Venti
anni di movimenti pacifisti e di solidarietà internazionale.
Una
piccola storia (dalla lotta contro i missili Cruise ad oggi) per rintracciare
l'origine delle culture politiche presenti nel movimento antiglobalizzazione,
poiché le culture politiche non nascono nel mondo delle idee, ma in
quello delle esperienze concrete. REDS. Agosto 2001.
Le culture
politiche non nascono nel mondo delle idee, ma in quello delle esperienze
concrete. Più precisamente esse sono il sedimento, i detriti
o i resti, delle lotte e delle organizzazioni degli anni passati. Ogni
movimento che passa cioè, lascia un resto composto da militanti
che resistono al riflusso, riflettono sull'esperienza fatta, tendono a riprodurre
le conclusioni e le modalità di organizzazione cui l'esperienza compiuta
li ha fatti giungere. Possiamo rintracciare l'origine delle culture politiche
prevalenti nel movimento antiglobalizzazione all'inizio degli anni ottanta,
anche se potremmo partire da lì per risalire ancora più indietro
nel tempo. La lotta
contro l'installazione dei missili Cruise. 1981-1983 Nel 1981
il governo Spadolini accettava entusiasticamente l'installazione a Comiso
(Sicilia) di una batteria di missili nucleari Cruise come richiesto dal programma
di riarmo del presidente americano Reagan. Con l'avvento di Reagan si ripiombò
di nuovo in piena guerra fredda. L'epoca era contrassegnata come si
sa dal confronto tra USA e URSS e da un equilibrio del terrore tra
le due superpotenze che si basava sul convinzione che se una guerra nucleare
fosse scoppiata non ci sarebbero stati sopravvissuti sulla Terra. Questa paura
era vissuta a livello di massa e segnava anche un certo costume (uscita di
film e telefilm catastrofisti, ecc.). Si sviluppò, contro l'iniziativa
USA, un vasto e internazionale movimento di massa che in Italia arrivò
come al solito in ritardo, ma che, come al solito, prese proporzioni molto
superiori a quelle degli altri Paesi. Una serie di iniziative locali (tra
le quali la prima Marcia Perugi-Assisi con apporto di massa) sfociarono
nella grande manifestazione romana del 24 ottobre 1981 a Roma, con mezzo milione
di persone. Nella manifestazione avevano avuto un ruolo dominante i partiti
della sinistra: PCI, DP e PdUP. Il Partito Comunista Italiano (PCI), seppure
declinante a livello elettorale, manteneva ancora intatta la propria straordinaria
forza di mobilitazione, organizzazione e propaganda. Nessuno poteva immaginare
di riuscire a indire una manifestazione con una partecipazione superiore a
qualche decina di migliaia di persone senza l'apporto del PCI. L'estrema sinistra
usciva terribilmente provata dagli anni settanta. I pezzi sopravvissuti e
un po' logorati si raccoglievano prevalentemente intorno a Democrazia Proletaria
(DP), un partito poco omogeneo, per scelta, e che dunque non riusciva a determinare
una presenza nei movimenti centralizzata e coerente. Il Partito di Unità
Proletaria (PdUP, di cui il quotidiano Il Manifesto era fiancheggiatore)
era più omogeneo, ma sostanzialmente subalterno al PCI (confluirà
poi successivamente in quel partito), mediava continuamente tra il suo apparato
e i movimenti, ed era costituito in sostanza da militanti-intellettuali, quando
invece DP, soprattutto nel Nord Italia, manteneva un forte impianto operaio.
Il PdUP comunque giocò un ruolo non indifferente nei comitati per
la pace, proprio grazie a questa sua maggiore omogeneità (anche
se DP portava più gente alle manifestazioni). Dall'autunno
1981 dunque si sviluppò un movimento, anche se con una autonomia piuttosto
scarsa. Nei fatti il suo gruppo dirigente era fortemente condizionato dalle
scelte del PCI. Iscritti al PCI del resto erano la maggioranza dei militanti
dei comitati per la pace che si costituirono in tutta Italia e che
arrivarono a organizzare diverse assemblee nazionali. Il PCI sosteneva questo
movimento, ma al contempo stava molto bene attento che non uscisse da certi
argini e soprattutto da una certa linea che voleva evitare uno scontro duro
con il governo (imponendogli scelte di disarmo unilaterale). Il PCI si sforzava
cioè di mantenere il movimento nell'ambito di un pacifismo generico
che chiedeva "a tutti" il disarmo, ma chiedendolo a tutti, e non
prima di tutto al proprio governo, nei fatti si disarmava politicamente
e si negava la possibilità di lottare per obiettivi concreti e raggiungibili:
se era infatti difficile, ma possibile, immaginare che il movimento italiano
avrebbe potuto impedire l'arrivo nel nostro Paese di missili nucleari, era
davvero impervio invece immaginare che esso potesse costituire una forza di
pressione in grado di impedire la stessa cosa negli altri Paesi. Soprattutto
quando fu chiaro davanti alla determinazione governativa che occorreva una
salto di qualità nello scontro con l'esecutivo (ad esempio con l'indizione
di un referendum contro il riarmo), il PCI frenò e lo fece attraverso
la forza di cui disponeva all'interno del movimento. Il movimento, senza parole
d'ordine concrete, piano piano ripiegò. Nei due anni
della sua esistenza di massa però, fecero capolino, un po' timidamente
nuovi soggetti. I pacifisti ad esempio raccolti nella LOC (Lega Obiettori
di Coscienza, con molti attivisti di provenienza estrema sinistra), nel MIR
(Movimento Internazionale di Riconciliazione, di ispirazione cristiana), nella
LDU (Lega per il Disarmo Unilaterale, vicina ai radicali), ma anche gruppi
cristiani (valdesi e più in generale protestanti, ed anche cattolici
soprattutto nel Veneto). Si tentarono
altre manifestazioni nazionali, ma con partecipazione decrescente (5 giugno
1982, 19 marzo 1983). Con l'approssimarsi dell'installazione vera e propria
dei missili però prese sempre più piede, insieme al disimpegno
del PCI e una certa mancanza di iniziativa dell'estrema sinistra, la pratica
dell'azione diretta non violenta dei pacifisti radicali, modalità abbastanza
sconosciute in Italia. Vero e proprio laboratorio di questa cultura fu il
campo internazionale per la pace di Comiso: un campeggio nato nell'estate
del 1982 e che si trasformò in permanente (con il nome di IMAC International
Meeting Against Cruise): i militanti italiani vennero così a contatto
con i militanti disarmisti inglesi, tedeschi, ecc. meno legati ai gruppi della
sinistra, ma molto radicali nell'azione e che si proponevano di bloccare fisicamente
l'arrivo dei missili. Portarono anche un modello di organizzazione che agli
italiani parve un po' strano: i "gruppi di affinità", coordinati
da un consiglio degli speaker. Numerosi furono gli episodi di repressione
di questi attivisti, particolarmente cruenta l'aggressione poliziesca dell'8
agosto 1983. Comunque nulla rispetto a quanto poi si sarebbe visto vent'anni
dopo a Genova. All'epoca però sollevò un certo scalpore. In
un estremo tentativo di bloccare l'arrivo dei missili si tenne quella che
fu, sino ad allora, la più grande manifestazione in Italia: il 22 ottobre
1983 marciarono a Roma un milione di persone. Ma anche questa estrema possibilità
fu vanificata dalla determinazione del PCI a non radicalizzare lo scontro,
e dalla scarsissima autonomia del movimento rispetto alle organizzazioni politiche.
Nelle assemblee dei comitati il PCI cominciò a chiedere patenti di
"non violenza strategica" ai presenti in maniera tale da separare
l'ala più radicale e strumentalizzare i settori cattolici che caddero
in larga parte nel tranello. Il movimento
fu sconfitto. Ma lasciò una serie di "sedimenti". Il primo
fu la partecipazione, inizialmente timida di settori cattolici interni alla
Chiesa. Gli anni settanta avevano conosciuto il fenomeno delle Comunità
di Base (che si impegnarono comunque a fondo nel movimento), ma che si collocavano
per lo più al di fuori delle strutture della Chiesa. Nel movimento
per la pace invece si muovevano settori legati alle parrocchie. La "lotta
per la pace" in buona sostanza, dopo l'abbandono di questo terreno da
parte dell'estrema sinistra e del PCI, rimase per un lungo periodo in mano
a loro, e da quel periodo nacque una certa diffidenza di questi settori nei
confronti delle organizzazioni della sinistra, del loro tatticismo, della
loro radicalità ideologica unita ad una certa moderazione nell'azione.
Il PCI dette vita a un piccolo apparato chiamato Associazione per la Pace,
dove trovarono soprattutto rifugio militanti di una particolare corrente del
PCI, quella ingraiana, ma che, pur disponendo di larghi mezzi, si ritagliò
un ruolo di "lobby pacifista", di pressione sulle istituzioni, senza
investire sul serio nell'organizzazione di movimenti. Nell'apparato del PCI
(che allora contava migliaia di persone) alcuni funzionari vennero distaccati
a occuparsi "di pace", e lo stesso accadde nell'ARCI (all'epoca
controllata dal PCI) e nella CGIL. Una serie di associazioni indipendenti
presero nuovo alimento, oltre a quelle già citate ricordiamo lo SCI
(Servizio Civile Internazionale). E' in questa epoca che prende forma quella
che venne chiamata "cultura della pace". Il movimento
di solidarietà verso i popoli oppressi 1980-1990 Il 1979 è
stato per l'America Latina quel che il '68-'69 è stato per l'Italia:
l'inizio di un periodo di ascesa impetuoso delle lotte che impose la fine
dell'oscura fase storica dominata dalla dittature: gli scioperi brasiliani
che poi portarono alla nascita del PT e quindi della CUT, la rivoluzione sandinista,
il drastico rafforzamento delle guerriglie in Salvador e Guatemala e negli
anni successivi la caduta delle dittature argentina, boliviana, la crisi di
quella cilena, ecc. Quegli stessi anni però segnavano contemporaneamente
il riflusso dei movimenti politici di contestazione in Europa, ed anche in
Italia. Per cui, per molti militanti scontenti dell'esistente, l'America Latina
costituì una "riserva di speranza" per attraversare gli anni
bui e si dedicarono così alla solidarietà nei confronti dei
processi rivoluzionari che là si svilupparono. Questa solidarietà
crebbe in maniera proporzionale alla repressione sanguinaria di quelle esperienze
portata avanti dall'amministrazione Reagan. In quegli anni la controrivoluzione
finanziata apertamente dagli USA provocò nella regione più di
centomila morti, massacri di intere popolazioni, decine di migliaia di scomparsi.
Questo decennio,
senz'altro il più "internazionalista" della storia d'Italia,
vide il sorgere anche di altri movimenti di solidarietà. Nel 1985
con la proclamazione dello stato di emergenza in Sudafrica, il regime dell'apartheid,
che segregava in quel Paese la maggioranza nera, calamitò l'attenzione
di molti attivisti. Si creò una rete di comitati di solidarietà
che svolse un lavoro di controinformazione e boicottaggio dei prodotti sudafricani.
Altri comitati sorsero dopo che nel novembre 1987 ebbe inizio l'intifada palestinese,
un movimento che attirò l'attenzione di molti giovani che si erano
radicalizzati con il movimento dei medi del 1985 (era l'epoca in cui divenne
di moda portare la Kefiah), e che ebbe un grosso momento di verifica nella
manifestazione nazionale dell'11 febbraio 1989 a Roma di solidarietà
con la Palestina. Verso la
fine degli anni ottanta però il movimento andò indebolendosi.
Sul fronte America Latina la "guerra di bassa intensità"
condotta dagli USA aveva seriamente indebolito la rivoluzione centroamericana:
la direzione sandinista faceva scelte sempre più moderate (accordi
di Esquipulas) rifiutandosi di approfondire gli aspetti progressivi della
rivoluzione (blocco della riforma agraria, ecc.) sino ad arrivare nel dicembre
1989 agli accordi di San Isidro in cui si "pugnalava alle spalle"
la guerriglia salvadoregna. Pochi giorni dopo gli USA invadevano Panama. Questi
compromessi non servirono a salvare i sandinisti che persero le elezioni del
febbraio 1990. Contemporaneamente anche le altre guerriglie centroamericane
si trovarono indebolite e cominciarono a pensare ad una sorta di resa concordata.
Questi fatti e la sconfitta di Lula alle presidenziali del dicembre 1989 in
Brasile segnò la fine di un decennio magico per l'America Latina e
l'inizio di un periodo di riflusso che perdura tuttora. I finanziamenti ai
progetti di cooperazione in Italia vennero tagliati per una serie di scandali
e dunque diminuì seccamente il numero di persone che andavano nei Paesi
del Terzo Mondo in progetti di solidarietà. Tutto ciò, unito
all'affievolirsi dell'intifada e al processo di negoziazione che ebbe inizio
nel 1990 in Sudafrica, spinsero gran parte della militanza internazionalista
sulla strada della delusione e del disimpegno, ed è questa la principale
ragione della debolezza nella risposta alla guerra che sarebbe scoppiata da
lì a pochi mesi nel Golfo. Il movimento
contro il nucleare 1985-1987 Una serie
di eventi catastrofici (ad esempio Bhopal, dicembre 1984) dal punto di vista
dell'impatto ambientale fecero sì che i temi ecologici conquistassero
un interesse di massa a metà degli anni ottanta. In Italia comunque
piccoli gruppi già da anni conducevano battaglie di minoranza contro
l'energia nucleare, appoggiati però solo dall'estrema sinistra, dato
che il PCI aveva una posizione seccamente filonucleare. Su questo terreno
comunque una serie di organizzazioni che erano state create dal PCI, come
ad esempio la Lega Ambiente, acquisirono un profilo autonomo, e lo stesso
fece, in anni in cui la crisi del PCI progrediva lentamente ma inesorabilmente,
anche la sua organizzazione giovanile, la FGCI. A Roma il 20 aprile 1985 si
tenne una manifestazione nazionale contro il piano nucleare del governo promossa
da Lega Ambiente, preceduta da numerose iniziative locali (Trino Vercellese,
Saleto, ecc.) contro i progetti di costruzione di centrali elettriche (a carbone
o nucleari) portati avanti dall'ENEL. Durante le amministrative di quell'anno
si presentarono le "liste verdi", con modalità che segnarono
l'esistenza di questo raggruppamento politico anche in futuro: fu una decisione
di un piccolo ceto politico, spesso riciclato opportunisticamente da altre
esperienze, e che avvenne al di fuori e spesso fuori dal movimento (contrariamente
ad altri Paesi, come la Germania, dove spesso i verdi erano espressione politica
del movimento). Quello che
si definì "il popolo inquinato" ricevette una poderosa spinta
dall'incidente della centrale ucraina di Chernobyl (26 aprile 1986) che diffuse
radioattività in tutta Europa: la manifestazione nazionale a Roma del
10 maggio 1986 vide la partecipazione massiccia di giovanissimi e la forte
presenza anche di organismi sino ad allora non propensi alla mobilitazione
di massa, come il WWF. A maggio partiva la campagna per i tre referendum abrogativi
tesi a impedire l'esistenza del nucleare in Italia, promossa da Verdi, FGCI,
DP, ecc. ma non dal PCI. Anche la CGIL (allora sotto il pieno controllo del
PCI e in parte del PSI) faceva muro contro, nonostante che in molte istanze
di base l'opzione antinuclare godesse di ampie simpatie. I quesiti referendari
raccolsero in poco tempo un milione di firme (con merito prevalente, sotto
l'aspetto organizzativo, di DP) e fecero vacillare il fronte nuclearista,
PCI compreso, che a settembre chiedeva l'"uscita dal nucleare",
anche se in maniera non completa (voleva il mantenimento del "presidio
tecnologico" della centrale nucleare di Montalto di Castro). La battaglia
contro il nucleare civile calamitò anche le forze pacifiste (ormai
quasi esclusivamente composte da gruppi di ispirazione cristiana) che unirono
la lotta al nucleare militare con quella al nucleare civile. Il 30 ottobre
1986 30.000 cattolici del Triveneto firmatari dell'appello Beati i Costruttori
di Pace (e che negli anni successivi evolse in un organizzazione) manifestarono
contro il nucleare, contro i "mercanti di morte", contro l'apartheid
e per l'obiezione fiscale alle spese militari. Ebbero poi
inizio tutta una serie di manifestazioni e azioni dirette contro le centrali
nucleari esistenti o in costruzione: quelle del 10 ottobre riuscirono a bloccare
i cantieri delle centrali ENEL a Montalto di Castro, Trino Vercellese, Viadana,
Caorso; il 16 e il 18 ottobre si tennero grandi manifestazioni di giovani
a Napoli e a Milano; il 25 ottobre 1986 una manifestazione nazionale unì
temi pacifisti ed antinucleari; il 26 aprile 1987, a un anno da Chernobyl,
una catena umana unì la centrale di Caorso all'aeroporto militare di
San Damiano a 25 km. Si formarono molti gruppi militanti Lega Ambiente e WWF,
collettivi ambientalisti, mentre i Verdi capitalizzavano nelle politiche del
1986, a livello elettorale, la spinta del movimento, a spese anche di un PCI
che si dedicava a manovre di vario tipo tese a scongiurare i referendum. Nel
novembre 1987 si tennero i referendum, che videro una schiacciante vittoria
del fronte ambientalista. Era la prima volta che un movimento di massa esisteva,
e addirittura vinceva, senza l'apporto del PCI. L'opposizione
alla Guerra del Golfo 1990-1991 Per comprendere
la dinamica particolare delle reazioni alla guerra del Golfo dobbiamo fare
una piccola premessa sulla rivoluzione degli equilibri interni alla sinistra
tra la fine degli anni ottanta e l'inizio degli anni novanta. Per quanto riguarda
l'estrema sinistra essa aveva subito un processo di rapida semplificazione:
il PdUP era confluito nel novembre 1984 nel PCI, la Lega Comunista Rivoluzionaria
(che aveva avuto un certo ruolo nei movimenti di solidarietà, oggi
nel PRC come area programmatica Bandiera Rossa) era confluita in DP prima
che essa stessa confluisse nel Movimento per la Rifondazione Comunista (poi
PRC) tra maggio e giugno 1991. Il PCI fu scosso da una profonda crisi dovuta
alla svolta della Bolognina impressa dal suo segretario Occhetto. I suoi militanti,
sia quelli allineati che quelli critici, tra il 1989 e il 1991 furono totalmente
assorbiti dalle questioni interne al loro partito. Nel febbraio del 1991 si
consumò la scissione: da una parte rimase il PDS (poi DS) e dall'altro
quello che diverrà il PRC. I pezzi sopravvissuti dell'area dell'Autonomia
operaia (distrutta alla fine degli anni settanta) ebbero un qualche ruolo
nelle mobilitazioni antinucleari del triennio '85-'87. Si trattava comunque
di una Autonomia ben diversa da quella del '77: per semplificare in maniera
estrema è come se fosse sopravvissuta solo la sua ala moderata, quella,
per intenderci, contraria all'uso delle P38, anche se ben disposta, entro
certi limiti, nei confronti di fenomeni di radicalità di piazza. Un'area
dunque prudente, attenta ai dati del politico (molti sono stati tentati dall'esperienza
del PRC), con un maggior radicamento sociale. Alla fine degli anni ottanta
però era ancora debole e con prospettive confuse. Il 2 agosto
1990 l'Iraq invase il Kuwait. Quattro giorni più tardi l'ONU decise
il blocco totale (embargo) nei confronti di quel Paese. Era la premessa da
parte degli USA per preparare e giustificare la guerra, di cui aveva bisogno
per riaffermare il dominio imperiale nella regione strategica del petrolio.
A favore dell'invio delle navi italiane votarono anche il PCI (con l'esclusione
della sua sinistra interna) e parte dei Verdi. La residuale estrema sinistra
era ovviamente contraria, ma molto isolata nella sua richiesta di ritiro unilaterale
delle navi italiane. Anche gran parte del pacifismo era disorientato, perché
disarmato politicamente ad affrontare una simile questione: aveva per anni
sostenuto che l'ONU doveva risolvere i conflitti, ora invece l'ONU preparava
una guerra, invocava una pace generica priva di obiettivi concreti, visto
che si negava la possibilità di incidere su quelli più raggiungibili,
ovvero il ritiro dei militari italiani. La Marcia Perugia-Assisi di quell'anno
fu caratterizzata da questa impostazione equidistante tra USA e Iraq, che
creava un clima di delega nei confronti dei potenti, perché risolvessero
loro la situazione. Il 17 gennaio
1991 cominciarono così i bombardamenti, che furono un vero e proprio
shock, ma che colsero però tutti impreparati: non si era formata durante
quei mesi alcuna rete significativa di comitati, nella delega più totale
nei confronti dell'ONU. Così la reazione fu fortissima, ma assolutamente
improvvisata: nei giorni immediatamente successivi ai bombardamenti scesero
in piazza in tutta Italia centinaia di migliaia di persone, seguendo l'appello
di chiunque proponesse la mobilitazione (a Milano ricoprì questo ruolo,
sostanzialmente, DP). Poi, sempre nella disorganizzazione e nell'assenza di
costruzione di strutture di mobilitazione, subentrò un clima generale
di ansiosa rassegnazione sino ai primi giorni del marzo 1991, quando l'esercito
iraqeno si arrese. Solo nelle scuole, per merito di tanti insegnanti, si mentenne
un clima di mobilitazione antiguerra permanente. I comitati che qui e lì
erano sorti, e quelli che avevano resistito dal decennio precedente non riuscirono
a coordinarsi, e presto sparirono o ridimensionarono le proprie attività.
Una sconfitta gravissima perché da quel momento il segnale per le classi
dominanti italiane fu chiaro: la potenza militare italiana poteva essere impiegata
ovunque senza grandi opposizioni, come del resto da allora accadde. Qualche
sedimento comunque rimase. A Milano ad esempio sorse il Comitato per la verità
nella guerra del Golfo (poi chiamato Comitato Golfo), da cui nacquero poi
numerose iniziative tra cui l'associazione Un ponte per Bagdad, e a partire
dal 1993 la rivista Guerre e Pace, ecc. E' in questo periodo inoltre che sorge
il movimento delle Donne in Nero da settori del femminismo, del pacifismo
e della sinistra. Il movimento
contro la guerra di Bosnia 1992-1995 L'ascesa
del nazionalismo serbo provocò una serie di conseguenze nella Federazione
Jugoslava, prime tra tutte la spinta alla secessione delle sue parti costitutive;
Slovenia e Croazia dichiararono la propria indipendenza nel settembre 1991,
la Serbia diresse una dura guerra in varie parti della Croazia e dall'aprile
del 1992 spostò il suo obiettivo sulla Bosnia con l'intento di annettersela.
La forte e determinata reazione del popolo bosniaco fece fallire l'intento,
dando l'avvio a una guerra di resistenza destinata a durare sino ai bombardamenti
NATO del 1995 che imposero una pace che faceva della Bosnia un territorio
sotto protettorato internazionale. Si trattava del primo conflitto su larga
scala sul suolo europeo dalla fine della seconda guerra mondiale. Eppure ciò
produsse un movimento di solidarietà con quelle popolazioni di dimensioni
vergognose. Le ragioni sono di vario tipo. La prima
ha a che fare con la sconfitta dei movimenti pacifisti e di solidarietà
degli anni ottanta e che a metà degli anni novanta non si erano certo
ancora ripresi. La seconda è dovuta alle difficoltà di natura
ideologica da parte sia della sinistra che del pacifismo radicale. Molti pacifisti
ponevano e pongono come nucleo della propria identità la nonviolenza.
Dunque di fronte ad un conflitto essi vedono come male in sé, il fatto
che esso sia portatore di violenza, e non si pongono quindi, come prima domanda,
dove stia l'oppresso e dove l'oppressore. Dunque di fronte a dei popoli, come
quello bosniaco, che resisteva all'oppressione anche con le armi, molti di
loro si trovarono in forte difficoltà e dunque si concentrarono su
uno sforzo equidistante di dialogo, pacificazione, "comprensione"
tra etnie. Si trattava di una visione ideologica sovraimposta alle popolazioni
locali, e dunque, contrariamente alla solidarietà portata nei confronti
dell'America Latina del decennio precedente che aveva comportato numerosi
contatti con forze politiche e persone del luogo, in questo caso lo scambio
tra attivisti solidali e popolazione locale fu assolutamente episodico. Le
organizzazioni pacifiste cattoliche furono però, per lo meno, presenti
sul posto, con volontari, attività di solidarietà, ecc. contrariamente
alla sinistra antagonista, assente nella solidarietà per tutto il conflitto
bosniaco. La sinistra pidiessina, attraverso progetti e iniziative di associazioni
a lei vicina, fu presente ma con una distanza dall'apparato statale italiano
che diveniva sempre più ristretto, sino a sparire quasi del tutto in
occasione della guerra del Kosovo. Citiamo come eccezione positiva i piccoli
gruppi che si mossero in sintonia con la rete Workers Aid for Bosnia, che
legava sindacalisti specie del Nord Europa a sindacati e realtà di
base bosniache. Tra costoro era anche Guido Puletti, che fu assassinato appunto
in una di queste azioni di solidarietà. Le difficoltà
della sinistra erano organizzative e ideologiche. C'era un nuovo partito,
il PRC, nei confronti del quale molti militanti avevano nutrito forti aspettative.
La sua dirigenza, che impresse alla vita interna dei circoli un andamento
e dei costumi "tipo PCI", provocò un fenomeno che dura tuttora
di straordinario (nel senso che ha pochi precedenti nella storia delle organizzazioni
di sinistra nel nostro Paese) turn-over. Pur essendo il PRC un partito giovane,
esistono in Italia centinaia di migliaia di persone che per un qualche periodo
sono state nel partito e poi ne sono uscite, segno abbastanza inequivocabile
dell'esistenza di uno spazio politico, che però un tal partito non
riesce a soddisfare. A livello
sindacale la fine degli anni ottanta sino alla prima metà degli anni
novanta videro una intensa attività di dissenso dai vertici confederali,
tale da distrarre dai problemi internazionali anche militanti solitamente
attenti. Nel 1987 nasceva il primo fenomeno di dissidenza di sinistra rispetto
i sindacati di massa: i comitati di base della scuola. Un'esperienza
tutto sommato breve destinata però a lasciare sedimenti organizzativi.
Una sua piccola parte che si chiamerà Cobas evolverà in vera
e propria struttura sindacale, seppur piccola, e sopravviverà agli
anni novanta divenendo una delle protagoniste della lotta al concorsone nel
2000. Nel 1984 nasceva in CGIL la corrente di opposizione Democrazia Consiliare
su iniziativa di DP, che unendosi poi alla componente dissidente del PCI capitanata
da Bertinotti (che si era differenziata publicamente nel 1988) darà
vita nel 1991 ad Essere Sindacato da cui prenderanno vita tutte le successive
reincarnazioni della sinistra sindacale CGIL, prima Alternativa Sindacale
e quindi l'attuale Lavoro e Società. Tra il 1992 e il 1993 la lotta
alla concertazione dei sindacati maggioritari portò ad una ampia contestazione
di massa che favorì la formazione di piccoli sindacati collocati a
sinistra della CGIL (CUB, Slai Cobas, ecc.). Tutti questi
militanti, politici e sindacali non erano solo "distratti" per le
vicende interne (cui si aggiunse nel 1994 la lotta contro il governo Berlusconi),
ma avevano anche delle difficoltà politiche nel gestire la loro
solidarietà con la Bosnia. In fondo difficoltà non dissimili
da quelle dei settori cattolici: per motivi diversi da questi ultimi anche
loro erano disabituati di fronte ad un conflitto a prendere una posizione
basata sulla domanda: chi è l'oppresso e chi l'oppressore? I militanti
di sinistra erano abituati a solidarizzare in realtà non con
i popoli ma con le loro espressioni politiche. Se queste erano simpatiche
e sufficientemente di sinistra bene, ma se sfortunatamente questi popoli per
varie ragioni storiche non si erano date espressioni politiche di sinistra
non riscuotevano alcuna solidarietà, pur vivendo situazioni di terribile
oppressione. E' la ragione per cui la resistenza dei tamil, dei guineani,
degli aborigeni australiani, dei ceceni, dei tibetani, ecc. non ha stimolato
alcun tipo di solidarietà, a sinistra. Dato che i bosniaci avevano
maggioritariamente una direzione che non era certo di sinistra, dunque, nessuna
solidarietà ai bosniaci. Il movimento
contro la guerra in Kosova 1998-1999 Il conflitto
in Kosova aveva cominciato a manifestarsi pienamente già a partire
dal 1998. Da parte della sinistra ci fu un atteggiamento simile a quello della
guerra di Bosnia, mentre invece da parte dei pacifisti, già sperimentati
in Bosnia, ci fu intervento attivo seppur con le modalità che abbiamo
già visto nel capitolo precedente. La solidarietà
con il Chiapas e l'America Latina 1994-2001 Nel gennaio
1994 l'EZLN uscì allo scoperto. Si rivelò al mondo una guerriglia
ancor meno ideologica di quelle degli anni ottanta, e che poneva una forte
enfasi nel rapporto con la base india. Nel giro di un paio d'anni, grazie
anche a iniziative zapatiste particolarmente aperte e internazionali (Berlino,
Aguascalientes, Spagna), cominciò una sorta di "turismo politico"
da parte di molti giovani in quella regione. Si trattava di permanenze molto
meno organizzate di quelle degli anni ottanta e forse con un grado minore
di consapevolezza, ma aprirono le porte dell'attività internazionalista
ad una parte consistente dei centri sociali. Dopo lo sgombero
del Leaoncavallo nel 1989 in tutta italia vi fu una ondata di occupazioni
di fabbriche ed edifici abbandonati da parte dei giovani che si erano radicalizzati
negli anni precedenti; fu un processo gestito da settori provenienti dall'area
dell'autonomia, che da questo momento si rivitalizzò in maniera definitiva,
anche se con i cambiamenti che già abbiamo descritto. I centri sociali
si occuparono inizialmente di antiproibizionismo, di spazi, elaborarono una
propria cultura molto influenzata da quella dei neri USA (suscitò una
grande impressione in questo ambiente la rivolta di Los Angeles del maggio
1992), ma dalla metà degli anni novanta divenne evidente una sorta
di spaccatura tra i centri sociali. Una parte (tra questi il Leoncavallo e
quelli del Nord Est) avviarono trattative di varia natura con le istituzioni,
dettero vita a operazioni molto disinvolte nei confronti dei partiti, enfatizzarono
la possibilità di ritagliarsi "spazi di libertà",
anche dal lavoro, con molte aspettative riguardo al lavoro autonomo, al terzo
settore, ecc. Altri centri sociali invece, soprattutto del Sud, mantennero
una caratterizzazione più "classica" legata al lavoro (soprattutto
quello precario), alla lotta per la casa, con un profilo di scontro con le
istituzioni, e di diffidenza verso la politica dei partiti. E' dal primo settore
che venne una fortissima spinta alla solidarietà verso il Chiapas con
l'organizzazione non solo di viaggi, ma anche di progetti autofinanziati,
ecc. Da questo lavoro nacque poi l'Associazione Ya Basta! Teniamo presente
comunque che la lotta zapatista ha riscosso la simpatia di tutti i settori
impegnati nell'internazionalismo, nel pacifismo e nella solidarietà
(con l'esclusione degli stalinisti). Vari gruppi di origine cattolica (ad
esempio la Rete Radie Resch) nello stesso periodo hanno seguito la lotta dei
Sem Terra brasiliani. Questi diversi
settori del resto continuavano a "parlarsi" seppur in maniera saltuaria.
Ricordiamo nel novembre 1994 la convenzione pacifista a Firenze che riunì
di una settantina di organismi locali e nazionali contro il nuovo modello
di difesa (già si parlava di globalizzazione) e le manifestazioni in
occasione del G7 di Napoli (quello dove Berlusconi ricevette l'avviso di garanzia)
dove una rete di associazioni chiamata Il Cerchio dei Popoli (Comitato Golfo,
Cobas SLAI, FMLU, Beati i costruttori di pace, ecc.) organizzò una
sorta di controvertice. Il movimento
per un consumo critico 1990-2001 Anche se
non rientra strettamente nel tema di questo articolo, di fatto è importante
parlare di questo movimento per varie ragioni. Varie ong
dopo il taglio dei finanziamenti da parte dello stato riorientarono la propria
attività negli anni novanta in quella che chiamano "sensibilizzazione"
sui temi del debito, della fame, ecc. Tra queste si distinguono Mani Tese,
il Centro Nuovo Modello di Sviluppo, ecc. oltre al mondo legato a diverse
congregazioni e alle loro riviste (Nigrizia, ad esempio) che hanno continuato
a mantenere, seppur con maggior prudenza rispetto al passato, una impostazione
radicale. Questi gruppi
si interessano attivamente anche (spesso sommando le militanze in diversi
organismi) di finanza etica, di consumo critico, ecc. Un'attività in
cui si sono dimostrati particolarmente efficienti è quella del boicottaggio
di multinazionali accusate di sfruttare lavoro minorile, o di devastare l'ambiente,
ecc. In queste occasioni si sono spesso creati coordinamenti di associazioni
per gestire questo tipo di campagna. Questo genere di attività non
attrasse in alcun modo i partiti o i sindacati perché estranea alla
loro tradizione. Diverso è il caso invece di singoli militanti di sinistra
che ritrovavano in questo ambito una maniera congeniale di fare attività
politica. Una parte di quest'area a metà degli anni novanta, parallelamente
ad un analogo processo avvenuto in una parte dei centri sociali, ebbe un forte
sbandamento "privatistico": erano gli anni in cui si decantavano
le lodi del "terzo settore", in realtà un trabocchetto per
aprire la strada alla privatizzazione dei servizi pubblici. In questo caso
fu la sinistra "classica" che contribuì non poco a mantenere
la "barra a sinistra", e oggi, con la flessibilità dilagante,
di cantori del "privato sociale" se ne trovano pochini in quest'area,
pur permanendo qua e là una qualche ambiguità. Questa rassegna
aveva sostanzialmente lo scopo di mostrare come le idee dei movimenti sono
sempre idee sorte da esperienze passate, a loro volta poi le nuove esperienze
generano altre idee, e così via, in un flusso continuo. Speriamo che
appaia chiaro del resto ciò che ha caratterizzato la particolarità
italiana dei movimenti internazionalisti e pacifisti. Essi hanno sempre goduto
di una scarsa autonomia dalle varie correnti politiche e/o religiose. Un'altra
caratteristica è che non sono mai riuscite, forse proprio per la ragione
precedente, a costruire strutture stabili, organizzazioni di massa (sul modello
per intenderci della CND inglese). Il dato dominante è quello della
frammentazione. Una carattristica positiva però, e tutta italiana,
sta nella disponibilità alla mobilitazione di massa che ha mantenuto
un livello costantemente superiore a quello di tutti gli altri Paesi imperialisti.
Movimentisti, assemblearisti, poco organizzati, ma sempre molti e disponibili
alla lotta. Queste caratteristiche nazionali hanno a loro volta delle precise
ragioni sociologiche che non affrontiamo qui: speriamo però che il
movimento antiglobalizzazione possa per una volta tenersi strette quelle positive
e buttare a mare quelle negative.
Tra il 1981 e il 1982 sorsero un po' in tutta Italia dei comitati di solidarietà
con il popolo del Nicaragua, comitati Salvador, e poi successivamente riviste
e bollettini (Amanecer, Quetzal, Nicarahuac, ecc.). Nacque in questo periodo
anche l'Associazione Italia-Nicaragua, che dal 1982 organizzò con regolarità
campi di lavoro e di solidarietà in Nicaragua che portarono migliaia
di persone a contatto diretto con una rivoluzione. Il suo numero di iscritti
non era alto (2000 nel 1986), ma influenzava una vasta area. Il più
alto momento di mobilitazione rimase la manifestazione nazionale di Bologna
del 13 marzo 1982 in solidarietà con il Salvador e che portò
in piazza 50.000 persone. Colpivano di questi processi rivoluzionari l'impostazione
scarsamente ideologica delle guerriglie, il pieno coinvolgimento di settori
cristiani, l'autonomia dai cosiddetti Paesi socialisti, la presenza delle
donne, l'attenzione data alla partecipazione popolare. Indignava anche la
smaccata repressione statunitense.
Nella prima metà degli anni ottanta una serie di ong (organizzazioni
non governative) di ispirazione cattolica, rafforzatesi grazie a finanziamenti
governativi a favore della cooperazione internazionale, inviarono migliaia
di cooperanti e volontari (che permanevano sul posto diversi anni) in tutta
l'America Latina. Diversi attivisti che oggi sono impegnati nella solidarietà
con il Movimento Sem Terra ad esempio, provengono da quella esperienza. Più
ancora che nel movimento per la pace qui fu più nettamente evidente
l'apporto cattolico, anche se spesso, alla base, con una scarsa demarcazione
con l'estrema sinistra. All'epoca infatti un cattolico che si radicalizzava
ben raramente si trovava a proprio agio nel PCI. In questo movimento di solidarietà
ebbero un ruolo molto attivo diverse congregazioni missionarie. Molti dei
classici "gruppi di appoggio" alle missioni da sempre presenti nelle
parrocchie, subirono un processo di rapida evoluzione e politicizzazione,
a contatto con l'esperienza diretta di missionari che vivevano là una
realtà di ascesa delle lotte e della resistenza popolare che in qualche
modo li segnò. Una serie di riviste di area come Nigrizia, il Sial,
Missione Oggi, furono influenzate in maniera evidente dalla Teologia della
Liberazione, una corrente teologica estremamente radicale che aveva conquistato
anche una fetta della gerarchia ecclesiastica latinoamericana, soprattutto
in Brasile.
Dalla seconda metà degli anni ottanta anche le confederazioni sindacali
si impegnarono su questo terreno. Promossero progetti di cooperazione, soprattutto
con realtà sindacali latinoamericane, crearono dei propri dipartimenti
e, infine, delle proprie ong. A volte le finalità erano scarsamente
cristalline (aiutare le componenti più moderate del sindacalismo latinoamericano),
altre volte però in quell'ambito trovarono "rifugio" militanti
e funzionari sindacali scontenti della linea portata avanti in Italia dai
gruppi dirigenti.
Le lotte dei popoli, e che avevano come controparte l'amministrazione reazionaria
di Reagan, aveva riattivato organismi che non si dedicavano in modo specifico
alla resistenza di un singolo popolo: ad esempio la Lega per i diritti dei
Popoli, Amnesty International, l'Associazione per la Pace (particolarmente
impegnata sulla Palestina). Su questi temi inoltre si impegnavano anche gli
organismi cattolici in maniera sempre più consistente, e così,
presto, si scatenò la repressione della gerarchia ecclesiastica: nel
1987 venivano allontanati da Nigrizia e Missione Oggi i loro direttori: Zanotelli
e Melandri.
Nella seconda metà degli anni ottanta divenne abbastanza tipico mettere
tutte queste lotte in unico calderone: Sudafrica, Centroamerica, Palestina,
disarmo, ecc. con momenti di incontro comuni. L'11 aprile del 1987 ad esempio
si tenne a Verona un'assemblea di tutti gli organismi di solidarietà
contro Reagan e per il diritto dei popoli, che decise per il 6 giugno una
manifestazione a Venezia in concomitanza con la riunione del G7.
Movimenti e aree politiche ebbero un po' di rifornimento energetico grazie
alla miniradicalizzazione giovanile che si verificò tra il 1985 e il
1990. Nel 1985 scoppiò il movimento dei medi che lottavano contro il
degrado della scuola pubblica. Molti di loro li ritroveremo poi, cresciuti,
nelle proteste universitarie della Pantera, un movimento di occupazione contro
la privatizzazione che iniziò nel dicembre 1989, ma che si era già
esaurito nel marzo dell'anno successivo.
Come si vede dunque a metà del 1990 ci si trovava con i movimenti di
solidarietà stanchi e sconfitti, con una serie di apparati politici
in crisi e in via di "dismissione", con studenti in disarmo. Si
erano manifestati nuovi fenomeni di dissenso sindacale di massa (nel 1987
sorsero i comitati di base della scuola), ma certo nel 1990 non avevano nemmeno
un decimo della loro capacità di mobilitazione di due anni prima. E'
questo clima che spiega la ragione per cui un fatto senza precedenti come
l'entrata in guerra del nostro Paese, abbia suscitato reazioni tutto sommato
così deboli.
Quando il conflitto scoppiò in tutta la sua violenza dunque, come al
solito la sinistra fu colta impreparata. In gran parte dei città sorsero
comitati e coordinamenti e si riattivarono vecchie strutture che datavano
dalla guerra del Golfo o addirittura dal decennio precedente.
In questa occasione risorse dalle ceneri una corrente, quella stalinista,
che solitamente si teneva a distanza di sicurezza dai movimenti (ma era presente
con propri strumenti organizzativi e di propaganda nel movimento contro i
Cruise). I militanti di questa cultura, rappresentata del PRC prima da Cossutta,
e dopo l'uscita di questi, da Grassi, e che conta diverse organizzazioni anche
fuori dal partito, avevano conosciuto un grave disorientamento all'epoca della
caduta del Muro di Berlino, poi si ripresero (per quel che riguarda le attività
internazionaliste) a partire dalla metà degli anni novanta, quando
anche tramite l'Associazione Italia-Cuba organizzavano viaggi di solidarietà
in quel Paese (che attirò comunque l'attenzione solidale di molti altri
gruppi, di diverso orientamento ideologico). Durante le mobilitazioni contro
la guerra in Kosova presero posizioni accesamente filoMilosevic, contribuendo
non poco alla caratterizzazione del movimento in senso antialbanese. Anche
a causa di questo orientamento che rifiutava di combattere allo stesso tempo
sia contro l'intervento NATO che contro la pulizia etnica diretta da Milosevic,
il movimento rimase ultraminoritario e riuscì a mobilitare un numero
di persone incomparabilmente inferiore a quello che aveva protestato in occasione
della guerra del Golfo. Una serie di realtà comunque, anche se meno
chiassose, mantennero insieme all'opposizione alla guerra anche una netta
ripulsa del nazionalismo granserbo: tra queste le organizzazioni pacifiste,
i centri sociali del nord est, un piccolo settore che faceva riferimento al
Comitato di Solidarietà con il Kosova. Quel poco di mobilitazione comunque
presto sparì, e la guerra terminò con la gran parte degli attivisti
smobilitati.
Ad animarlo sono settori di provenienza cristiana, pacifista, ma anche di
"sinistra classica". Spesso si tratta di quei militanti che cominciarono
le loro attività negli anni ottanta, nei movimenti di cui abbiamo parlato
più sopra. Essi reagirono molto meglio dei militanti di estrema sinistra
alla sconfitta: si misero a lavorare sottotraccia, riuscendo così a
coinvolgere sempre nuove generazioni, spesso in uscita dalle (o dentro alle)
parrocchie. Si trattava di una militanza poco orientata alla manifestazione
di massa del dissenso e molto più impegnata sul terreno dei cambiamenti
dello stile di vita quotidiano. Si cominciò con l'obiezione fiscale
alle spese militari, per poi organizzare la distribuzione e la vendita di
prodotti provenienti dal Terzo Mondo a prezzi equi e solidali. Oggi esistono
diverse centinaia di Botteghe del Mondo con una media di una decina di volontari,
e che spesso non si limitano a vendere, ma promuovono iniziative di sensibilizzazione
sul territorio. E' stata questa la vera attività di solidarietà
internazionale degli anni novanta e quindi rientra a pieno titolo in questa
trattazione.
Conclusione