirette della globalizzazione: l'accrescersi della concorrenza tra gli imperialismi
torna sopra Sino a quando
tutti gli imperialismi erano impegnati a recuperare o contenere i territori
sfuggiti al loro dominio (blocco dell'URSS, Cina, ecc.), erano tra loro piuttosto
solidali. Chiamavano questa solidarietà in vari modi, ad esempio "l'unione
del mondo libero", definivano se stessi "le democrazie", ecc.
E avevano creato tutta una serie di strutture militari (NATO, ANZUS, ecc.)
per contenere la possibilità che altri territori sfuggissero al loro
dominio, nella speranza che anche quelli già persi tornassero nelle
loro mani. In pratica
però tutti gli imperialismi avevano delegato gli USA a occuparsi della
sicurezza del sistema imperiale del pianeta. Da un lato gli USA si avvantaggiavano
di questa condizione rafforzando la propria industria legata direttamente
o no alle armi (aeronautica, elettronica, spazio, ecc.) e ricavando vantaggi
dalla propria influenza politica nel mondo per le proprie industrie; dall'altro
Europa e Giappone potevano approfittare della propria deresponsabilizzazione
per intessere legami vantaggiosi con stati che si contrapponevano agli USA
(mondo arabo, ecc.) e per evitare pericolosi conflitti interni che sarebbero
scoppiati in caso di coinvolgimento in qualche guerra. Le tensioni commerciali
tra i vari imperialismi erano dunque tutti sottotraccia, nascosti e codificati.
E ognuno faceva di tutto per ridurli al minimo. Con la nuova fase non vi è
più bisogno di questa stretta alleanza. Le uniche alleanze sono quelle
utili, come vedremo più sotto, a tenere a bada i Paesi dipendenti.
Per il resto gli anni novanta hanno già visto una infinità di
conflitti e di contraddizioni tra imperialismi, ad un livello senza precedenti
da sessanta anni. Si veda ad esempio la guerra condotta in campo aeronautico
(tra Boeing e Airbus), il contenzioso sempre aperto sui prodotti agricoli,
i dissensi europei sullo scudo spaziale, le proteste riguardo Echelon (il
sistema di spionaggio di tutto il traffico internet gestito da USA e Regno
Unito e che ha fatto assai arrabbiare l'Unione Europea senza che le sue proteste
sortissero alcun ascolto), ecc. Questa concorrenza non farà che accrescersi
in futuro. Gli USA sono complessivamente più deboli dell'insieme delle
potenze europee, ma godono di due vantaggi: il primo è che sono già
unificati e il secondo che dispongono di una potenza militare senza confronti
e che costituisce un forte strumento di ricatto. Per combattere
meglio la propria battaglia gli imperialismi si stanno organizzando in
blocchi continentali. I piccoli imperialismi europei si sono accorti che
da soli non potevano competere con gli USA e con il Giappone, specie dopo
che la crisi dei regimi burocratici faceva intravedere un'accrescersi della
concorrenza internazionale per la conquista dei nuovi mercati. Non è
un caso che Maastricht, cioè la decisione di arrivare ad una divisa
unica europea, sia stata sottoscritta nel 1992. La prospettiva, anche se sul
processo ci sono tra i vari stati europei i più diversi disegni, è
quella della formazione di una entità politica con una popolazione,
un PIL e un apparato industriale e bancario il più possibile concentrato,
che possa competere con il blocco americano e asiatico. Gli USA sono già
uno stato unificato, ma hanno comunque reagito con la formazione di un'area
di libero scambio che coinvolge tutto il Nord America: il NAFTA, sottoscritto
nel 1992. Oggi USA e Canada pianificano una estensione di tale accordo a tutta
l'America (ALCA) scoraggiando gli accordi regionali che autonomamente avevano
intessuto alcuni Paesi Latinoamericani (Pacto Andino e Mercosur). Il Giappone,
scosso dall'inizio degli anni novanta da una crisi economico-sociale dalla
quale non riesce a uscire, non sta mostrando la stessa capacità di
iniziativa. E' bene comprendere
che in questa concorrenza tra imperialismi non vi sono buoni e cattivi. I
conflitti che li dividono devono essere letti al di là delle facili
interpretazioni su un presunto attaccamento delle classi dominanti europee
ad un modello sociale progressista: se queste ne avessero la possibilità
instaurerebbero il modello statunitense dall'oggi al domani. Il problema è
che non se lo possono permettere. La differenza sostanziale che vi è
ancora oggi tra Europa continentale e USA (simili in questo al Regno Unito)
è la perdurante, anche se declinante, forza del movimento operaio europeo,
che rende difficile qualsiasi politica di draconiano intervento sul welfare.
I cinquanta anni in cui gli USA hanno svolto il ruolo di gendarmi del mondo,
hanno fatto dimenticare che i peggiori massacri nella storia dell'umanità
li hanno commessi gli europei. I "dubbi" degli europei sugli ogm
non sono dovuti a chissà che preoccupazione per i propri cittadini
(che non si manifesta in alcun modo a proposito delle onde emesse dai telefonini,
campo in cui l'Europa è prima al mondo), ma semplicemente al fatto
che in quel settore sono molto più indietro degli USA. L'indignazione
per lo spionaggio industriale portato avanti da Echelon, non è certo
morale, o dovuto ad una maggior attaccamento alla privacy, ma
semplicemente al fatto che l'Europa continentale non ha i mezzi tecnici per
dotarsi di un simile sistema di controllo. Le conseguenze
dirette della globalizzazione: l'unità dei Paesi imperialisti contro
i Paesi dipendenti torna
sopra I Paesi imperialisti,
pur divisi dalla concorrenza, trovano subitaneamente la loro unità
quando si tratta di difendere i propri interessi collettivi di fonte
a quelli dei Paesi dipendenti. Nella fase della globalizzazione aumentano
le possibilità di profitto per gli imperialisti, ma anche i pericoli.
Dobbiamo decodificare le preoccupazioni espresse dai dominatori del mondo
e che spesso vengono coperte da una coltre di ideologia. Ad esempio l'ossessione
per i gruppi terroristi che potrebbero minacciare l'America con la bomba atomica
deve essere letta in questo modo: "prima c'era l'URSS dalla quale eravamo
divisi, ma il cui comportamento era prevedibile e con la quale si poteva comunque
arrivare a degli accordi, ma ora, se vi è uno stato che si ribella,
con una direzione che non teme lo scontro e che è disponibile a utilizzare
armi atomiche, come ci si può difendere? In poche parole, come possiamo
difenderci da questo mondo dipendente che noi stessi abbiamo creato,
ma le cui turbolenze potrebbero metterci in pericolo?" La percezione
che hanno gli imperialisti non è così pazzesca: il mondo si
avvia a divenire un inferno per la gran parte delle persone dei Paesi dipendenti
che si troveranno ad assediare una cittadella di benessere, quella dei Paesi
imperialisti. La globalizzazione è vista come una grande potenzialità,
ma se ne avverte l'oscura minaccia. La discussione sullo scudo spaziale ha
questa base, con l'aggiunta che serve ad adeguare il potenziale bellico russo
al rango attuale di quello stato, che è espressione di un Paese dipendente,
mentre ora dispone di un arsenale che può gareggiare con gli USA, Paese
imperialista. Le perplessità europee riguardo allo scudo spaziale
non riguardano affatto problematiche etiche, ma di opportunità.
Dare il via al progetto USA significa delegare di nuovo gli USA a difendere
militarmente gli interessi globali degli imperialismi, ma ora non possono
fidarsi, perché siamo in una fase di acutizzazione della concorrenza
tra imperialismi, e quelli europei non vedono nessuna buona ragione per dare
dei vantaggi ad un avversario. Solo a una condizione potrebbero accettare:
se si dimostrasse loro che davvero un simile investimento servirebbe
esclusivamente contro i Paesi dipendenti e non magari tra un non lontano futuro
contro loro stessi o i loro alleati o i loro interessi. Del resto la ragione
per cui nella fase della globalizzazione gli interventi imperialisti nei Paesi
dipendenti sono sempre multinazionali, risiede anche nel fatto
che ciò rassicura tutti i vari imperialismi che l'intervento servirà
a difendere gli interessi complessivi dell'imperialismo e non di uno
solo: guerra del Golfo ('91-oggi), Somalia ('92-'95), Bosnia ('95-oggi),
Kosova ('99-oggi), Timor ('99-oggi). I Paesi imperialisti
devono inoltre mantenere un certo livello di unità per salvaguardare
i propri investimenti e i prestiti concessi ai Paesi dipendenti. La
forma concreta di questa alleanza sono istituti internazionali quali
Il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale, all'interno dei quali
conta di più chi più ha soldi, dunque i Paesi imperialisti.
Quando un Paese dipendente non riesce a pagare gli interessi sui debiti intervengono
direttamente i funzionari di questi istituti che impongono dei piani di aggiustamento
strutturale che hanno sempre per fine aprire ulteriormente quei
mercati, eliminandone le residue difese nei confronti del capitale internazionale.
Notiamo comunque che questa dinamica è stata inaugurata prima
dell'allargamento del mercato mondiale, già nel corso degli
anni ottanta. Il dato nuovo è che mentre prima i Paesi imperialisti
si preoccupavano di far smantellare lo stato sociale e far saltare i prezzi
calmierati (come quelli della benzina, del pane, ecc.), negli anni novanta
spingevano invece soprattutto per la privatizzazione dei beni e dei servizi
dello stato. Un'altra istituzione che vede uniti i Paesi imperialisti è
il WTO che risponde ad una esigenza essenziale: far rispettare le regole del
commercio, il che significa la proprietà intellettuale, eliminare
progressivamente i dazi, ecc. Tutte regole che fanno comodo ai Paesi imperialisti
che possiedono gran parte dei brevetti e che hanno la possibilità di
far circolare merci a più basso costo. Si tratta
di terreni di unità d'azione a danno dei Paesi dipendenti, mentre
invece nei rapporti tra loro i Paesi imperialisti non si risparmiano i colpi.
Queste contraddizioni tra imperialismi emergono comunque ogni volta che un
imperialismo tenta di stabilire rapporti privilegiati ed escludenti con un
Paese dipendente. Nell'Africa subsahariana ad esempio è evidente un
prolungato conflitto provocato dall'intenzione degli USA di scalzare la posizione
preminente della Francia. Del resto l'Europa vede con molto fastidio la presenza
di una Israele che è, dal punto di vista geopolitico, una sorta di
gigantesca base militare USA in un territorio strategico per la presenza del
petrolio, e per questo (e non certo per un loro supposto attaccamento
per i diritti umani), si dedicano a qualche blanda azione di disturbo, come
un leggero sostegno alla causa palestinese. Per tutte
queste ragioni è semplicistico immaginare che esista una sorta di governo
unico dell'imperialismo mondiale. Esistono invece precarie alleanze tutte
costruite in funzione del mantenimento dei privilegi nei confronti dei Paesi
dipendenti.
32.350
-
29.240
-
26.570
-
4.630
17,4
3.310
35,8
2.260
25,1
750
53,7
640
66,1
440
86,2
Fonte:
Banca Mondiale
Stati
e multinazionali torna
sopra Per le ragioni
sopra esposte non è vero che la crescente potenza delle multinazionali
tenda a superare la forma stato. E' sicuramente corretto sottolineare
come la globalizzazione acceleri la tendenza già connaturata al capitalismo
alla concentrazione di capitali, altra cosa è affermare
che dunque siamo in presenza di un deperimento delle forza degli stati.
Al contrario, gli stati si rafforzano, e per due ragioni. La prima
è che, dato l'aumento della concorrenza tra imperialismi, questi tendono
ad appoggiarsi ai rispettivi stati per difendere i propri interessi
e quelli delle proprie multinazionali. Molto tipica ad esempio è
la lotta tra multinazionali dell'energia: in ogni battaglia che si scatena
a livello mondiale per l'appropriarsi delle riserve o l'acquisizione del controllo
di questa o quella azienda, si mobilitano subito anche i governi nazionali.
Le multinazionali USA in generale poi, si avvalgono della struttura militare-spionistica
possente del proprio stato per combattere la concorrenza europea e
giapponese. Per far decollare la costituzione di una multinazionale europea
dell'aeronautica (Airbus) che si contrapponesse alla Boeing USA, ci sono voluti
anni di sforzi degli stati tedesco, inglese, francese, italiano e spagnolo. Del resto
anche per tenere a bada i Paesi dipendenti e assicurare il loro sfruttamento,
c'è bisogno degli apparati statali, del loro potenziale militare,
ma non solo: serve una continua sorveglianza sui processi politici che si
svolgono nei Paesi dipendenti e dunque la capacità di immettere denaro,
corrompere, spiare, complottare, compiti che certamente non può assumersi
a livello globale una multinazionale. C'è bisogno di un apparato
statale, cioè di un comitato di affari della borghesia,
perché lo stato imperialista è direttamente al servizio delle
proprie multinazionali, e in generale del proprio capitalismo.
Mettere l'accento sul deperimento degli stati ci pare che, involontariamente,
spinga a una certa deresponsabilizzazione nella lotta contro il proprio
stato, e ad una sottovalutazione dei compiti di lotta più strettamente
politica. Alcuni fanno
derivare l'idea che lo stato stia per essere superato, dal processo di unificazione
europea che costringe i singoli stati nazionali a delegare parti consistenti
della propria sovranità ad una entità che li trascende. E' però
un grosso errore di valutazione: l'unificazione europea corrisponde non
ad un processo di dissoluzione degli stati, ma alla lenta e faticosa
costruzione di un nuovo superstato, che possa contrapporsi a USA e
Giappone. Infine non
è vero che gli imperialismi puntino alla dissoluzione e alla frammentazione
degli stati. Al contrario è un processo che oggi temono, perché
possibile generatore di tensioni e instabilità. Per questo la zona
curda dell'Iraq non è mai stata spinta alla secessione, per questo
si frena il Montenegro nella sua voglia di separarsi dalla Federazione Jugoslavia,
per questo quando si sono verificati due episodi di dissoluzione di stati
(Somalia 1992, Albania 1997) gli imperialismi sono subito intervenuti aiutando
a ricostruirli. Solo la presenza di uno stato, vassallo ma stato,
può consentire uno sfruttamento ordinato e senza scosse del Paese dipendente. Le conseguenze
economiche della globalizzazione torna
sopra Non vi è
alcuna conseguenza economica della globalizzazione che non fosse già
presente nelle precedenti fasi dell'imperialismo. In questa nuova fase però
le dinamiche già presenti acquisiscono una velocità e una efficienza
prima sconosciuta. La prima
è la concentrazione del capitale. Essa prende la forma delle
fusioni e delle acquisizioni di aziende. Il processo è facilmente visibile
nel mondo dell'auto. Nella storia secolare dell'automobile i produttori mondiali
sono andati con il tempo diminuendo in maniera costante. Si è trattato
di un processo che decennio dopo decennio ha visto ad esempio la FIAT in Italia
divenire l'unico produttore nazionale. Processi simili avevano portato a tre
i produttori statunitensi, alla sparizione di produttori spagnoli e inglesi,
ecc. Ma con la globalizzazione il processo si è velocizzato e abbiamo
così visto in poco tempo la Chrysler cadere in mani tedesche, fallire
la Daewoo, accordarsi strategicamente FIAT e General Motors. Alla fine degli
anni novanta nel campo dell'aeronautica civile due gruppi assicurano il 95%
della produzione mondiale, nelle apparacchiature per telecomunicazioni quattro
gruppi coprono il 70% delle vendite mondiali, nel commercio delle sigarette
4 gruppi occupano l'87% del mercato, ecc. Nel giro di pochi anni abbiamo visto
sorgere un intero nuovo ramo di produzione, quello della new economy,
che in meno di dieci anni conosce la prima crisi che già sta portando
ad una selezione naturale e all'emergere di alcuni grossi protagonisti.
La concentrazione è dettata dalla ragione che spiegavamo più
sopra: l'accrescersi della concorrenza internazionale, solo dimensioni notevoli
permettono di sopravvivere alle battaglie mondiali. Per questo quando non
ci pensa il mercato sono gli stessi apparati statali a spingere alla
concentrazione: è quanto sta accadendo in Italia nel sistema bancario
sotto la regia della Banca d'Italia. La seconda
è quella di spingere gli stati a liberarsi il più possibile
delle loro proprietà suscettibili di produrre profitti. E' ciò
che viene chiamata privatizzazione. Si tratta di un movimento simile
a quanto avvenuto con il mercato mondiale: dal punto di vista del capitale
privatizzare significa aprire un territorio, che sino a quel
momento gli era rimasto precluso. Ciò significa trasformare entità
che erano nate come erogatrici di servizi, in aziende capitaliste che cercano
profitti in maniera aggressiva anche all'estero. Privatizzare l'ENEL ad esempio
significa terminare con l'energia come servizio pubblico, creando una multinazionale
che compete nel mercato internazionale con le aziende degli altri imperialismi.
La contemporanea debolezza del movimento operaio facilita da parte del capitale
la liberazione di settori anche i più impensabili, basti pensare
al crescente business dei cimiteri privati e delle carceri private. La terza
è una più accentuata finanziarizzazione dell'economia
mondiale. Anche qui non vi è alcuna vera novità. Del ruolo fondamentale
del sistema bancario nell'epoca dell'imperialismo parlava già Lenin.
In questa fase vi è però una indubbia accentuazione del fenomeno,
che non riguarda però solo le banche, ed è legata alla tendenza
del capitale sopra descritta ad invadere ogni sfera pubblica. La crescita
delle assicurazioni private con compiti previdenziali negli USA ad esempio,
prelude anche a qualche cosa che si accentuerà sempre più anche
in Europa. La presenza di queste assicurazioni ha dato infatti al capitalismo
statunitense una forza finanziaria senza rivali, alla quale l'Europa si sente
di dover rispondere per non soccombere nel confronto globale. La tendenza
alla finanziarizzazione è stata spesso interpretata come una sorta
di superamento dell'economia basata sulla produzione di merci, e all'avvento
di un'epoca caratterizzata dallo strapotere della speculazione. In
realtà proprio le varie cadute della borsa stanno a testimoniare
di una dinamica finanziaria che tende sempre a ritornare su una base
materiale produttiva. La speculazione non è affatto irrazionale, obbedisce
invece ad una profonda razionalità del sistema, essa costituisce un
potente strumento di selezione naturale dei produttori di profitto e dei loro
apparati statali. La speculazione colpisce chi è già debole,
e lo distrugge, costringendo a concentrare e razionalizzare. Le manovre speculative
che hanno colpito nella metà degli anni novanta Italia e Regno Unito,
costringendole a uscire dalla banda di oscillazione delle valute, obbediva
ad una profonda razionalità economica: Italia e Regno Unito
effettivamente disponevano di una base materiale che non corrispondeva
più alla valutazione delle proprie valute, che si sono rafforzate,
senza più subire attacchi speculativi, solo dopo le finanziarie
della seconda metà degli anni novanta che hanno disciplinato l'Italia
entro i parametri di Maastricht. La visione del crollo di borsa come dissolvitore
di ricchezze, è falso: vi è solo un adeguamento improvviso alla
base economica materiale, non strettamente finanziaria. Quarto: la
delocalizzazione. Si tratta anche in questo caso di un fenomeno certo
non nuovo per l'imperialismo: le fabbriche automobilistiche europee in Brasile
risalgono agli anni cinquanta. Ma: la globalizzazione, unita al riflusso
del movimento operaio, ha reso enormemente più facile la possibilità
di spostare continuamente pezzi di produzione da un Paese all'altro, approfittando
delle migliori condizioni. Ciò si traduce, tra l'altro, in un ricatto
permanente nei confronti della classe lavoratrice dei Paesi imperialisti. Infine una
precisazione. Viene spesso confusa la globalizzazione con la rivoluzione tecnologica
dovuta ai nuovi mezzi di comunicazione. Questa interpretazione dei fatti economici
vedendone la radice in presunte "rivoluzioni tecnologiche", non
è nuova. Ancora oggi molti divulgatori invece di sottolineare le ragioni
sociali ed economiche dell'origine del capitalismo, fanno risalire l'inizio
della rivoluzione industriale all'invenzione del cavallo a vapore. In realtà
gran parte delle "scoperte" non hanno alcuna possibilità
di essere diffuse e di avere successo prima che ve ne siano le condizioni
economiche. Internet è stata inventata molto prima della sua
esplosione nella prima metà degli anni novanta, ma solo in un mondo
globalizzato, ha assunto una tale importanza economica e sociale. Per la stessa
ragione una serie di tecnologie che sono già a disposizione come l'energia
solare, l'auto elettrica, la robotizzazione, ecc. non esplodono, perché
ancora non ci sono le condizioni economiche per la loro esplosione.
E' chiaro che le nuove tecnologie comunque, una volta diffuse, contribuiscono
a loro volta a velocizzare i processi economici. Le conseguenze
sociali della globalizzazione torna
sopra Le conseguenze
sociali della globalizzazione invece, non costituiscono una sostanziale novità
nella storia dell'imperialismo. Guerre, fame, ingiustizie sociali, migrazioni,
lavoro minorile, hanno da sempre costituito il telone di fondo insanguinato
davanti alla quale gli imperialismi celebravano i loro fasti. Il colonialismo
ad esempio comportò la morte diretta e indiretta di centinaia di milioni
di persone. Non si tratta comunque di una buona ragione per considerare con
sufficienza le denunce che oggi vengono fatte del comportamento delle multinazionali
e dei loro apparati statali. Se la coscienza delle conseguenze sociali dell'imperialismo
è oggi più diffusa di ieri è un fatto estremamente positivo.
Dato però che ne parliamo ampiamente in altre parti della rivista e
considerando che non si tratta di un dato originale della globalizzazione,
non ci occuperemo in questo articolo di lavoro infantile, prostituzione globalizzata,
immigrazione forzata, diffusione delle malattie, ecc. Cionondimeno
alcune di queste conseguenze sociali si sono acuite notevolmente. E
in questo senso costituiscono una tipicità di questa fase. Dato
che le multinazionali e gli imperialismi non dispongono di una cupola con
compiti di pianificazione strategica, ma sono mossi da spinte immediatiste
per la ricerca del profitto in un ambito di accresciuta concorrenza internazionale,
non hanno la possibilità di pianificare alcunché; o per lo meno
ciò risulta loro estremamente difficoltoso. Per questo una serie di
eventi catastrofici si stanno preparando minacciando la stessa sopravvivenza
dell'umanità, anche quella dei Paesi imperialisti. Tra questi citiamo:
l'aumento dell'inquinamento, l'aumento della temperatura, la penuria di acqua,
la deforestazione. I Paesi imperialisti sono gli unici che potrebbero fermare
questo disastro ambientale e sociale incombente. E' ipocrita da parte dei
Paesi imperialisti accusare il Brasile o l'Indonesia di distruggere le loro
foreste quando gli europei hanno distrutto le proprie da circa nove secoli
e sono i diretti responsabili della deforestazione di quelli dipendenti: gli
incendi nella gran parte dei casi sono accesi da piccoli contadini ridotti
alla disperazione dalla concorrenza del mercato mondiale e dalla presenza
di latifondi di proprietà imperiale. Le contraddizioni
interne alla globalizzazione torna
sopra Ogni fase
dell'imperialismo aveva al suo interno contraddizioni che alla fine hanno
costretto al passaggio, a volte traumatico, ad una nuova fase. Comprendere
queste contraddizioni interne significa da parte del movimento antiglobalizzazione
individuare i possibili soggetti della trasformazione. Una trasformazione
che per essere reale, lo accenniamo di sfuggita in questo articolo, non può
che essere rivoluzionaria, cioè portare alla liberazione totale e senza
compromessi del pianeta dalla barbarie imperiale. La prima
contraddizione interna è quella che porta ad una potenziale dinamica
di contrapposizione tra Paesi dipendenti e Paesi imperialisti. Questi
ultimi saranno portati ad utilizzare in sempre maggior misura (perché
spinti dalla concorrenza) i propri privilegi, approfondendo il solco e innescando
così reazioni democratiche e antimperialiste nei Paesi dipendenti.
62,9
72,4
37,1
27,6
Fonte:
FAST, 1993
Un esempio
di possibili conflitti futuri è quello dei farmaci anti AIDS prodotti
a basso costo da Sud Africa e Brasile, in cui un ruolo essenziale l'hanno
giocato anche la solidarietà di una parte della società dei
Paesi imperialisti. La seconda
contraddizione interna risiede nella facilità con cui gli imperialismi
possono spostare le produzioni da un Paese all'altro: produrrà
una diminuzione dei salari dei lavoratori dipendenti dei Paesi imperialisti,
dato che in un mondo globalizzato anche la merce-lavoro sarà posta
su un piano di concorrenza globale inducendo un certo appiattimento al ribasso,
o a una immigrazione di massa. Per le multinazionali cioè l'alternativa
offerta ai cittadini dei Paesi imperialisti sarà chiara: o accettate
che vengano masse di immigrati, o spostiamo le produzioni nei Paesi dipendenti.
In tutti e due i casi si avrà una estensione del lavoro dipendente
mal pagato e precario nei Paesi imperialisti, con potenziali alleanze e sintonie
coi popoli dei Paesi dipendenti. Lo spostamento di attività produttive
nei Paesi dipendenti del resto porta là all'accrescersi di una classe
operaia nuova e giovane. Basti pensare alla Corea: dieci anni fa i mass media
ci cantavano le lodi di una classe operaia completamente assuefatta alla produzione
toyotista, oggi è all'avanguardia delle lotte sindacali nel mondo. La facilità
della comunicazione e dello scambio avvantaggia senz'altro le classi
dominanti, e tuttavia mai come oggi è stato politicamente e tecnicamente
possibile lo scambio e l'organizzazione internazionale dei soggetti sociali
oppressi. Se oggi è possibile immaginare consigli d'azienda transnazionali,
è ugualmente possibile immaginare sindacati internazionali, ecc. La concorrenza
tra imperialismi porta come abbiamo visto alla deresponsabilizzazione
verso le sorti del pianeta. Ciò colpisce anche quelle fasce di lavoratori
privilegiati dei Paesi imperialisti (apparato statale, ceti impiegatizi e
tecnici, ecc.) e che non sono colpiti in maniera diretta da altri effetti
della globalizzazione. Si apre su questo piano un terreno di unità
d'azione con i cittadini dei Paesi dipendenti.
2) Dal 1500 alla metà del sec. XVIII. Il mercato imperialista si allarga
sino a comprendere tutta l'America (più qualche piccola colonia in
Africa e Asia, anche se assai influenti dal punto di vista economico).
1979
1984
1986
1990
1994
CONFRONTO
TRA I PRIMI TRE PAESI IMPERIALISTI (in grassetto)
E I PRIMI SEI PAESI DIPENDENTI -E9- (primi
per PIL e popolazione, in dollari, 1998)
PNL
procapite, 1998, in dollari
%
di popolazione che guadagna meno di 2 dollari al giorno (media 93-99)
Giappone
USA
Germania
Brasile
SudAfrica
Russia
Cina
Indonesia
India
PERCENTUALE
RELATIVA DI MERCATO MONDIALE DEI MANUFATTI (esportazioni)
Membri
OCDE (Paesi più industrializzati)
Resto
del mondo