Cosa è la globalizzazione.
La globalizzazione è una fase particolare dell'imperialismo caratterizzata dall'apertura senza precedenti dei mercati. Dell'imperialismo mantiene dunque tutti i suoi tratti caratteristici e tipici. Per questo consideriamo propedeutica la lettura del nostro documento Paesi imperialisti e Paesi dipendenti. Cionondimeno, in quanto fase particolare, la globalizzazione ha proprie peculiarità che indagheremo in questo scritto. Luglio 2001. REDS.


 

Il nocciolo della globalizzazione: l'estensione senza precedenti del mercato mondiale

Le conseguenze dirette della globalizzazione: l'accrescersi della concorrenza tra gli imperialismi

Le conseguenze dirette della globalizzazione: l'unità dei Paesi imperialisti contro i Paesi dipendenti

Stati e multinazionali

Le conseguenze economiche della globalizzazione

Le conseguenze sociali della globalizzazione

Le contraddizioni interne alla globalizzazione

 

Il nocciolo della globalizzazione: l'estensione senza precedenti del mercato mondiale  torna sopra

Il dominio dei Paesi imperialisti sul resto del mondo ha conosciuto fasi alterne. Per dominio non intendiamo necessariamente un controllo politico diretto di tipo coloniale, che pure ha avuto larga fortuna negli ultimi cinque secoli, ma un dominio economico che spesso si traduce comunque in una fortissima influenza politica. Ad esempio i Paesi dell'America Latina si liberarono dal dominio politico della Spagna all'inizio del sec.XIX, ma non si liberarono mai del dominio economico di un qualche imperialismo, prima quello spagnolo e portoghese, poi quello inglese, quindi quello statunitense ed europeo. Questo dominio come abbiamo già visto viene chiamato dagli imperialismi "apertura del mercato". Per Paesi aperti i vari imperialismi intendono quelli che sono disponibili a farsi usare come territorio di caccia da parte del capitale imperiale. I Paesi che perseguono invece uno sviluppo autonomo vengono chiamati chiusi, e gli imperialismi fanno di tutto, compreso le guerre, per aprirli, al loro dominio economico, che comunque chiamano "sviluppo", "progresso", "civiltà".

Nel 1500 il dominio dei Paesi imperialisti non andava molto al di là degli stessi confini europei. Il sistema economico di questi Paesi era quello capitalistico, anche se non ancora nella sua fase industriale; dato che il valore era creato soprattutto dal commercio e in maniera più ridotta dalla produzione di merci, questo capitalismo è da molti chiamato commerciale. Nel resto del pianeta gli altri popoli erano impegnati in sviluppi autonomi (Cina, India, America, ecc.), senza però raggiungere in tempo, al fatidico appuntamento del 1500, un grado di sviluppo che consentisse loro un grado tale di ricchezza e una complessità della struttura sociale tali da poter affrontare l'attacco europeo. Ad esempio le civiltà dell'America erano ad uno stadio di sviluppo che l'Europa occidentale aveva superato da più di un migliaio di anni. Non stiamo affermando, quando parliamo di sviluppo, che le civiltà europee fossero più umane, progressive e felici di quelle americane. Né le une né le altre ci entusiasmano, dato che si trattava comunque di società dispotiche e fondate sullo sfruttamento delle grandi masse. Semplicemente l'Europa era economicamente più ricca, e dunque con un più netto progresso tecnologico, e dunque militare. Per questo sconfissero tutti coloro che si opposero in questi secoli al dominio imperialista sul mondo.

Alla fine del XVIII secolo si affiancarono ai Paesi europei, come nuova potenza imperialista, gli USA, poi tra la fine del XIX e l'inizio del XX sec. il Canada, il Giappone, l'Australia e la Nuova Zelanda. Vi erano entità politiche che ambivano a questo rango (ad esempio Cina, Impero Ottomano, ecc.), ma i Paesi imperialisti fecero, tra l'altro, leva sul debito per sconfessarne le ambizioni. Il resto del pianeta fu gradualmente "conquistato", ma a fasi alterne e con qualche ritorno indietro. Dal punto di vista dell'apertura del mercato, cioè dell'estensione del territorio di caccia degli imperialismi, possiamo distinguere questi periodi:

1) Fino al 1500. Il mercato è confinato sostanzialmente alla stessa Europa.
2) Dal 1500 alla metà del sec. XVIII. Il mercato imperialista si allarga sino a comprendere tutta l'America (più qualche piccola colonia in Africa e Asia, anche se assai influenti dal punto di vista economico).

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3) Dalla metà del sec. XVIII al 1917. Il mercato si allarga sino a comprendere l'Africa, l'Oceania, la Russia, l'Asia. Non sempre questo dominio si attuò con le conquiste coloniali: la Cina fu sottomessa attraverso guerre che imposero determinate condizioni commerciali, la Russia attraverso il debito e la dipendenza tecnologica, ecc.

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4) Dal 1917 alla fine degli anni ottanta. Il mercato mondiale si restringe. Una serie di rivoluzioni separano lo sviluppo economico di alcuni stati da quello degli imperialismi, creando mercati chiusi. In pratica cioè, non vi era scambio commerciale significativo tra Paesi imperialisti e Paesi con sviluppo separato, né investimenti stranieri, richieste di prestiti, ecc. Sino alla seconda guerra mondiale uscirono dal mercato globale Russia e Mongolia, dopo la seconda guerra mondiale i Paesi dell'Europa Orientale, quindi la Cina, la Corea del Nord, Cuba, il Vietnam, il Laos, la Cambogia, l'Afghanistan.

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5) Dal 1990 ad oggi. L'URSS si scioglie e insieme ai Paesi dell'Europa Orientale si apre al mercato globale. Pur spesso in assenza di una rivoluzione politica la stessa cosa accade anche in Cina, Cuba, Vietnam, Mongolia, Laos, Cambogia, Afghanistan. Questo cambiamento non è stato ovviamente repentino, ma preparato da una graduale apertura da parte della Cina e da un crescente indebitamento dei Paesi dell'Europa dell'Est nel corso degli anni ottanta.

In breve, dal 1990 si è aperta una fase senza precedenti nello sviluppo mondiale del capitalismo. Per la prima volta l'intero pianeta è territorio di caccia degli imperialismi, senza ostacoli. Si dirà che una fase simile era già stata attraversata alla fine del sec.XIX sino alla rivoluzione russa (l'epoca d'oro del colonialismo, spesso chiamata periodo imperialista, ma noi ci rifiutiamo di confinare il fenomeno imperialista a quei pochi decenni). E' vero solo in parte. Il colonialismo faceva sì che una fetta consistente del pianeta fosse costituita da territori di caccia esclusivi di un imperialismo o di un altro. Nell'Impero britannico ad esempio, che era il più consistente, nessun altro imperialismo aveva una qualche possibilità di proporre le proprie merci. Oggi invece tutto il pianeta è "libero" da tutele esclusive di un singolo imperialismo, tutti gli imperialismi possono competere per imporre la propria dominazione economica senza essere ostacolati da proprietà coloniali. Dunque per globalizzazione si deve intendere l'apertura e l'estensione senza precedenti del mercato mondiale. E' questa caratteristica a separare questa fase dalle precedenti nella lunga vicenda dell'imperialismo moderno.
 

AMMONTARE ANNUALE DELLE ESPORTAZIONI MONDIALI

(in miliardi di dollari)

1979

1546
1984

1800
1986

1998
1990

3429
1994

4269

 

Fonte: Piot Finance et économie, la fracture, 1995

Altre caratteristiche che sono normalmente considerate tipiche della globalizzazione, sono invece tipiche più in generale dell'imperialismo, cioè, detto in parole povere, ci sono sempre state, anche se magari in diverse forme. La globalizzazione insomma non è un nuovo sistema di dominio, ma l'estensione senza precedenti di quello vecchio. Gli effetti di questa apertura non si sono potuti pienamente dispiegare all'inizio degli anni novanta, perché si è verificata una crisi recessiva internazionale durata sino al 1993. Ma oggi ci siamo dentro in pieno, e dobbiamo comunque tener conto che la fase è appena ai suoi inizi e, a meno di rivoluzioni, è destinata a durare decenni.

Dobbiamo inoltre distinguere la globalizzazione, che è una fase dell'imperialismo, cioè di un complesso sistema economico, dalle politiche neoliberiste inaugurate all'inizio degli anni ottanta da Reagan e dalla Thatcher. Tra i due fenomeni non vi è alcuna relazione perché sono di natura diversa. Anche se Reagan e Thatcher non fossero mai esistiti, la globalizzazione ci sarebbe stata lo stesso. I mercati chiusi come l'URSS e la Cina infatti avevano già fallito da tempo il loro tentativo di vincere in termini di produttività la battaglia contro gli imperialismi, per molte ragioni che qui non indaghiamo. La corsa agli armamenti di Reagan ha solo accelerato un po' un destino che, in assenza di una rivoluzione sociale in quei Paesi, era inevitabile. Certo possiamo dire che l'ideologia neoliberale è senz'altro quella più consona ad accompagnare e giustificare la globalizzazione. Il suo nocciolo è costituito dalla fede che le forze del mercato, se lasciate libere di esprimersi, potranno aggiustare qualsiasi stortura del sistema e dunque, con il tempo, anche temperare le ingiustizie sociali, ecc. Questa ideologia però era nel corso degli anni ottanta minoritaria, mentre nella fase entrante della globalizzazione ha dilagato in ogni dove, così come nei secoli passati l'ideologia evangelizzatrice ha accompagnato i conquistadores spagnoli nella prima fase di espansione dell'imperialismo, l'ideologia del progresso ha accompagnato i vascelli inglesi alla conquista dell'Asia, e l'ideologia anticomunista ha accompagnato la lotta per la reintegrazione dell'Asia e dell'Europa dell'Est nel mercato imperialista. Il fatto comunque che l'ideologia neoliberale sia stata rilanciata con successo negli anni ottanta, ha costituito elemento di facilitazione per il successo della nuova fase. Sottolineiamo comunque che, in presenza di determinate condizioni sociali (ad esempio grandi mobilitazioni operaie), potremmo assistere ad un ritorno di fiamma di politiche keynesiane nei Paesi imperialisti, pur nel contesto di una economia globalizzata; ovvero, detto in parole povere, a politiche ridistributive interne ai Paesi imperialisti della ricchezza prodotta dal saccheggio imperiale.

Non dobbiamo nemmeno confondere la fase della globalizzazione con il generale riflusso del movimento operaio. Esso risale per quanto riguarda USA ed Europa alla fine degli anni settanta, e per quel che riguarda l'America Latina e l'Asia alla fine degli anni ottanta. Una eventuale ascesa delle lotte operaie non avrebbe in alcun modo evitato il collasso degli stati burocratici che si autodenominavano comunisti. Certo, il fatto che il movimento operaio sia in ogni dove sulla difensiva, ha certamente permesso alle classi dominanti dei Paesi imperialisti di muoversi con grande disinvoltura e audacia e imboccare senza esitazioni la strada della globalizzazione.

Le conseguenze dirette della globalizzazione: l'accrescersi della concorrenza tra gli imperialismi   torna sopra

Sino a quando tutti gli imperialismi erano impegnati a recuperare o contenere i territori sfuggiti al loro dominio (blocco dell'URSS, Cina, ecc.), erano tra loro piuttosto solidali. Chiamavano questa solidarietà in vari modi, ad esempio "l'unione del mondo libero", definivano se stessi "le democrazie", ecc. E avevano creato tutta una serie di strutture militari (NATO, ANZUS, ecc.) per contenere la possibilità che altri territori sfuggissero al loro dominio, nella speranza che anche quelli già persi tornassero nelle loro mani.

In pratica però tutti gli imperialismi avevano delegato gli USA a occuparsi della sicurezza del sistema imperiale del pianeta. Da un lato gli USA si avvantaggiavano di questa condizione rafforzando la propria industria legata direttamente o no alle armi (aeronautica, elettronica, spazio, ecc.) e ricavando vantaggi dalla propria influenza politica nel mondo per le proprie industrie; dall'altro Europa e Giappone potevano approfittare della propria deresponsabilizzazione per intessere legami vantaggiosi con stati che si contrapponevano agli USA (mondo arabo, ecc.) e per evitare pericolosi conflitti interni che sarebbero scoppiati in caso di coinvolgimento in qualche guerra. Le tensioni commerciali tra i vari imperialismi erano dunque tutti sottotraccia, nascosti e codificati. E ognuno faceva di tutto per ridurli al minimo. Con la nuova fase non vi è più bisogno di questa stretta alleanza. Le uniche alleanze sono quelle utili, come vedremo più sotto, a tenere a bada i Paesi dipendenti. Per il resto gli anni novanta hanno già visto una infinità di conflitti e di contraddizioni tra imperialismi, ad un livello senza precedenti da sessanta anni. Si veda ad esempio la guerra condotta in campo aeronautico (tra Boeing e Airbus), il contenzioso sempre aperto sui prodotti agricoli, i dissensi europei sullo scudo spaziale, le proteste riguardo Echelon (il sistema di spionaggio di tutto il traffico internet gestito da USA e Regno Unito e che ha fatto assai arrabbiare l'Unione Europea senza che le sue proteste sortissero alcun ascolto), ecc. Questa concorrenza non farà che accrescersi in futuro. Gli USA sono complessivamente più deboli dell'insieme delle potenze europee, ma godono di due vantaggi: il primo è che sono già unificati e il secondo che dispongono di una potenza militare senza confronti e che costituisce un forte strumento di ricatto.

Per combattere meglio la propria battaglia gli imperialismi si stanno organizzando in blocchi continentali. I piccoli imperialismi europei si sono accorti che da soli non potevano competere con gli USA e con il Giappone, specie dopo che la crisi dei regimi burocratici faceva intravedere un'accrescersi della concorrenza internazionale per la conquista dei nuovi mercati. Non è un caso che Maastricht, cioè la decisione di arrivare ad una divisa unica europea, sia stata sottoscritta nel 1992. La prospettiva, anche se sul processo ci sono tra i vari stati europei i più diversi disegni, è quella della formazione di una entità politica con una popolazione, un PIL e un apparato industriale e bancario il più possibile concentrato, che possa competere con il blocco americano e asiatico. Gli USA sono già uno stato unificato, ma hanno comunque reagito con la formazione di un'area di libero scambio che coinvolge tutto il Nord America: il NAFTA, sottoscritto nel 1992. Oggi USA e Canada pianificano una estensione di tale accordo a tutta l'America (ALCA) scoraggiando gli accordi regionali che autonomamente avevano intessuto alcuni Paesi Latinoamericani (Pacto Andino e Mercosur). Il Giappone, scosso dall'inizio degli anni novanta da una crisi economico-sociale dalla quale non riesce a uscire, non sta mostrando la stessa capacità di iniziativa.

E' bene comprendere che in questa concorrenza tra imperialismi non vi sono buoni e cattivi. I conflitti che li dividono devono essere letti al di là delle facili interpretazioni su un presunto attaccamento delle classi dominanti europee ad un modello sociale progressista: se queste ne avessero la possibilità instaurerebbero il modello statunitense dall'oggi al domani. Il problema è che non se lo possono permettere. La differenza sostanziale che vi è ancora oggi tra Europa continentale e USA (simili in questo al Regno Unito) è la perdurante, anche se declinante, forza del movimento operaio europeo, che rende difficile qualsiasi politica di draconiano intervento sul welfare. I cinquanta anni in cui gli USA hanno svolto il ruolo di gendarmi del mondo, hanno fatto dimenticare che i peggiori massacri nella storia dell'umanità li hanno commessi gli europei. I "dubbi" degli europei sugli ogm non sono dovuti a chissà che preoccupazione per i propri cittadini (che non si manifesta in alcun modo a proposito delle onde emesse dai telefonini, campo in cui l'Europa è prima al mondo), ma semplicemente al fatto che in quel settore sono molto più indietro degli USA. L'indignazione per lo spionaggio industriale portato avanti da Echelon, non è certo morale, o dovuto ad una maggior attaccamento alla privacy, ma semplicemente al fatto che l'Europa continentale non ha i mezzi tecnici per dotarsi di un simile sistema di controllo.

Le conseguenze dirette della globalizzazione: l'unità dei Paesi imperialisti contro i Paesi dipendenti   torna sopra

I Paesi imperialisti, pur divisi dalla concorrenza, trovano subitaneamente la loro unità quando si tratta di difendere i propri interessi collettivi di fonte a quelli dei Paesi dipendenti. Nella fase della globalizzazione aumentano le possibilità di profitto per gli imperialisti, ma anche i pericoli. Dobbiamo decodificare le preoccupazioni espresse dai dominatori del mondo e che spesso vengono coperte da una coltre di ideologia. Ad esempio l'ossessione per i gruppi terroristi che potrebbero minacciare l'America con la bomba atomica deve essere letta in questo modo: "prima c'era l'URSS dalla quale eravamo divisi, ma il cui comportamento era prevedibile e con la quale si poteva comunque arrivare a degli accordi, ma ora, se vi è uno stato che si ribella, con una direzione che non teme lo scontro e che è disponibile a utilizzare armi atomiche, come ci si può difendere? In poche parole, come possiamo difenderci da questo mondo dipendente che noi stessi abbiamo creato, ma le cui turbolenze potrebbero metterci in pericolo?" La percezione che hanno gli imperialisti non è così pazzesca: il mondo si avvia a divenire un inferno per la gran parte delle persone dei Paesi dipendenti che si troveranno ad assediare una cittadella di benessere, quella dei Paesi imperialisti. La globalizzazione è vista come una grande potenzialità, ma se ne avverte l'oscura minaccia. La discussione sullo scudo spaziale ha questa base, con l'aggiunta che serve ad adeguare il potenziale bellico russo al rango attuale di quello stato, che è espressione di un Paese dipendente, mentre ora dispone di un arsenale che può gareggiare con gli USA, Paese imperialista. Le perplessità europee riguardo allo scudo spaziale non riguardano affatto problematiche etiche, ma di opportunità. Dare il via al progetto USA significa delegare di nuovo gli USA a difendere militarmente gli interessi globali degli imperialismi, ma ora non possono fidarsi, perché siamo in una fase di acutizzazione della concorrenza tra imperialismi, e quelli europei non vedono nessuna buona ragione per dare dei vantaggi ad un avversario. Solo a una condizione potrebbero accettare: se si dimostrasse loro che davvero un simile investimento servirebbe esclusivamente contro i Paesi dipendenti e non magari tra un non lontano futuro contro loro stessi o i loro alleati o i loro interessi. Del resto la ragione per cui nella fase della globalizzazione gli interventi imperialisti nei Paesi dipendenti sono sempre multinazionali, risiede anche nel fatto che ciò rassicura tutti i vari imperialismi che l'intervento servirà a difendere gli interessi complessivi dell'imperialismo e non di uno solo: guerra del Golfo ('91-oggi), Somalia ('92-'95), Bosnia ('95-oggi), Kosova ('99-oggi), Timor ('99-oggi).

I Paesi imperialisti devono inoltre mantenere un certo livello di unità per salvaguardare i propri investimenti e i prestiti concessi ai Paesi dipendenti. La forma concreta di questa alleanza sono istituti internazionali quali Il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale, all'interno dei quali conta di più chi più ha soldi, dunque i Paesi imperialisti. Quando un Paese dipendente non riesce a pagare gli interessi sui debiti intervengono direttamente i funzionari di questi istituti che impongono dei piani di aggiustamento strutturale che hanno sempre per fine aprire ulteriormente quei mercati, eliminandone le residue difese nei confronti del capitale internazionale. Notiamo comunque che questa dinamica è stata inaugurata prima dell'allargamento del mercato mondiale, già nel corso degli anni ottanta. Il dato nuovo è che mentre prima i Paesi imperialisti si preoccupavano di far smantellare lo stato sociale e far saltare i prezzi calmierati (come quelli della benzina, del pane, ecc.), negli anni novanta spingevano invece soprattutto per la privatizzazione dei beni e dei servizi dello stato. Un'altra istituzione che vede uniti i Paesi imperialisti è il WTO che risponde ad una esigenza essenziale: far rispettare le regole del commercio, il che significa la proprietà intellettuale, eliminare progressivamente i dazi, ecc. Tutte regole che fanno comodo ai Paesi imperialisti che possiedono gran parte dei brevetti e che hanno la possibilità di far circolare merci a più basso costo.

Si tratta di terreni di unità d'azione a danno dei Paesi dipendenti, mentre invece nei rapporti tra loro i Paesi imperialisti non si risparmiano i colpi. Queste contraddizioni tra imperialismi emergono comunque ogni volta che un imperialismo tenta di stabilire rapporti privilegiati ed escludenti con un Paese dipendente. Nell'Africa subsahariana ad esempio è evidente un prolungato conflitto provocato dall'intenzione degli USA di scalzare la posizione preminente della Francia. Del resto l'Europa vede con molto fastidio la presenza di una Israele che è, dal punto di vista geopolitico, una sorta di gigantesca base militare USA in un territorio strategico per la presenza del petrolio, e per questo (e non certo per un loro supposto attaccamento per i diritti umani), si dedicano a qualche blanda azione di disturbo, come un leggero sostegno alla causa palestinese.

Per tutte queste ragioni è semplicistico immaginare che esista una sorta di governo unico dell'imperialismo mondiale. Esistono invece precarie alleanze tutte costruite in funzione del mantenimento dei privilegi nei confronti dei Paesi dipendenti.

 

CONFRONTO TRA I PRIMI TRE PAESI IMPERIALISTI (in grassetto) E I PRIMI SEI PAESI DIPENDENTI -E9- (primi per PIL e popolazione, in dollari, 1998)
  PNL procapite, 1998, in dollari % di popolazione che guadagna meno di 2 dollari al giorno (media 93-99)
Giappone

32.350

-

USA

29.240

-

Germania

26.570

-

Brasile

4.630

17,4

SudAfrica

3.310

35,8

Russia

2.260

25,1

Cina

750

53,7

Indonesia

640

66,1

India

440

86,2

 

Fonte: Banca Mondiale

 

Stati e multinazionali   torna sopra

Per le ragioni sopra esposte non è vero che la crescente potenza delle multinazionali tenda a superare la forma stato. E' sicuramente corretto sottolineare come la globalizzazione acceleri la tendenza già connaturata al capitalismo alla concentrazione di capitali, altra cosa è affermare che dunque siamo in presenza di un deperimento delle forza degli stati. Al contrario, gli stati si rafforzano, e per due ragioni. La prima è che, dato l'aumento della concorrenza tra imperialismi, questi tendono ad appoggiarsi ai rispettivi stati per difendere i propri interessi e quelli delle proprie multinazionali. Molto tipica ad esempio è la lotta tra multinazionali dell'energia: in ogni battaglia che si scatena a livello mondiale per l'appropriarsi delle riserve o l'acquisizione del controllo di questa o quella azienda, si mobilitano subito anche i governi nazionali. Le multinazionali USA in generale poi, si avvalgono della struttura militare-spionistica possente del proprio stato per combattere la concorrenza europea e giapponese. Per far decollare la costituzione di una multinazionale europea dell'aeronautica (Airbus) che si contrapponesse alla Boeing USA, ci sono voluti anni di sforzi degli stati tedesco, inglese, francese, italiano e spagnolo.

Del resto anche per tenere a bada i Paesi dipendenti e assicurare il loro sfruttamento, c'è bisogno degli apparati statali, del loro potenziale militare, ma non solo: serve una continua sorveglianza sui processi politici che si svolgono nei Paesi dipendenti e dunque la capacità di immettere denaro, corrompere, spiare, complottare, compiti che certamente non può assumersi a livello globale una multinazionale. C'è bisogno di un apparato statale, cioè di un comitato di affari della borghesia, perché lo stato imperialista è direttamente al servizio delle proprie multinazionali, e in generale del proprio capitalismo. Mettere l'accento sul deperimento degli stati ci pare che, involontariamente, spinga a una certa deresponsabilizzazione nella lotta contro il proprio stato, e ad una sottovalutazione dei compiti di lotta più strettamente politica.

Alcuni fanno derivare l'idea che lo stato stia per essere superato, dal processo di unificazione europea che costringe i singoli stati nazionali a delegare parti consistenti della propria sovranità ad una entità che li trascende. E' però un grosso errore di valutazione: l'unificazione europea corrisponde non ad un processo di dissoluzione degli stati, ma alla lenta e faticosa costruzione di un nuovo superstato, che possa contrapporsi a USA e Giappone.

Infine non è vero che gli imperialismi puntino alla dissoluzione e alla frammentazione degli stati. Al contrario è un processo che oggi temono, perché possibile generatore di tensioni e instabilità. Per questo la zona curda dell'Iraq non è mai stata spinta alla secessione, per questo si frena il Montenegro nella sua voglia di separarsi dalla Federazione Jugoslavia, per questo quando si sono verificati due episodi di dissoluzione di stati (Somalia 1992, Albania 1997) gli imperialismi sono subito intervenuti aiutando a ricostruirli. Solo la presenza di uno stato, vassallo ma stato, può consentire uno sfruttamento ordinato e senza scosse del Paese dipendente.

Le conseguenze economiche della globalizzazione   torna sopra

Non vi è alcuna conseguenza economica della globalizzazione che non fosse già presente nelle precedenti fasi dell'imperialismo. In questa nuova fase però le dinamiche già presenti acquisiscono una velocità e una efficienza prima sconosciuta.

La prima è la concentrazione del capitale. Essa prende la forma delle fusioni e delle acquisizioni di aziende. Il processo è facilmente visibile nel mondo dell'auto. Nella storia secolare dell'automobile i produttori mondiali sono andati con il tempo diminuendo in maniera costante. Si è trattato di un processo che decennio dopo decennio ha visto ad esempio la FIAT in Italia divenire l'unico produttore nazionale. Processi simili avevano portato a tre i produttori statunitensi, alla sparizione di produttori spagnoli e inglesi, ecc. Ma con la globalizzazione il processo si è velocizzato e abbiamo così visto in poco tempo la Chrysler cadere in mani tedesche, fallire la Daewoo, accordarsi strategicamente FIAT e General Motors. Alla fine degli anni novanta nel campo dell'aeronautica civile due gruppi assicurano il 95% della produzione mondiale, nelle apparacchiature per telecomunicazioni quattro gruppi coprono il 70% delle vendite mondiali, nel commercio delle sigarette 4 gruppi occupano l'87% del mercato, ecc. Nel giro di pochi anni abbiamo visto sorgere un intero nuovo ramo di produzione, quello della new economy, che in meno di dieci anni conosce la prima crisi che già sta portando ad una selezione naturale e all'emergere di alcuni grossi protagonisti. La concentrazione è dettata dalla ragione che spiegavamo più sopra: l'accrescersi della concorrenza internazionale, solo dimensioni notevoli permettono di sopravvivere alle battaglie mondiali. Per questo quando non ci pensa il mercato sono gli stessi apparati statali a spingere alla concentrazione: è quanto sta accadendo in Italia nel sistema bancario sotto la regia della Banca d'Italia.

La seconda è quella di spingere gli stati a liberarsi il più possibile delle loro proprietà suscettibili di produrre profitti. E' ciò che viene chiamata privatizzazione. Si tratta di un movimento simile a quanto avvenuto con il mercato mondiale: dal punto di vista del capitale privatizzare significa aprire un territorio, che sino a quel momento gli era rimasto precluso. Ciò significa trasformare entità che erano nate come erogatrici di servizi, in aziende capitaliste che cercano profitti in maniera aggressiva anche all'estero. Privatizzare l'ENEL ad esempio significa terminare con l'energia come servizio pubblico, creando una multinazionale che compete nel mercato internazionale con le aziende degli altri imperialismi. La contemporanea debolezza del movimento operaio facilita da parte del capitale la liberazione di settori anche i più impensabili, basti pensare al crescente business dei cimiteri privati e delle carceri private.

La terza è una più accentuata finanziarizzazione dell'economia mondiale. Anche qui non vi è alcuna vera novità. Del ruolo fondamentale del sistema bancario nell'epoca dell'imperialismo parlava già Lenin. In questa fase vi è però una indubbia accentuazione del fenomeno, che non riguarda però solo le banche, ed è legata alla tendenza del capitale sopra descritta ad invadere ogni sfera pubblica. La crescita delle assicurazioni private con compiti previdenziali negli USA ad esempio, prelude anche a qualche cosa che si accentuerà sempre più anche in Europa. La presenza di queste assicurazioni ha dato infatti al capitalismo statunitense una forza finanziaria senza rivali, alla quale l'Europa si sente di dover rispondere per non soccombere nel confronto globale. La tendenza alla finanziarizzazione è stata spesso interpretata come una sorta di superamento dell'economia basata sulla produzione di merci, e all'avvento di un'epoca caratterizzata dallo strapotere della speculazione. In realtà proprio le varie cadute della borsa stanno a testimoniare di una dinamica finanziaria che tende sempre a ritornare su una base materiale produttiva. La speculazione non è affatto irrazionale, obbedisce invece ad una profonda razionalità del sistema, essa costituisce un potente strumento di selezione naturale dei produttori di profitto e dei loro apparati statali. La speculazione colpisce chi è già debole, e lo distrugge, costringendo a concentrare e razionalizzare. Le manovre speculative che hanno colpito nella metà degli anni novanta Italia e Regno Unito, costringendole a uscire dalla banda di oscillazione delle valute, obbediva ad una profonda razionalità economica: Italia e Regno Unito effettivamente disponevano di una base materiale che non corrispondeva più alla valutazione delle proprie valute, che si sono rafforzate, senza più subire attacchi speculativi, solo dopo le finanziarie della seconda metà degli anni novanta che hanno disciplinato l'Italia entro i parametri di Maastricht. La visione del crollo di borsa come dissolvitore di ricchezze, è falso: vi è solo un adeguamento improvviso alla base economica materiale, non strettamente finanziaria.

Quarto: la delocalizzazione. Si tratta anche in questo caso di un fenomeno certo non nuovo per l'imperialismo: le fabbriche automobilistiche europee in Brasile risalgono agli anni cinquanta. Ma: la globalizzazione, unita al riflusso del movimento operaio, ha reso enormemente più facile la possibilità di spostare continuamente pezzi di produzione da un Paese all'altro, approfittando delle migliori condizioni. Ciò si traduce, tra l'altro, in un ricatto permanente nei confronti della classe lavoratrice dei Paesi imperialisti.

Infine una precisazione. Viene spesso confusa la globalizzazione con la rivoluzione tecnologica dovuta ai nuovi mezzi di comunicazione. Questa interpretazione dei fatti economici vedendone la radice in presunte "rivoluzioni tecnologiche", non è nuova. Ancora oggi molti divulgatori invece di sottolineare le ragioni sociali ed economiche dell'origine del capitalismo, fanno risalire l'inizio della rivoluzione industriale all'invenzione del cavallo a vapore. In realtà gran parte delle "scoperte" non hanno alcuna possibilità di essere diffuse e di avere successo prima che ve ne siano le condizioni economiche. Internet è stata inventata molto prima della sua esplosione nella prima metà degli anni novanta, ma solo in un mondo globalizzato, ha assunto una tale importanza economica e sociale. Per la stessa ragione una serie di tecnologie che sono già a disposizione come l'energia solare, l'auto elettrica, la robotizzazione, ecc. non esplodono, perché ancora non ci sono le condizioni economiche per la loro esplosione. E' chiaro che le nuove tecnologie comunque, una volta diffuse, contribuiscono a loro volta a velocizzare i processi economici.

Le conseguenze sociali della globalizzazione   torna sopra

Le conseguenze sociali della globalizzazione invece, non costituiscono una sostanziale novità nella storia dell'imperialismo. Guerre, fame, ingiustizie sociali, migrazioni, lavoro minorile, hanno da sempre costituito il telone di fondo insanguinato davanti alla quale gli imperialismi celebravano i loro fasti. Il colonialismo ad esempio comportò la morte diretta e indiretta di centinaia di milioni di persone. Non si tratta comunque di una buona ragione per considerare con sufficienza le denunce che oggi vengono fatte del comportamento delle multinazionali e dei loro apparati statali. Se la coscienza delle conseguenze sociali dell'imperialismo è oggi più diffusa di ieri è un fatto estremamente positivo. Dato però che ne parliamo ampiamente in altre parti della rivista e considerando che non si tratta di un dato originale della globalizzazione, non ci occuperemo in questo articolo di lavoro infantile, prostituzione globalizzata, immigrazione forzata, diffusione delle malattie, ecc.

Cionondimeno alcune di queste conseguenze sociali si sono acuite notevolmente. E in questo senso costituiscono una tipicità di questa fase. Dato che le multinazionali e gli imperialismi non dispongono di una cupola con compiti di pianificazione strategica, ma sono mossi da spinte immediatiste per la ricerca del profitto in un ambito di accresciuta concorrenza internazionale, non hanno la possibilità di pianificare alcunché; o per lo meno ciò risulta loro estremamente difficoltoso. Per questo una serie di eventi catastrofici si stanno preparando minacciando la stessa sopravvivenza dell'umanità, anche quella dei Paesi imperialisti. Tra questi citiamo: l'aumento dell'inquinamento, l'aumento della temperatura, la penuria di acqua, la deforestazione. I Paesi imperialisti sono gli unici che potrebbero fermare questo disastro ambientale e sociale incombente. E' ipocrita da parte dei Paesi imperialisti accusare il Brasile o l'Indonesia di distruggere le loro foreste quando gli europei hanno distrutto le proprie da circa nove secoli e sono i diretti responsabili della deforestazione di quelli dipendenti: gli incendi nella gran parte dei casi sono accesi da piccoli contadini ridotti alla disperazione dalla concorrenza del mercato mondiale e dalla presenza di latifondi di proprietà imperiale.

Le contraddizioni interne alla globalizzazione   torna sopra

Ogni fase dell'imperialismo aveva al suo interno contraddizioni che alla fine hanno costretto al passaggio, a volte traumatico, ad una nuova fase. Comprendere queste contraddizioni interne significa da parte del movimento antiglobalizzazione individuare i possibili soggetti della trasformazione. Una trasformazione che per essere reale, lo accenniamo di sfuggita in questo articolo, non può che essere rivoluzionaria, cioè portare alla liberazione totale e senza compromessi del pianeta dalla barbarie imperiale.

La prima contraddizione interna è quella che porta ad una potenziale dinamica di contrapposizione tra Paesi dipendenti e Paesi imperialisti. Questi ultimi saranno portati ad utilizzare in sempre maggior misura (perché spinti dalla concorrenza) i propri privilegi, approfondendo il solco e innescando così reazioni democratiche e antimperialiste nei Paesi dipendenti.

 

PERCENTUALE RELATIVA DI MERCATO MONDIALE DEI MANUFATTI (esportazioni)
 

1980

1990
Membri OCDE (Paesi più industrializzati)

62,9

72,4

Resto del mondo

37,1

27,6

 

Fonte: FAST, 1993

Un esempio di possibili conflitti futuri è quello dei farmaci anti AIDS prodotti a basso costo da Sud Africa e Brasile, in cui un ruolo essenziale l'hanno giocato anche la solidarietà di una parte della società dei Paesi imperialisti.

La seconda contraddizione interna risiede nella facilità con cui gli imperialismi possono spostare le produzioni da un Paese all'altro: produrrà una diminuzione dei salari dei lavoratori dipendenti dei Paesi imperialisti, dato che in un mondo globalizzato anche la merce-lavoro sarà posta su un piano di concorrenza globale inducendo un certo appiattimento al ribasso, o a una immigrazione di massa. Per le multinazionali cioè l'alternativa offerta ai cittadini dei Paesi imperialisti sarà chiara: o accettate che vengano masse di immigrati, o spostiamo le produzioni nei Paesi dipendenti. In tutti e due i casi si avrà una estensione del lavoro dipendente mal pagato e precario nei Paesi imperialisti, con potenziali alleanze e sintonie coi popoli dei Paesi dipendenti. Lo spostamento di attività produttive nei Paesi dipendenti del resto porta là all'accrescersi di una classe operaia nuova e giovane. Basti pensare alla Corea: dieci anni fa i mass media ci cantavano le lodi di una classe operaia completamente assuefatta alla produzione toyotista, oggi è all'avanguardia delle lotte sindacali nel mondo.

La facilità della comunicazione e dello scambio avvantaggia senz'altro le classi dominanti, e tuttavia mai come oggi è stato politicamente e tecnicamente possibile lo scambio e l'organizzazione internazionale dei soggetti sociali oppressi. Se oggi è possibile immaginare consigli d'azienda transnazionali, è ugualmente possibile immaginare sindacati internazionali, ecc.

La concorrenza tra imperialismi porta come abbiamo visto alla deresponsabilizzazione verso le sorti del pianeta. Ciò colpisce anche quelle fasce di lavoratori privilegiati dei Paesi imperialisti (apparato statale, ceti impiegatizi e tecnici, ecc.) e che non sono colpiti in maniera diretta da altri effetti della globalizzazione. Si apre su questo piano un terreno di unità d'azione con i cittadini dei Paesi dipendenti.