Dopo Genova. Che movimento costruire?
La repressione selvaggia avvenuta a Genova ha, per ora, sortito un effetto che forse il governo Berlusconi non si aspettava. Una reazione di massa, spontanea, alla brutalità poliziesca. Non solo: ovunque si registrano assemblee che immancabilmente finiscono per darsi appuntamento a inizio settembre .... per per fare cosa? Nel movimento c'è una voglia diffusa di contare, di organizzarsi, di manifestare. Ma con quali forme? Su quali assi? Agosto 2001


 

La repressione selvaggia avvenuta a Genova ha, per ora, sortito un effetto che forse il governo Berlusconi non si aspettava. Una reazione di massa, spontanea, alla brutalità poliziesca. Manifestazioni in piena estate come quelle del 24 (solo il corteo di Milano contava centomila persone e seguiva un'altra manifestazione di 30.000 organizzata il giorno prima e addirittura una di domenica con qualche migliaio di partecipanti) avvenute in tutta Italia non si erano viste nemmeno dopo la strage della stazione di Bologna. Non solo: ovunque si registrano assemblee che immancabilmente finiscono per darsi appuntamento a inizio settembre .... per per fare cosa? Nel movimento c'è una voglia diffusa di contare, di organizzarsi, di manifestare. Ma con quali forme? Su quali assi? Qui di seguito le nostre proposte.

Mantenere la pluralità di questo movimento

Questo movimento è stato animato sin dai suoi inizi dalle più diverse componenti. Si tratta di una dinamica che, a sua volta, è un effetto della globalizzazione. Incoraggiati dalla scarsa resistenza e dai ridotti ostacoli che si trovano sul proprio cammino, i padroni del mondo premono sull'acceleratore di un sempre maggiore sfruttamento di ogni genere di risorsa, umana e materiale, spingendo sempre nuovi comparti di cittadinanza al dissenso. In Italia poi, grazie alla sua tradizionale, maggiore disposizione alla manifestazione di massa e radicale del dissenso, e alla presenza di un governo di destra, vanno accumulandosi vari fattori di crisi (il contratto aperto dei metalmeccanici, le minacce alla scuola pubblica, la riforma delle pensioni): vi è dunque la potenzialità concreta che l'autunno veda il sommarsi delle istanze di settori di massa sino ad ora separati. Dobbiamo dunque lavorare non solo a mantenere la ricchezza della composizione del movimento, ma ad allargarla ancor più, stabilendo alleanze con altri soggetti sociali organizzati.
Ci pare di scorgere invece, in alcuni ambiti, la tendenza a chiudersi nel circuito della sinistra anticapitalista (della quale, sia ben chiaro, noi facciamo parte), con il fine magari di arrivare alla formazione in un non lontano futuro di un nuovo soggetto politico tipo Izquierda Unida. A noi non sembra il momento di chiudere, ma di allargarsi. A questo movimento si stanno avvicinando molti giovani che prima mai si erano impegnati, altri compagni che riprendono un'attività abbandonata da tempo, vari settori che sono in via di rapida radicalizzazione: sarebbe un tragico errore serrarsi nel recinto di obiettivi, linguaggi e persone che già si conoscono. Il litigioso circuito della sinistra anticapitalista è piccolo, e ghettizzarsi in un'ottica strettamente politica non può che indebolire un movimento che è e deve restare fuori da logiche che in questo momento appaiono inadeguate all'ampiezza dello scontro, anche se al suo interno possono legittimamente prendere forma o cercare consensi tutti i progetti politici di questo mondo. In parole povere, se davvero ci interessa contrastare i padroni del vapore, e che qui in Italia oggi hanno affidato al governo Berlusconi il compito di portare alle estreme conseguenze la logica della globalizzazione, noi abbiamo bisogno di allargare e unire intorno ad alcune parole d'ordine, pratiche e valori, più gente possibile. Per scendere nel concreto pensiamo che sia importante non solo organizzare riunioni dove giungono i soliti noti, ma andare fisicamente a proporre a vari soggetti per ora esterni al movimento un coinvolgimento diretto. Pensiamo ad esempio alle RSU, che già da tempo sono presenti in alcuni coordinamenti. Pensiamo ad esempio alla FIOM che può essere coinvolta anche localmente e attraverso la quale si può prendere contatto con gli operai delle fabbriche, raggiungibili comunque anche con semplici volantinaggi. Pensiamo alle scuole e alle reti formate dai lavoratori che avevano dato vita al grande movimento contro il concorsone. In questo senso pensiamo siano deleteri atteggiamenti settari come quelli portati avanti da settori del sindacalismo di base nella manifestazione del 21 a Genova, quando hanno fischiato i compagni della FIOM presenti. Un episodio da collocarsi tra il settario e il coglionesco: dopo pochi minuti gli uni e gli altri sono stati aggrediti e picchiati dalla polizia.

Sviluppare l'orizzontalità di questo movimento

Questo movimento si è sviluppato a forma di rete. Ha sfruttato a fondo le possibilità offerte dai nuovi media (mailing list, siti, ecc.), è abbastanza allergico alla creazione di sovrastrutture burocratiche, ecc. Ciononostante non siamo così ingenui da non vedere in nuce anche alcuni vecchi vizi dei movimenti. L'eccesso di spazio che hanno i leader delle varie componenti, una certa ansia di egemonia da parte di vari settori, assemblee e seminari organizzati in maniera tale da non favorire la partecipazione. Noi siamo convinti che questo movimento abbia la possibilità già da questo autunno di favorire il sorgere di una nuova generazione di militanti: sarebbe drammatico se questi giovani si trovassero di fronte il tappo di una generazione più vecchia restia a lasciare il campo, affezionata a vecchie logiche e ansiosa di rappresentare chi non ha chiesto di essere rappresentato.
Per questo le modalità con cui questo movimento si svilupperà non sono una questione meramente organizzativa ma di sostanza, di contenuto. Pensiamo sia fondamentale che si mettano in rete innanzitutto le realtà locali che rappresentano già un lavoro sul territorio o nei posti di lavoro. E' importante partire dal locale e poi allargarsi coordinandosi a livello più generale: il procedimento inverso rischia di assicurare a questo movimento leadership già definite, inamovibili e che non partono dalla base. Le modalità con cui si conducono le riunioni sono pure un fatto di sostanza, perché a partire da quel livello si può educare una nuova generazione ad essere partecipe e non massa di manovra, desiderosa solo di ascoltare "chi sa parlare bene". Ad esempio in tutta Italia varie entità avevano organizzato seminari sul G8. Si è trattato di ottime occasioni di formazione e di conoscenza reciproca. Ma le modalità con cui spesso sono state costruite erano passivizzanti quanto lo è la scuola: abbiamo visto troppe volte "quello che sa" dispensare ad una platea ascoltante, e a volte sonnecchiante, le proprie conoscenze. Un modello ottocentesco. I seminari devono essere occasioni per conoscersi, scambiare opinioni, crescere insieme, il compito di chi ritiene di sapere di più è semmai quello di favorire questa partecipazione e facilitarla, ad esempio preparando materiale introduttivo da leggersi prima ed evitando così soporifere relazioni iniziali, ecc. Abbiamo assistito a un po' troppe assemblee con presidenze già occupate e con sempre le stesse persone in posizione strategica. Possibile che non si possa istituire una presidenza a rotazione? Ci sono già persone insostituibili? Abbiamo assistito a un po' troppe riunioni con i classici interventi fiume e pavoneggianti di leader che "non si possono interrompere". Una semplice misura democratica potrebbe consistere nel lasciare cinque minuti di intervento a tutti, anche ai grandi leader, in modo da garantire a più persone possibile di intervenire. Nelle riunioni più ridotte si potrebbe eliminare il tavolo della presidenza e dar vita ad un bel cerchio dove a turno si prende la parola. Ecc. ecc.

Approfondire il radicamento sociale di questo movimento

I compiti che si è preso questo movimento sono giganteschi: la lotta alla globalizzazione, cioè ad una intera fase dell'imperialismo. In Italia il movimento ha già un suo nemico dichiarato e violento: il governo Berlusconi, che per essere battuto nei suoi disegni avrà bisogno di ben più gente di quella andata a Genova, e che già non era poca. Non abbiamo alcuna possibilità di vincere se non ci radichiamo saldamente sul territorio. Abbiamo già sentito parlare di vari appuntamenti: quello della marcia Perugia-Assisi, quello di Roma del 10 novembre, ecc. Appuntamenti importanti, certo. Ma ciò che è essenziale è quel che riusciremo a costruire come movimento in maniera permanente sul territorio. Si apre la possibilità di unire una serie di soggetti che sino ad ora hanno condotto la propria battaglia autonomamente: gli operai, gli studenti, gli immigrati, gli antiglobal, ecc. Unificare non significa affatto che ogni gruppo che sta portando avanti un certo tipo di lavoro lo abbandona: esattamente l'opposto, cerca nel movimento insieme agli altri gruppi il senso di una lotta comune; ognuno ha cioè la possibilità di considerare la propria attività come un pezzo del puzzle che deve comporre la lotta alla globalizzazione. Non pensiamo debba esistere una militanza antiglobalizzazione in sé, a prescindere da lotte specifiche. E' vero che a questo movimento, fortunatamente, vanno avvicinandosi persone che non sono attualmente impegnate in nessuna attività specifica: bene, la loro entrata nel movimento potrà così segnare il rafforzarsi delle lotte che già esistono o l'inaugurarsi di nuovi ambiti di militanza. Ve n'è un gran bisogno: basti pensare a come è arretrata in Italia l'organizzazione della solidarietà con gli immigrati.
Vanno benissimo gli appuntamenti centrali, ma in alcun modo devono divenire dei fini in sé: devono costituire delle "scuse" per costruire lotte e organizzazione a livello locale: Berlusconi non si spaventerà mai di una manifestazione di massa, a meno che essa non sia il segnale di qualcosa di più profondo che si sta sollevando nella società. Il 10 novembre (o qualsiasi altro appuntamento nazionale) ad esempio deve essere un mezzo per costruirsi sul territorio, altrimenti scampagnata dopo scampagnata, senza ottenere risultati concreti, questo movimento si esaurirà rapidamente.
In questo senso l'appello a formare dei "social forum" a livello locale, ci sembra ottimo. Ma. Questa costruzione deve partire dal basso. Ad esempio ci convince poco la trasformazione dei coordinamenti esistenti di Milano e Roma, già a partire da settembre, in Roma social forum o Milano social forum: essi attualmente non sono altro che coordinamenti di leadership delle varie componenti. Noi pensiamo che si debba partire invece dai quartieri e dai comuni e solo dopo coordinarsi a livello sempre più alto. Si deve partire dal basso. Solo partendo dal piccolo si riusciranno a ridimensionare il potere dei leader, e soprattutto a far incontrare tra loro le basi delle varie componenti, contribuendo così tra l'altro ad abbassare il grado di settarismo reciproco. Di social forum non hanno bisogno solo le città, ma anche le scuole unendo insegnanti, studenti, genitori, e i posti di lavoro, al di là delle sigle sindacali di appartenza.

I contenuti di questo movimento

Il movimento antiglobalizzazione esprime in realtà un rifiuto "globale" nei confronti dell'esistente. Ma questo rifiuto è oggi una sorta di "federazione di contenuti": la lotta contro la globalizzazione è un contenitore dai vaghi confini dove dentro c'è un po' di tutto, alla rinfusa. Forse per questa ragione ci pare che non vi sia nessun serio sforzo di arrivare alla definizione di una specie di "piattaforma", di obiettivi concreti che questo movimento potrebbe prefiggersi. Forse è ancora una preoccupazione un po' prematura: per arrivare a delle rivendicazioni comuni, si dovrà partire da quella costruzione dal basso di cui parlavamo e che è ancora da organizzare. Possiamo però cominciare a dire un paio di cose.
La prima è che questo movimento è stato troppo spesso paralizzato da una diatriba dai marcati tratti ideologici su violenza e non violenza. Che il tema sia fondamentale non vi è alcun dubbio, ma temiamo che la difficoltà a dirimerlo stia nel fatto che per le principali componenti che animano il movimento il tema abbia un valore identitario. Paradossalmente il blocco rosa da un lato e il blocco giallo e blu dall'altro hanno fatto dei mezzi con cui combattere la globalizzazione, la questione dirimente, offuscando le ragioni profonde e i contenuti pesanti della lotta. Per questi blocchi i rispettivi stili di lotta (nonviolenza, disobbedienza, resistenza attiva) costituiscono il centro delle rispettive identità, rendendo con ciò difficile la costruzione di mobilitazioni comuni.
Per quanto ci riguarda i mezzi non hanno a che vedere con la nostra identità, e, francamente, pensiamo che questo dovrebbe essere un punto fermo di tutto il movimento, che, per ora, è una federazione di identità, nessuna delle quali può pensare di prevaricare l'altra. Pensiamo che dei mezzi, semplicemente, si debba discutere di volta in volta, avendo ben chiaro gli scopi che ci prefiggiamo. Se ad esempio fossimo in Palestina non avremmo alcun dubbio che il mezzo più efficace è quello della resistenza attiva ogni giorno praticata dalle masse oppresse, nel caso di Genova con il senno di poi è risultato chiaro che sarebbe stato meglio ignorare la zona rossa. Per quanto ci riguarda nessun mezzo utilizzato nella storia dai popoli oppressi è illegittimo: si tratta solo di valutare di volta in volta quale usare. Pensiamo che abbiano fatto benissimo i partigiani a prendere le armi contro il nazifascismo, ci pare una sciocchezza oggi buttare pietre quando il nostro scopo è allargare il più possibile questo movimento. A Genova nella giornata del 21 non erano certo le poche centinaia di Black Bloc ad affrontare la polizia, ma migliaia di giovanissimi: pensiamo che a questi ragazzi vada offerta una prospettiva politica più concreta e non inseguirli su quel terreno. Del resto l'ossessivo parlare di nonviolenza da parte di altri settori finisce per portare ad atteggiamenti settari (che allontanano attivisti che sarebbero d'accordo con la pratica del blocco rosa, ma contrari alla nonviolenza strategica sempre e in ogni luogo) e all'offuscamento di contenuti importanti. Noi pensiamo che i pezzi di movimento che riusciremo a costruire sul territorio debbano rifiutarsi di entrare in questo genere di polemiche identitarie.
Seconda questione. Vediamo una certa diffidenza nei principali tre blocchi del movimento al reciproco riconoscimento del valore delle diverse attività. Gran parte di coloro che militano al di fuori del blocco rosa vedono ad esempio con un certo disprezzo il commercio equo-solidale, la finanza etica, il consumo critico, le campagne di boicottaggio, ecc. che sono le attività tipiche di quel settore. Del resto il blocco rosa, che ha una grande attenzione per le lotte degli oppressi nel sud del mondo, ignora, a volte in maniera ostentata e irritante, le lotte che gli oppressi del nord del mondo, nonostante tutto, conducono. Un normale lavoratore sindacalizzato che ascolta un certo tipo di militante del blocco rosa riceve la fastidiosa impressione di trovarsi di fronte a un membro di una classe media sostanzialmente priva di problemi materiali ed oppressa dai sensi di colpa di vivere in un Paese "ricco". Di converso quando un appartenente al blocco rosa sente parlare un appartenente agli altri blocchi è fortemente infastidito da una certa mancanza di competenza nel trattare i temi tipici della globalizzazione, e da un certo chiacchiericcio ideologico abbastanza inconcludente. Noi pensiamo che ben difficilmente il movimento riuscirà a fare passi in avanti se non si opererà un reciproco riconoscimento del valore delle diverse attività, e questo può avvenire solo se le si considerano dei mezzi, tutti validi, per comporre il puzzle dell'opposizione sociale, mondiale, alla globalizzazione.
In questo senso per un marxista è certamente poco credibile che l'imperialismo possa essere battuto sostituendo i supermercati con botteghe del mondo, del resto però non si può negare che il movimento del commercio equo e solidale è stato un potente mezzo perché una fetta consistente di giovani, spesso di provenienza cattolica, si avvicinasse a queste tematiche e contribuisse a diffondere dal basso una certa coscienza antimperialista; ci pare ad esempio un esperimento da tentare, anche come mezzo per coinvolgere i lavoratori nel movimento, quello di diffondere la cultura del commercio equo e solidale nei posti di lavoro: un compito che i militanti tipicamente di sinistra possono più agevolmente svolgere per i loro agganci sindacali.
Del resto i delegati sindacali potranno forse sorridere dei piccoli gruppi sul lavoro precario che quasi ogni centro sociale ha attivato, per la loro debolezza, approssimazione, ecc. Farebbero bene però contemporaneamente a domandarsi che hanno fatto le burocrazie sindacali per affrontare il problema.
Tutti e tre i blocchi nutrono un grande sospetto verso i sindacati di massa. I sospetti sono ben giustificati da anni di svendite delle conquiste dei lavoratori. Se però non si distingue tra la responsabilità delle burocrazie e quelle dei delegati, delegati che sono stati eletti da centinaia di lavoratori, ci si dovrebbe indicare una via alternativa per raggiungere i lavoratori ed evitare così che il movimento resti un movimento di intellettuali, universitari, precari istruiti, cioè un movimento, in buona sostanza, di classe media.
Ci sembra significativo, e allo stesso tempo preoccupante, ad esempio, la tiepidissima considerazione di cui gode nel movimento antiglobalizzazione la lotta che attualmente la FIOM sta conducendo per tenere aperta la vertenza dei metalmeccanici.
Gli attivisti del blocco rosa si fanno spesso in quattro per solidarizzare contro lo sfruttamento dei lavoratori del Terzo Mondo: non capiamo perché non possano mettere un analogo impegno a difendere anche quelli italiani. Abbiamo sentito invece il blocco giallo definire "roba vecchia", la vertenza operaia: si tratta di strabismo dovuto alla composizione sociale di chi frequenta i centri sociali: molti lavoratori, ma per lo più giovani, dunque precari e dunque non appartenenti alla classe operaia "tipica". Dobbiamo però cercare di andare al di là di ciò che noi stessi rappresentiamo. Questi compagni guardano con grande interesse al Chiapas: bene, perché non fanno dunque ciò che gli zapatisti hanno fatto per anni prima di imbracciare il fucile? Il lavoro di base, l'alfabetizzazione, la coscientizzazione tra gli indios messicani. Ebbene gli operai, gli immigrati, i disoccupati italiani sono i nostri indios. Eppure, anche davanti alle maggiori fabbriche dove pulsa una classe operaia completamente rinnovata, nessuno si preoccupa di distribuire nemmeno un volantino.
I compagni del Network per i diritti globali sono convinti dell'estrema importanza della contraddizione capitale/lavoro. Molto bene. E' una conseguenza positiva delle lotte condotte dai cobas (che integrano il Network). Ma ciò costituisce anche la causa di un atteggiamento a volte settario da parte di questo blocco nei confronti delle altre organizzazioni sindacali, specie la CGIL (ed anche la sua sinistra interna).

Il movimento antiglobalizzazione, in conclusione, è pieno di cittadini del nostro Paese (che è un Paese imperialista, ricordiamolo, i cui cittadini possono permettersi un livello di vita decente al prezzo della fame degli altri abitanti del pianeta) pieni di generosi slanci verso i popoli del Sud del mondo. Ciò è bello e nobile, lo diciamo senza ironia. Eppure se domandassimo a un attivista del Sud del mondo cosa noi possiamo fare per battere la globalizzazione e dunque lo sfruttamento della sua terra, non avrebbe esitazione a risponderci: combatti il tuo imperialismo. Noi non vediamo altra strada per raggiungere questo scopo che quello di un movimento che sappia allearsi anche con le vaste masse che, all'interno del nostro stesso Paese, fanno le spese ogni giorno con la dittatura del capitale.