Chi
sono gli anarchici in Italia oggi?
Una
lunga intervista a Cosimo Scarinzi storico esponente anarchico, che ci accompagna
nel tentativo di conoscere più a fondo questa componente della sinistra,
della quale non siamo parte, ma la cui legittimità e utilità
per tutta la sinistra ci pare doveroso riaffermare in un momento in cui ignoranza
da un lato e repressione dall'altro contribuscono a creare un clima di diffidenza
nei suoi confronti. REDS. Ottobre 2001.
Cosa e'
il movimento anarchico oggi in Italia? Sulla nostra rivista spesso ci dilunghiamo
nel descrivere (dal nostro punto di vista) le varie componenti della sinistra
italiana. Spesso pero' da queste analisi abbiamo lasciato fuori gli anarchici
perché ci mancano le conoscenze sufficienti per dire qualcosa di utile.
Ci aiuti a riempire questo vuoto? Ci sarebbe utile una sorta di "mappa"
delle varie componenti anarchiche che ci sono in Italia. Ritengo che
sia opportuno fare una premessa. Si parla di movimento anarchico per,
almeno, due ragioni: Per quanto
la definizione "movimento anarchico" possa apparire vaga, ritengo
evidente che non possa comprendere individui e gruppi che non si riconoscono
nei principi fondanti dell'anarchismo e, in estrema sintesi, nella critica
radicale alle gerarchie sociali e, di conseguenza, allo stato, al capitalismo,
alle strutture di potere formali ed informali. Detto ciò,
il movimento anarchico, propriamente detto, in Italia vede la presenza di: In realtà,
molti compagni che non appartengono ad alcuna delle federazioni che ho segnalato,
militano in gruppi e coordinamenti locali o partecipano alla vita del movimento
a titolo individuale. Si tratta di scelte che hanno molteplici ragioni e che
non creano, a quanto ne so troppi problemi. Gli anni
novanta hanno visto crescere in Italia due fenomeni non sempre legati tra
loro, ma che comunque hanno contribuito in maniera decisiva a disegnare quella
che è la sinistra oggi: i centri sociali e il sindacalismo di base.
In qualche modo per la loro costante polemica verso il verticismo, la burocrazia,
ecc; sono fenomeni vicini alla sensibilità anarchica. Ci spieghi qual
e' stato il contributo che gli anarchici hanno dato a questi fenomeni, e perché
pur apparendo chiaro persino a noi la consistenza certo non trascurabile di
questo contributo, l'anarchismo come corrente politica non ha oggi al loro
interno un grosso peso? Dei centri
sociali so poco e preferisco non esprimermi. Per quanto riguarda il sindacalismo
alternativo, direi che quest'esperienza non si sviluppa in un inframondo e
che risente del clima politico e sociale generale come è normale che
sia. Detto in altri termini, i militanti che animano l'esperienza dei sindacati
alternativi sono, certamente, critici nei confronti dei sindacati di stato
e, generalmente, almeno nella CUB, disincantati nei confronti dei partiti
parlamentari ma la loro cultura politica di riferimento, nonostante la sensibilità
antiburocratica alla quale spesso fai riferimento, è generalmente quella
della sinistra così com'è nella sua componente maggioritaria
e, cioè, della sinistra statalista. A questo proposito allego in nota
alcune considerazioni (3). Gli anni
novanta hanno visto sorgere in Italia un altro soggetto nuovo: il PRC, cui,
come sai, siamo legati, seppur criticamente. Quando e' sorto questo partito
aveva suscitato parecchie speranze e abbiamo conosciuto anche diversi anarchici
che vi avevano aderito. Poi l'appeal del partito e' continuamente diminuito.
Ci racconti qual e' il rapporto che le varie componenti dell'anarchismo hanno
intrattenuto con questo partito? Non vorrei
sembrare dogmatico anche perché non ritengo di esserlo ma nessun anarchico
ha mai aderito al PRC se al termine anarchico si da un significato non generico.
Si tratterebbe, come mi pare evidente, di una contraddizione in termini. Il
nostro rapporto con i socialisti parlamentari è stato definito in maniera
chiara e definitiva alla fine degli anni '80 del XIX secolo. Che un fautore
del parlamentarismo si definisca anarchico è possibile ma si tratterebbe
di un problema suo. Se credessi al valore della psicoanalisi direi che si
tratterebbe di un caso di schizofrenia. D'altro canto, se Montanelli si definiva
anarchico perché negare questo piacere ad altri? È possibile
che dei compagni abbiano cambiato di posizione politica e siano entrati nel
PRC ma, per la verità, non ne ho mai sentito parlare. Eppure siamo
un piccolo movimento, costituito da poche migliaia di compagni, e se dei casi
del genere si fossero dati anche per un solo compagno, se ne sarebbe almeno
discusso. Probabilmente nel PRC sono entrati compagni di sensibilità
libertaria che non appartenevano o non appartenevano più da anni nel
movimento specifico. Il sindacalismo
di base e' nato per portare aria nuova nel fare sindacato, e spesso in vari
momenti vi e' riuscito. Registriamo pero', pur in piccolo se proporzionato
agli scempi delle direzioni maggioritarie delle organizzazioni di massa, tendenze
non sempre nuovissime: ad esempio una certa tendenza al leaderismo, un forte
settarismo, e dunque, un ritorno sotto altre forme dello spirito di delega.
Sei d'accordo? Qualche antidoto? Non so se
mi stimi troppo o se ti burli di me quando mi fai una domanda del genere.
Credo, comunque, si possa agire in due modi: Troviamo
anarchici un po' in tutti i sindacati. C'è' l'USI ovviamente, tu sei
nella CUB, conosciamo compagni anarchici nei Cobas e persino nella CGIL. Come
mai questa distribuzione? Tra gli anarchici che dibattito c'è sulla
"questione sindacale"? In realtà
diversi ottimi compagni sono anche nella CISL. Ne conosco di iscritti alla
CISAL. Della UIL non so. Direi che vi sono diverse ragioni per questa differenziazione
nella scelte sindacali: Su questi
temi la discussione nel movimento specifico è stata vivace, oggi le
varie scelte sono più stabilizzate che in passato ma si organizzano,
almeno da parte della FAI, dell'FdCA, di vari gruppi nei quali si discute
della questione sociale e dell'intervento libertario nelle lotte. La discussione
è aperta sulla stampa, nelle liste di discussione su internet ecc. E veniamo
a Genova. Come sai una delle ragioni di questa intervista e' quella di contribuire
a rompere, nel nostro piccolo, il cerchio impalpabile di diffidenza che e'
cresciuta nei confronti degli anarchici all'interno del movimento antiglobalizzazione.
Non lo facciamo per bontà ma perché e' interesse di tutti (o
per lo meno di tutti coloro che lottano per il protagonismo della base) che
non vi siano componenti escluse sulla base delle proprie idee. Si comincia
con gli anarchici e non si sa poi con chi si finisce. Parlaci di come e' vissuto
tra gli anarchici questo movimento, Genova e il dopo Genova. Per la verità,
abbiamo le spalle larghe e siamo in grado di reggere alla diffidenza di chiunque.
In realtà, paradossalmente, gli anarchici a Genova sono stati coinvolti
meno di altri settori del movimento negli scontri, almeno il 20 luglio, visto
che erano per la maggior parte alla manifestazione dei sindacati di base dai
quali hanno ricevuto ampie attestazioni di stima che ho verificato, recentemente,
al Consiglio Nazionale della CUB che non è proprio un covo di estremisti.
La scelta degli anarchici di evitare la trappola costituita dalla scelta fra
violenza e logiche istituzionali, il fatto di lavorare sull'ipotesi "radicali
e radicati" sui contenuti della mobilitazione, per lo sciopero dei sindacati
di base è stata non sempre semplice da gestire ma io la rivendico come,
per l'essenziale, corretta. Certamente il rapporto con i sindacati di base
non è stato sempre lineare. Nel movimento specifico se ne è
discusso e se ne discuterà e chi, come me, è contemporaneamente
anarchico e sindacalista si trova impegnato in questa discussione, passami
la battuta, su due fronti. È, infatti, evidente che non sempre vi era
coincidenza fra le parole d'ordine e le scelte operative degli anarchici e
quelle dei sindacati alternativi ma questo mi sembra normale. Mi riferisco,
in particolare, ai rapporti della CUB con il Genoa Social Forum. Come ho già
detto, non si può pretendere che i sindacati alternativi siano altro
rispetto a quel che sono. Come anarchici, però, abbiamo il diritto
di criticare le scelte dei sindacati nei quali, magari, militiamo e non sono
mancate critiche serie ed argomentate, ad esempio, sulle pagine di "Umanità
Nova". In tutta
Italia si vanno formando social forum. A noi, come diciamo in altra parte,
non pare stiano partendo col piede giusto. L'impressione e' che siano calati
dall'alto, e gestiti, seppur confusamente, dall'alto. Ci pare che le vecchie
direzioni politiche (ognuna delle quali si e' "fatta i fatti propri"
negli anni novanta) si ritrovino tutte insieme e che le loro divisioni ed
ambizioni siano una specie di tappo per il movimento. In tutti i casi queste
considerazioni critiche non ci sembrano una buona ragione per starne fuori:
vi partecipa un sacco di gente nuova, con una forte voglia di partecipazione.
Gli anarchici che fanno? Sono dentro, sono fuori? Condivido,
nella sostanza, la vostra valutazione. A quanto mi risulta, di norma, i compagni
hanno scelto di stare nel movimento contro la repressione e contro la guerra
senza aderire ai vari social forum che, per la verità, sembrano più
degli intergruppi egemonizzati dal PRC e dalla sinistra CGIL che altro. D'altro
canto, queste aggregazioni esprimono una volontà unitaria del "popolo
di sinistra" che non va disprezzata. Non va, insomma, assunta un'attitudine
elitaria. Un po'
di pubblicità. Conosciamo la copiosa produzione anarchica di testi
di carattere storico (studi sullo stesso movimento anarchico e non solo).
Ci pare che non abbondino invece libri con riflessioni anarchiche sull'oggi.
Se e' cosi' puoi spiegarne la ragione? Puoi dare delle indicazioni dei testi
che ci sono in circolazione (titoli, case editrici, librerie dove reperirli,
ecc.)? Quando rilevi
che gli anarchici hanno una passione inesausta per la storia non hai tutti
i torti. Peraltro io condivido questa passione e me ne assumo la mia, limitata,
parte di responsabilità. Credo si spieghi con l'esigenza di salvare
una memoria ed un'identità che la vittoria, provvisoria, come sappiamo
oggi, ma di lungo periodo, della sinistra statalista sembrava condannare all'estinzione.
Gli anarchici sono, poi, degli appassionati del libro e le pubblicazioni di
libri, giornali, opuscoli fioriscono. Segnalo solo,
da questo punto di vista, l'ottima "Rivista Storica dell'Anarchismo"
Editata dalle Edizioni della Biblioteca Franco Serantini, Largo Concetto Marchesi,
56124 Pisa , e mail bfspisa@tin.it . La
BFS Edizioni pubblica anche la rivista di teoria politica "Collegmenti/Wobbly
per l'organizzazione diretta di classe", alla quale collaboro, che può
essere richiesta a Guido Barroero, Vico Condino 1/6, 16156 Genova Pegli o
a collegamenti_wobbly@yahoo.it
. NOTE: (1)
La sigla FAI viene assunta nel secondo dopoguerra. (2)
Note sulla militanza. Capita a me come, credo, ad altri compagni di domandarmi
come si spieghi il fatto che, in presenza di molte e dichiarate simpatie per
una critica libertaria dell'esistente, simpatie che si spingono spesso sino
all'esplicita dichiarazione di adesione all'anarchismo, il movimento anarchico,
inteso come un assieme di militanti, resti una realtà relativamente
modesta, dal punto di vista della consistenza quantitativa. Le
ragioni dell'attuale simpatia nei confronti della tradizione e della proposta
libertaria sono, credo, evidenti: -
i cugini concorrenti dei bolscevichi, i socialdemocratici, ottengono una vittoria
apparente nello scontro che li ha opposti per decenni ma, nel contempo, risulta
evidente non solo l'inefficacia della loro proposta di fuoriuscire dolcemente
dal modo di produzione capitalistico attraverso una serie di graduali riforme
ma anche l'incapacità di attenuarne gli effetti più distruttivi
per quel che riguarda le condizioni di vita delle classi subalterne. Se di
riformismo si parla oggi, si tratta di un riformismo al contrario che sposta,
attraverso l'uso spregiudicato della macchina statale, risorse dalle classi
subalterne a quelle dominanti, dai lavoratori alle imprese; -
in questo contesto, la componente libertaria della nuova sinistra sviluppatasi
negli anni '60 e '70, componente che si è concretizzata in comportamenti,
stili di vita, tensioni antiburocratiche più che in una precisa proposta
politica, può, almeno parzialmente, emanciparsi dalla subalternità
alla sinistra statalista che l'ha, in gran parte, caratterizzata in passato.
In altri termini, sembrerebbe possibile il passaggio da un generico ma interessante
libertarismo che si è concretizzato nella rivendicazione di forme di
democrazia diretta e di organizzazione non burocratica della militanza, nell'affermarsi
di una sensibilità per la libertà sessuale, l'emancipazione
femminile, la difesa dei diritti delle minoranze etniche e delle culture subalterne,
la definizione di un rapporto non distruttivo con l'ambiente ecc., ad una
esplicita individuazione del comunismo libertario come proposta politica alla
quale riferirsi; -
elementi interessanti, dal nostro punto di vista, potrebbero rinvenirsi anche
nell'antistatalismo generico che anima movimenti antifiscali ed antiburocratici
attualmente egemonizzati da forze di destra. L'insopportabilità del
controllo burocratico sulla vita quotidiana delle classi subalterne, lo scontento
per la crescente pressione fiscale sui salari, l'esigenza di valorizzare le
realtà produttive e sociali locali contro i grandi centri di potere
statali, finanziari, industriali, potrebbero dare nuovo alimento alla pratica
ed alla proposta anarchica nella misura in cui si riuscisse a spezzare l'egemonia
della piccola impresa e dei ceti medi in rivolta antifiscale su consistenti
settori del lavoro salariato. Sulla
base di quanto si è sinora affermato è legittima la domanda
del perché il movimento anarchico specifico gioca un ruolo inferiore
a quello che parrebbe possibile in un contesto apparentemente favorevole.
Come limitato e personale contributo a questo lavoro, proporrò una
domanda che ritengo semplice e radicale. Supponendo
che gli anarchici, come coloro che si rifanno ad altre visioni del mondo,
siano il prodotto di precise dinamiche storico sociali, credo si possa affermare
che un anarchico sia un individuo che si caratterizza per l'intreccio fra
una rivolta, impegnativa e significativa dal punto di vista personale, contro
l'ordine sociale esistente e l'incontro con la tradizione dell'anarchismo
così come se la trova di fronte sia nella forma di una serie di elaborazioni
teoriche che in quella di proposte di azione politica e sociale. -
quello che ritiene possibile e desiderabile una società fondata sull'autogoverno
dei produttori associati e che possiamo definire, di conseguenza, comunista; -
quello che pone l'accento sulla rivendicazione più ampia della libertà
individuale prescindendo dai caratteri di classe delle forze alle quali si
riferisce e da una proposta di rottura radicale con l'esistente; -
quello che individua nella rivolta immediata contro l'esistente e nell'affermazione
di uno stile di vita conseguente a questa rivolta i caratteri di un anarchismo
che non rimanda ad un domani la sua realizzazione. -
la critica teorica dell'attuale ordine sociale, critica che non si riduce
alla rivendicazione di una tradizione ma che, fondandosi sulle conquiste che
da questa tradizione ci vengono tramandate, si propone di utilizzare tutte
le conoscenze che lo sviluppo della scienza della produzione, nella loro forma
capitalistica ed autoritaria, e della prassi delle classi subalterne ci pongono
a disposizione per rendere più efficace la lotta anticapitalistica
ed antistatale; -
la partecipazione, nelle forme che la situazione che ci troviamo di fronte,
rende possibili alle lotte sociali, sindacali, culturali che le classi subalterne
conducono e lo sforzo di rendere queste lotte più ampie, meglio coordinate,
più radicali; -
la costruzione di ambiti di collaborazione e di confronto fra compagni che,
condividendo lo stesso programma generale, agiscono in contesti immediati
diversi e con diverse modalità di azione al fine di rafforzare la nostra
azione, valorizzare le esperienze particolari, garantirci reciproca solidarietà
ecc.. Questa
complessa attività, la militanza in una parola, prevede l'assunzione
di compiti, responsabilità, impegni che proseguono nel tempo e che
non corrispondono necessariamente ai nostri interessi immediati. Proverò
a definire questo paradosso in forma schematica: -
le ragioni del rifiuto dell'ordine sociale gerarchico e capitalistico sono,
in prima istanza, etiche. Lo sfruttamento ed il potere appaiono ingiusti a
partire dalle contraddizioni interne al discorso dominante: lo stato non si
occupa affatto del bene comune come pretende e l'impresa esercita sui lavoratori
un dispotismo che contraddice la sua pretesa di operare sulla base di uno
scambio eguale fra lavoro e salario. Di conseguenza la critica radicale del
capitalismo e del dominio prende le mosse dalle contraddizioni interne dell'autorappresentazione
dell'attuale società; -
la critica del riformismo e dello statalismo di sinistra non è che
la prosecuzione coerente di questo rifiuto, Appare, infatti, evidente che
le forme di organizzazione e di azione che vengono proposte dai partiti e
dai sindacati istituzionali si modellano sulle relazioni sociali dominanti
e ne riproducono la logica interna con l'effetto di favorire l'integrazione
delle classi subalterne nell'attuale ordine sociale in cambio, nella migliore
delle ipotesi, di conquiste immediate decisamente limitate; -
una prassi sovversiva afferma, d'altro canto, l'esigenza di spezzare immediatamente
l'ordine del mondo a partire dalla condizione immediata del soggetto concreto
che la sperimenta. Il sabotaggio della produzione, la destabilizzazione del
potere sia sui luoghi di lavoro che nella società, la denuncia e la
ridicolizzazione delle pretese delle istituzioni sono il punto di partenza
di ogni proposta sovversiva. Queste pratiche sono tali da non richiedere l'adesione
ad un programma politico e sociale ed, anzi, si danno nella condizione quotidiana
dei proletari come scelte possibili, soddisfacenti, efficaci a prescindere
da qualsiasi discorso che pretenda un valore sociale generale; -
se, insomma, una scelta sovversiva ha una precondizione etica, una prassi
sovversiva ha una base ludica ed estetica e non vi è affatto coincidenza
necessaria fra le due. Al contrario, il fatto che le pratiche quotidiane di
resistenza al dominio siano diffuse a prescindere da ogni azione politica,
sociale e sindacale volontaria è una risorsa potenziale per ogni progetto
di trasformazione dell'ordine del mondo ma, se ne è una condizione
necessaria, non è sufficiente; -
una valutazione realistica e disincantata dei caratteri della trasgressione
quotidiana e, come dire, fisiologica nei confronti dell'ordine produttivo
e sociale esistente ci conduce alla conclusione che se non le sono necessari
convincimenti politici generali di carattere rivoluzionario per manifestarsi
non produce affatto in maniera altrettanto necessaria un'identità rivoluzionaria.
Un lavoratore salariato può praticare l'assenteismo o un giovane uno
stile di vita trasgressivo senza che ne derivi nulla di diverso dall'assenteismo
o dalla trasgressione; -
a questa contraddizione le correnti deterministe del movimento operaio hanno
dato una risposta suggestiva ma fallace. Le lotte immediate dei subalterni
vengono interpretate come tradeunionismo o sindacalismo, incapace di per sé
di andare oltre una difesa delle condizioni immediate dei soggetti coinvolti.
Le possibilità di una cambiamento radicale dell'esistente vengono affidate
alle crisi interne al modo di produzione capitalistico, crisi che un soggetto
politico (il partito) può trasformare in un cambiamento rivoluzionario,
Il determinismo della premessa si rovescia in una particolare forma di volontarismo
politico. Il partito, infatti, avrebbe la consapevolezza generale dei termini
della questione sociale e opererebbe nel senso della storia e, sarebbe, in
questo senso, detentore di una scienza della necessità nel mentre vorrebbe
fortemente l'abbattimento dell'ordine costituito. Questa volontà, percepita
come il carattere costitutivo di un partito rivoluzionario contraddice l'impianto
determinista che la legittima come vincente. Il "materialismo" dei
deterministi si rivela, in fondo, come una teoria metafisica, simile, senza
averne l'eleganza ed il carattere suggestivo, alle rivelazioni religiose che
pongono l'adeguarsi alla volontà di Dio come realizzazione della libertà; -
in questo modello riappare, anche in un altro senso, una vera e propria metafisica.
Vi sarebbe infatti una separazione radicale fra concreto agire del proletariato
e suo ruolo storico e fra teoria delle leggi generali della società
(dell'essere sociale del capitale e della classe) e fenomenologia del conflitto
sociale. In realtà il modello in questione non fa, sul piano pratico,
che reintrodurre nel movimento operaio la divisione sociale del lavoro fra
dirigenti e diretti, fra lavoro intellettuale e manuale, mentre, sul piano
teorico, ci si trova di fronte ad un pensiero regressivo a fronte dello stesso
modello delle scienze fisiche e sociali affermatosi nel secolo passato; -
dal punto di vista anarchico il modello al quale ho appena fatto cenno non
è, di norma, accettato, proprio per i suoi caratteri intrinsecamente
autoritari. Per la verità vi sono compagni che ne utilizzano una variabile,
come dire, depotenziata che consiste nell'affidare al soggetto politico non
una funzione di direzione nei confronti della classe ma una di orientamento,
dal punto di vista teorico, e di assunzione dei livelli più alti dello
scontro politico, dal punto di vista pratico. In altri termini, viene separata
la parte distruttiva dello scontro politico, affidata all'organizzazione specifica,
e quella costruttiva che viene affidata agli organismi di autogoverno proletario; -
più interessante e produttiva mi sembra essere l'ipotesi di coloro
che vedono nella concreta condizione proletaria l'emergere di contraddizioni
profonde che si manifestano in pratiche quotidiane di resistenza e di conflitto
in forme assai diversificate che vanno dal sabotaggio individuale allo sciopero,
dalla costruzione di reti informali di relazioni antisistemiche allo sviluppo
di strutture organizzate di lotta di tipo politico, culturale e sindacale.
Anche questo modello di interpretazione del conflitto di classe, al quale
sono decisamente più vicino, non risolve a pieno la questione del carattere
specifico della militanza politica che, con ogni evidenza, non è il
prodotto immediato del conflitto di classe e della condizione salariata; -
i compagni, infatti, non solo non sono necessariamente dei proletari ma anche
quando lo sono si aggregano sulla base di esigenze che non discendono immediatamente
dalla loro collocazione produttiva e sociale. L'esigenza di sviluppare una
critica teorica generale della società, di confrontarsi nel merito,
di vivere relazioni immediate di solidarietà, mutuo appoggio, definizione
di un'identità caratterizza il movimento anarchico specifico e non
può essere ridotta, anche se deve essere posta in relazione con, al
conflitto sociale. Dal punto di vista empirico ne consegue che il movimento
specifico tende ad apparire più come una comunità politico/sociale
che come un partito d'avanguardia o un aggregato sociale espressione immediata
di settori della working class; -
da questa condizione nasce una teoria della separatezza, rispetto all'ordine
sociale dominante, del movimento anarchico assunto, appunto, come comunità
relativamente omogenea di soggetti umani trasgressivi rispetto all'ordine
sociale esistente. Per ragioni storiche sufficientemente note, il fallimento
delle rivoluzioni del secolo che volge alla fine, questa attitudine sembra
ragionevolmente soddisfacente e più adeguata di altre a rendere conto
dell'effettiva pratica del movimento anarchico realmente esistente; -
la relativa egemonia nel movimento di componenti e di sensibilità etico-estetiche
a fronte di quelle che pongono l'attenzione sulla prassi politico sociale
non è, quindi, come credono alcuni, il prodotto di chissà quale
travisamento della retta dottrina ma un effetto dell'adattamento del movimento
alle difficili condizioni di sopravvivenza al quale la contingenza storica
lo ha costretto. Le tensioni fra le diverse sensibilità che derivano
da questa egemonia sono, a ben vedere e di norma, poco produttive e raramente
vanno alla radice dei problemi; -
una militanza di tipo politico sociale volta esplicitamente a mettere in discussione
l'ordine del mondo può essere proposta, se vogliamo evitare il ricatto
morale, solo dimostrandone il carattere efficace, interessante, non sacrificale. In
estrema sintesi, o la militanza si costruisce come una prassi sociale capace
di soddisfare un bisogno individuale e collettivo di crescita intellettuale
e di costruzione di relazioni soddisfacenti o è condannata ad essere
una condizione non di minoranza, inevitabile, ma minoritaria ed interstiziale,
il che, almeno a mio parere, è evitabile. (3)
Capita da qualche tempo di leggere sui giornali della sinistra appelli elettorali
per questo o quel candidato (solitamente presentatosi nelle liste del PRC)
firmati da una serie di militanti di diversi sindacati di base ognuno dei
quali indica il sindacato di appartenenza e, in qualche caso, il ruolo che
svolge nel sindacato stesso.
L'anarchismo, in altri termini, non è né una generica attitudine
anticonformista né un altrettanto generica critica della burocrazia.
Di conseguenza, ambienti come quello che si definisce anarcocapitalista, da
una parte, o settori movimentisti della sinistra, dall'altra, non possono
essere definiti anarchici almeno se le parole hanno un senso non perché
qualcuno li escluda ma per le loro stesse scelte. Naturalmente si può
parlare di un'area libertaria per indicare quelle componenti della sinistra
che, senza accettare il programma anarchico e riconoscersi in quello che gli
anarchici definiscono sovente "movimento specifico", manifestano
simpatia per specifiche posizioni libertarie come la critica alla delega,
la rivendicazione dell'autonomia sociale delle classi subalterne a fronte
dei partiti, dei sindacati, dello stato, la libertà di sperimentazione
e di ricerca sul terreno della prassi sociale.
Per evitare equivoci, io, e non sono il solo, guardo con grande interesse
all'area libertaria e penso che la sensibilità libertaria non sia monopolio
del movimento anarchico inteso in senso stretto. Per dirla tutta, lo stesso
movimento anarchico non si deve pensare come un'avanguardia illuminata ma
come un soggetto politico che verifica nel rapporto con le lotte sociali le
proprie posizioni e fra questi momenti di verifica non è secondario
quello con i movimenti e le aree culturali portatori di istanze libertarie.
Se si pone l'accento non sulle appartenenze organizzative, che in campo anarchico
mi sembrano pesare meno che in altre aree, ma sulle posizioni politiche generali,
sui può tentare una schematizzazione, necessariamente sintetica, delle
posizioni politiche che caratterizzano il movimento anarchico.
Mi permetto a questo proposito, di riportare, in nota (2), un brano tratto
da un mio libro,"L'enigma della transizione Conflitto sociale e
progetto sovversivo" editato dalle Edizioni Zero in condotta di Milano
nel novembre 2000.
Vi è una seconda notazione da fare, i militanti anarchici impegnati
nel sindacalismo di base non vanno in giro con una fascia sulla fronte con
dipinta la fiaccola dell'anarchia. Anzi, di norma, vivono fortemente l'impegno
sindacale come una cosa seria e cercano, soprattutto, di praticare il metodo
libertario nella militanza quotidiana.
Per fare un esempio concreto, nella CUB, il sindacato nel quale milito ci
sono, a quanto ne so, visto che non li conosco tutti, oltre un centinaio di
militanti anarchici intesi in senso proprio e molti di loro hanno responsabilità
organizzative di vario tipo e tutti sono fortemente impegnati almeno a livello
aziendale. Il fatto stesso che a questi compagni non sia venuto in mente di
organizzarsi in corrente o di fare pressioni strane per occupare posizioni
di "potere" è tipico della nostra componente.
Non ho un'idea della consistenza della componente anarchica negli altri sindacati
di base ma ne conosco diversi che militano oltre che, ovviamente, nell'USI,
nella Confederazione Cobas, nell'Unicobas ecc. e, di norma, vi sono buoni
rapporti fra di noi.
Si deve considerare, inoltre, che c'è una rivista d'area, "Sindacalismo
di Base" che ha oltre 300 abbonati fra i militanti dei sindacati di base,
che ovviamente non tutti gli anarchici che fanno sindacato sono abbonati alla
rivista e che non tutti la comprano, che non tutti gli abbonati ed i lettori
sono anarchici e che, anzi, la maggioranza non lo è. L'interesse e,
direi, l'apprezzamento per questa rivista segnalano che c'è un'attenzione
al punto di vista libertario anche fra sindacalisti non anarchici.
La stessa "Umanità Nova" ha qualche centinaio di abbonati
fra i militanti del sindacato di base e sicuramente dei lettori non abbonati
e viene spesso utilizzata nel lavoro sindacale. Sulla diffusione nel sindacato
di base di UN ho un'idea meno precisa di quella che ho riguardo a SdB ma,
se guardo alle situazioni torinese e milanese che conosco meglio, verifico
che viene letta, che suscita discussioni, che viene ripresa sulla stampa sindacale
ecc.. Nulla di straordinario ma nemmeno l'irrilevanza che sembri adombrare.
Venendo alla domanda più generale che fai, il peso maggiore o minore
dell'anarchismo in area sindacale, e negli stessi sindacati alternativi, non
dipende o, almeno, non dipende principalmente dall'azione dei militanti anarchici
ma dall'orientamento predominante a sinistra e quest'orientamento non prescinde
dal clima sociale generale. In questa fase le componenti moderate o, al massimo,
riformiste radicali, stataliste e welfariste sono fisiologicamente egemoni.
Se non fosse così saremmo in una fase storica diversa da quella che,
non per nostra scelta, viviamo.
Per quanto mi riguarda, posso aggiungere che ritengo sufficiente la rivendicazione
e, soprattutto, la pratica dell'autonomia dai padroni, dai partiti e dallo
stato mentre mi pare implausibile il pretendere che un sindacato sia antiparlamentare,
antistatale ed anticapitalista e questo non perché io non lo desidererei
ma perché dovrebbe esservi, perché si realizzasse questa situazione,
una vera e propria mutazione della situazione sociale generale.
Per quanto, invece il rapporto fra movimento anarchico e PRC intesi come partiti
distinti, direi che sono profondamente diversi rispetto a quelli che c'erano
con il PCI e per molteplici ragioni. In primo luogo, il PRC è solo
assai imperfettamente l'erede del PCI, non foss'altro che per la presenza
al suo interno di molti militanti che vengono dalla nuova sinistra degli anni
'70.
Nel PRC, indubbiamente, vi sono settori ampi che hanno elaborato una critica
vera e seria al "comunismo storico novecentesco" e che sperimentano
forme dell'azione politica e sociale diverse, in meglio, almeno a mio avviso,
rispetto alla tradizione stalinotogliattiana.
In estrema sintesi, e non sono né il solo né il primo a dirlo,
il PRC sembra spesso più simile ad un partito socialista di sinistra
che ad un partito terzointernazionalista e questa sua caratteristica permette
un rapporto più sciolto a livello locale, su singole iniziative ecc..
Infine, il PCI era, sempre, un avversario duro e, spesso, un nemico feroce
mentre il PRC non lo è se non nel senso della differenza di posizioni
politiche e spero che la dialettica fra anarchici e socialisti parlamentari
del terzo millennio si sviluppi non nella forma dell'inimicizia radicale ma
in quella del confronto delle posizioni politiche e delle proposte pratiche
e del rispetto delle differenti posizioni.
Abbiamo, fra l'altro, trovato divertenti le strumentali lodi che il Ministro
degli Interni e vari dirigenti della polizia hanno reso agli anarchici. Era
evidente la loro logica: se un corteo "estremista" non è
stato caricato questa è la prova che non vi era una volontà
di scontro a tutti i costi da parte della polizia.
Immagino che, in realtà, tu ti riferisci al Blocco Nero quando parli
di problemi che avremmo in quanto anarchici. A quanto ne so, ma posso sbagliare,
il Blocco Nero, al di là di quello che effettivamente è, è
stato costruito come mito mediatico ed è servito a molti, da destra
e da sinistra, per scaricare addosso ad un'immagine le proprie responsabilità.
Per la polizia, la destra ed il governo, è servito a presentare Genova
come una città invasa dai barbari, per i dirigenti irresponsabili della
sinistra che hanno blaterato sin troppo di sfondamenti della zona rossa, per
presentarsi come pecorelle vittime dei cattivacci. Se qualcuno è interessato
ad un approfondimento della questione può leggere il numero speciale
che "Umanità Nova" ha dedicato quest'estate ai fatti di Genova.
Più in generale, che gli anarchici siano associati a componenti o a
comportamenti "asociali" è, inutile illudersi, inevitabile.
Credo, però, che le persone serie possano fare uno sforzo di conoscenza
della nostra attività come, peraltro, state facendo voi.
Direi, anzi, che la ricerca storica di parte anarchica si è caratterizzata,
negli ultimi anni, per un positivo salto di qualità, di rigore e di
autorevolezza.
La BFS pubblica, certo, testi di carattere storico e riedizioni ben curate
di vecchi testi teorici, non solo anarchici come quelli del teorico dell'operaismo
Raniero Panzieri ma anche testi teorici nuovi come quelli, ottimi, di Diego
Giachetti sulla rivolta di Corso Traiano a Torino, sulle lotte operaie in
Fiat, sul '68, quelli di Alain Bihr (Dall'assalto al cielo all'alternativa)
dei quali ha si è parlato su tutti i giornali di sinistra, di Gianfranco
Marelli sul situazionismo, di Maurizio Antonioli sul sindacalismo, di Riccardo
Bellofiore sul quadro economico ecc.. è interessante notare come le
case editrici anarchiche pubblichino testi sia di anarchici che di non anarchici
purché siano ritenuti interessanti.
La casa editrice della FAI è "Zero in Condotta" che pubblica
materiale di attualità oltre che materiale storico. Solo io ho pubblicato
per le Edizioni ZiC tre libri ("L'idra di Lerna dall'autorganizzazione
delle lotte all'autogestione sociale", "L'enigma della transizione
Conflitto sociale e progetto sovversivo", "Qui comincia l'avventura
Note sulla natura e sulle basi sociali della seconda repubblica"
ma diversi altri compagni hanno scritto per ZiC testi di attualità
politica. Penso, per fare un esempio a Salvo Vaccaro ed a Domenico Liguori.
Elèuthera, Via Rovetta 27, 20127 Milano e mail eleuthera@tin.it
che pubblica molti libri interessanti fra i quali ricordo solo il recente
libro sul rapporto fra anarchici ed ebrei.
In realtà, le case editrici anarchiche sono una dozzina e testi anarchici
sono editati anche da case editrici commerciali. Escono, inoltre, diversi
giornali e riviste, oltre a quelli già segnalati, come "Comunismo
Libertario", "Germinal", "A Rivista Anarchica", "Libertaria"
solo per fare alcuni esempi.
Se vi interessa potrei prepararvi una scheda sull'argomento.
In sintesi, probabilmente gli anarchici non riescono a fare conoscere in un
ambiente sufficientemente vasto la loro produzione giornalistica e libraria,
ma questo non mi pare un problema dei soli anarchici. La stampa libertaria
raggiunge, comunque, alcune decine di migliaia di persone a meno di non immaginare
che gli stesi tremila o quattromila lettori comprino tutto cosa che non è
plausibile sia per i nostri limiti economici sia perché la stampa anarchica
è fortemente differenziata al suo interno per stile, livello di approfondimento,
linee politiche. Se si considera che il movimento anarchico ha una composizione
essenzialmente proletaria in senso classico non si tratta di un risultato
modestissimo.
Non manca una riflessione sull'oggi e sulle prospettive del domani che appare,
forse, più sulla stampa periodica che sui libri ma che anche diversi
libri testimoniano.
Al fine di evitare equivoci, non ritengo che la consistenza quantitativa del
movimento anarchico tolga o aggiunga nulla alla condivisibilità dell'anarchismo
come visione del mondo e, di conseguenza, non pongo il problema se l'anarchismo
sia superato, smentito, in altri termini, falsificato.
Faccio un paragone solo apparentemente provocatorio: la verità di una
rivelazione religiosa o la condivisibilità di una teoria scientifica
non dipendono dal numero di coloro che l'accettano ma dalla possibilità
di verificarle sulla base di criteri dichiarati e tali da rendere conto delle
contraddizioni e delle potenzialità dell'ipotesi presa in considerazione.
L'anarchismo, come critica del potere, manterrebbe il suo senso e la sua condivisibilità
anche se non vi fosse un solo militante anarchico e sarebbe suscettibile di
critica teorica anche se gli anarchici militanti fossero milioni.
L'anarchismo al quale mi riferisco non è, di conseguenza, la teoria
anarchica ma quello che si può definire l'anarchismo realmente esistente
o, per semplicità, anarchismo storico.
Per restringere il campo della riflessione, ritengo opportuno fare un ulteriore
considerazione.
Mi è capitato di notare che quando qualche esponente della cultura
ufficiale si dichiara o viene definito anarchico provo un certo qual fastidio
e che altrettanto avviene ad altri compagni.
L'esempio più noto, credo, di questo anarchismo della mutua è,
in Italia, Indro Montanelli. Ritengo evidente che Montanelli si ritiene anarchico
in quanto anticonformista e che, di conseguenza, il suo anarchismo consiste
in uno stile letterario ed in un atteggiamento originale, almeno a suo parere.
Visto che l'anticonformismo, di per sé, è un attributo che non
si può negare a nessuno è evidente che lo sforzo che alcuni
compagni fanno per denunciare la confusione fra anarchismo ed anticonformismo,
reale o presunto, è lodevole ma condannato allo scacco. Che ci piaccia
o meno, chiunque si ritenga o sia ritenuto originale potrà continuare
a definirsi anarchico o sarà definito in questo modo e la cosa non
farà gran danno se si prescinde dal fastidio che può provocarci
.
Se, però, quello che ci interessa è il rapporto fra comportamenti
e convincimenti che non sono genericamente anticonformisti ma, al contrario,
determinano un'effettiva rottura con l'ordine dominante e la proposta, che
fa l'anarchismo organizzato, di trasformarli in una militanza quotidiana,
il problema è significativamente diverso.
Mi riferisco, quindi, allo scarto che, come ricordavo, cogliamo fra la crescita
di interesse per la critica libertaria del capitalismo e dello stato in settori
della sinistra sociale e l'attuale consistenza del movimento anarchico specifico.
- il crollo del blocco a capitalismo di stato e le modalità di questa
stessa implosione sono stati una smentita difficilmente contestabile non solo
della pretesa del bolscevismo di aver realizzato una fuoriuscita in senso
progressivo dal modo di produzione capitalistico ma anche della presunta efficacia
della proposta organizzativa del bolscevismo stesso come modello eguale e
contrario rispetto alla struttura capitalistica e statale. La relativa facilità
dell'integrazione dell'apparato dei vari stati-partito "comunisti",
per non parlare dei partiti postcomunisti occidentali, rispetto all'area del
capitalismo di mercato comporta una doppia sconfitta per il bolscevismo che
si è dimostrato incapace di realizzare una qualche forma di socialismo,
per un verso, e di essere concorrenziale rispetto al blocco occidentale, per
l'altro;
è opportuno ricordare che non vi è una tradizione dell'anarchismo
ma un assieme di proposte e di elaborazioni a volte fra di loro differenti
altre volte esplicitamente contrastanti.
In estrema e discutibile sintesi si può affermare che vi sono, se si
prescinde dalle posizioni intermedie che possono essere infinite, almeno tre
filoni dell'anarchismo meritevoli di attenzione:
Ritengo che il filone dell'anarchismo più internamente coerente sia
il primo: la critica radicale del potere statale e della proprietà
privata dei mezzi di produzione e la conseguente lotta per la realizzazione
del comunismo libertario.
D'altro canto, ritengo evidente, che proprio questa posizione è la
più problematica dal punto di vista della militanza.
Infatti la posizione che possiamo definire umanista o liberale comporta più
che altro la pratica di un'attività di carattere culturale e di propaganda
della critica alla società attuale. La posizione che possiamo definire
esistenziale implica la costruzione di ambiti ove vivere la propria quotidianità
alternativa senza che sia essenziale la partecipazione alla lotta delle classi
subalterne che è, anzi, di norma, esclusa. Ancora una volta, ricordo
che mi riferisco a modelli puri di azione che non corrispondono necessariamente
alla pratica effettiva dei compagni che si riconoscono in uno dei due filoni
ai quali ho fatto cenno.
L'anarchismo di coloro che ritengono centrale la lotta fra le classi e che
si propongono la realizzazione del comunismo libertario si traduce necessariamente,
a mio parere, nel condurre un'azione metodica che si articola su diversi piani:
D'altro canto, la rivolta soggettiva contro l'istituito parte, in primo luogo,
dal rifiuto di sacrificare la nostra vita concreta a regole, impegni, obblighi
che ci vengono imposti dalle gerarchie dominanti e che sono interiorizzati
nel senso comune delle classi subalterne sotto la forma del ricatto morale
consistente nell'idea che noi avremmo dei precisi doveri verso la società,
il lavoro, l'autorità. Questo dovere si concretizza in stili di vita
e mentalità che sono forze storiche che solo un materialista volgare
può concepire come realtà spirituali o sovrastrutturali visto
che le mentalità sono forze materiali.
Il rifiuto di sottostare al ricatto morale dominante è una condizione
necessaria anche se non sufficiente dell'assunzione dell'anarchismo come punto
di vista sulla società.
Questo rifiuto si lega all'affermazione della propria volontà di godere
pienamente della propria vita senza altri vincoli che non siano gli accordi
che liberamente accettiamo, accordi precisi e determinati e non impegni per
la vita o che, comunque, eccedano quanto esplicitamente ci si è impegnati
fare o a non fare.
La militanza realmente esistente, d'altro canto, non risponde ai caratteri
dell'accordo reiterato ogni volta che si decide un'azione comune.
Per fare un esempio banale ma utile: perché un giornale esca tutte
le settimane non è pensabile che sia affidato alla buona volontà
dei redattori ed alla loro disponibilità ad occuparsene nei ritagli
di tempo e secondo il loro piacere immediato.
Piaccia o meno, la militanza, anche quella anarchica ed, anzi, in particolare
quella anarchica, richiede un impegno lontanissimo dall'idea corrente di spontaneità
per un motivo che non viene, a mio parere, valutato sempre a fondo.
L'adesione, per fare un paragone, ad un partito parlamentare non prevede affatto
un significativo impegno personale da parte dell'iscritto al partito stesso
visto che il finanziamento è garantito dallo stato e da contributi
privati legati ai favori che il partito può garantire ai finanziatori,
l'attività corrente è affidata a funzionari pagati a questo
scopo, c'è un evidente scambio fra assunzione di responsabilità
da una parte e carriera e potere dall'altra. Se anche un partito parlamentare
riesce a suscitare militanza dal basso ne fa, comunque, una risorsa magari
importante ma secondaria a fronte di quelle che gli sono garantite per via
istituzionale. Basta, a questo proposito, leggere il bilancio dei partiti
per rilevare quanto incassano dallo stato e quanto dal tesseramento o da altre
entrate derivanti da militanza e ricordare che il bilancio è inattendibile
perché nasconde finanziamenti illegittimi o, comunque, segreti.
Paradossalmente, insomma, un'organizzazione gerarchica chiede ai suoi subalterni
un impegno limitato e preciso anche se fa pesare su di loro meccanismi di
ricatto sia materiale (sanzioni) che morali. Questo carattere del potere è
tanto più vero quanto più è estesa la burocratizzazione
della società che produce individui abituati a delegare ad una struttura
compiti sempre più vasti.
Un'organizzazione che si pretende rivoluzionaria, in genere, e quella anarchica,
in particolare, vive invece solo dell'attività dei militanti e tende
a richiedere, implicitamente, un impegno notevole sia dal punto di vista della
quantità che da quello della flessibilità, della capacità
di adattamento, delle competenze necessarie.
Risulta difficile tenere assieme l'affermazione del diritto al piacere nella
sua immediatezza con l'efficacia dell'azione militante necessariamente strutturata
sulla base della definizione di obiettivi immediati, intermedi e a lunga scadenza.
Il principio del piacere e della piena libertà individuale, affermato
esplicitamente, rischia, ad essere buoni, di essere negato nei fatti con l'effetto
di determinare una sorta di scissione fra militanti che assumono l'impegno
politico come propria attività predominante e simpatizzanti che danno
un contributo sporadico e casuale al lavoro collettivo.
Questa considerazione vale, a maggior ragione, per compagni che, avendo rotto
con le organizzazioni autoritarie della sinistra statalista, sono particolarmente
sensibili alla timore di vivere dinamiche simili, soprattutto se si tratta
di militanti di base che in queste strutture hanno dato un serio impegno quotidiano,
a quelle che hanno criticato nel corso della loro evoluzione verso posizioni
libertarie.
Ma questa costruzione implica l'accettazione dei caratteri propri della militanza
come progettazione consapevole di un'azione collettiva volta ad un obiettivo
di profilo alto qual'è non solo la rivoluzione sociale ma, sin da oggi,
un'azione efficace volta a trasformare l'ordine del mondo.
Tornando alle contraddizioni sulle quali ponevo l'accento all'inizio di questo
capitolo, ritengo che la dimensione militante si fondi, più o meno
consapevolmente, sul rifiuto della "naturale" adesione all'ordine
dominante nel mondo e, nel contempo, come superamento delle forme naturali,
immediate, spontanee di tragressione rispetto all'istituito. Superamento che
non significa negazione ma capacità di assunzione della dimensione
trasgressiva della condizione proletaria in una prospettiva che non si risolve
nella trasgressione stessa.
Un rivoluzionario, paradossalmente, si caratterizza per l'identificazione
nelle virtù "borghesi" (collocazione delle proprie azioni
quotidiane in una dimensione progettuale, controllo dell'istintualità,
affidabilità ecc.) e, nel contempo, ne vede i limiti ed i pericoli
e l'essere il prodotto della necessità storica. L'assunzione delle
virtù borghesi risponde ad un carattere di fondo del nostro progetto:
la consapevole rivendicazione del carattere storico ed artificiale del comunismo
libertario .
Una società superiore, infatti, non è affatto il ritorno ad
un immaginario stato di natura ma l'affermarsi della capacità della
specie di governare la propria sorte e dell'individuo di emanciparsi all'interno
di questo processo collettivo. Nulla di meno spontaneo e naturale e nulla
di più affascinante.
Sul piano formale non si pone, ovviamente, alcun problema. La pratica di votare
e, soprattutto. di invitare a votare per qualcuno è ampiamente diffusa
e irridere al fatto che questa pratica non coinvolga solo intellettuali di
professione, cantanti e registi, sarebbe, nella sostanza, errato e nulla aggiungerebbe
alla nostra critica del parlamentarismo.
Può, però, valere la pena di sviluppare alcune riflessioni su
di una forma non del tutto nuova ma interessante di parlamentarismo.
Come è noto, il tradizionale partito parlamentare di massa ha sempre
cercato di presentare in lista, oltre ai classici personaggi di spicco, esponenti
di associazioni, sindacati, movimenti vari al fine, assolutamente ovvio, di
raccogliere voti in settori di elettorato diversi da quelli tradizionalmente
fedeli al partito. A questo fine, visto che non sempre queste persone aderivano
al partito stesso, era nata la figura dell'indipendente. L'universo degli
indipendenti non è, ovviamente, omogeneo e può essere diviso,
come si è già rilevato, in almeno due gruppi:
- l'uomo di successo (imprenditore, cantante, attore, professore universitario,
professionista ecc.) "prestato alla politica";
- il rappresentante di un gruppo di pressione che ha un rapporto di scambio
con il partito nella cui lista si presenta.
Parlando di "rapporto di scambio" non ci si riferisce necessariamente
a qualcosa di scandaloso, a clientele ed a pratiche di corruzione. Può
trattarsi semplicemente, di un accordo, più o meno formalizzato, fra
un soggetto sociale istituzionale ed un partito del tipo: io ti porto un pacchetto
di voti e tu mi garantisci la tutela di alcuni particolari interessi, meglio
ancora se questa tutela è affidata ad uomini direttamente espressi
dall'associazione. È un fatto che questo rapporto dimostra l'infondatezza
della classica opposizione fra "società civile" e "classe
politica" visto che la società civile, che è, per chi lo
avesse dimenticato, la borghesia o, comunque, la società civile capitalistica,
tutto è tranne che estranea alla gestione della macchina statale.
Con la crisi del partito di massa il ruolo della società civile e dei
gruppi di pressione che la costituiscono è cresciuto a scapito dell'apparato
del partito con l'effetto di trasformare i partiti stessi in collettori di
interessi particolari tenuti insieme dalla leadership carismatica dei dirigenti
e dal controllo dei flussi di spesa dello stato (essenzialmente da questo
controllo anche se non va sottovalutato il ruolo dell'immaginario collettivo
nella nobilitazione delle pratiche quotidiane del sistema dei partiti).
Se consideriamo, inoltre, che mentre i classici partiti di massa si sono,
diciamo così, asciugati dal punto di vista del radicamento e della
militanza mentre i sindacati di stato hanno mantenuto una struttura corposa
e capillare, si comprende che le relazioni fra partiti e sindacati sono significativamente
cambiati: la CGIL fa certamente, nella maggioranza, riferimento ai DS ma certo
l'apparato della CGlL ha un rapporto ben diverso con i DS stessi rispetto
a quello che aveva con il PCI mentre la CISL, più per sorte che per
scelta, si trova liberata dalla sua tradizionale sponda politica democristiana
al punto che Sergio D'Antoni sta cercando di crearla di nuovo con l'esperimento
di Democrazia Europea.
Questa deriva non ha risparmiato il PRC e si intreccia con il fatto che questo
partito, in presenza di un ridimensionarsi della componente cossuttiana, sembra
sempre più un circo equestre e sempre meno il classico apparato stalino
togliattiano dal quale ha preso le mosse. Le diverse componenti della sinistra
non istituzionale, semi istituzionale e decisamente istituzionale che fanno
riferimento al PRC convivono in una problematica convergenza e definiscono,
di volta in volta, una linea generale del partito che deve tenere assieme
esigenze contrastanti. Basta, a questo proposito, pensare alle ultime scelte
elettorali.
Sul piano sindacale, come è noto, il PRC punta essenzialmente su due
interlocutori diversi:
- la sinistra CGIL;
- il sindacalismo alternativo e, all'interno di quest'area, soprattutto sulla
Confederazione Cobas.
Naturalmente iscritti e militanti del PRC sono iscritti e attivi anche in
altri soggetti sindacali istituzionali o alternativi ma basta sfogliare "Liberazione"
per comprendere quali sono le scelte tattiche, non parlerei di strategia,
del PRC.
È mia opinione che, per fare un esempio abbastanza noto, la recente
iscrizione di Giorgio Cremaschi al PRC non vada interpretata come il passaggio
di un settore della sinistra CGIL a questo partito ma, al contrario, come
una scelta che garantisce la potente sinistra sindacale torinese rispetto
alle scelte del partito di riferimento. Basta, a questo proposito, considerare
il radicamento sociale della sinistra sindacale a fronte di quella del partito
di riferimento e, soprattutto, le risorse delle quali dispone in termini di
distacchi per rendersi conto dei diversi pesi specifici dei soggetti dei quali
ragioniamo.
Considerazioni analoghe si possono fare per l'area del sindacalismo alternativo
i cui gruppi dirigenti e, per la verità, il cui tessuto militante fa
riferimento in misura significativa alla sinistra parlamentare senza accettarne
necessariamente un ruolo di direzione ed, anzi, guardandola con un certo disincanto,
maggiore o minore a seconda delle organizzazioni e degli individui ma evidente.
Non vi è in questa sede lo spazio per trattare delle ragioni programmatiche
e strutturali di questo rapporto che pure meriterebbero un approfondimento.
In estrema sintesi, basta tenere presente che, sul piano politico culturale,
è forte, come lascito della vecchia sinistra statalista, l'idea che
si debba puntare su di un rilancio del welfare e di forme di democrazia sociale
e, su quello strutturale, che ogni organizzazione tende a produrre un apparato
che si pone, consapevolmente o meno, come primo obiettivo la propria sopravvivenza.
Gli appelli, dai quali abbiamo preso le mosse per questo articolo, appaiono,
a questo punto, come espressione, in piccolo, di un processo sociale generale:
il tentativo di darsi una sponda istituzionale diretta attraverso candidati
d'area.
Questa sponda, oggi, si trova soprattutto nella sinistra (sarebbe meglio dire
le sinistre) del PRC ma non sono mancate interlocuzioni con i Verdi. In futuro
la situazione potrebbe cambiare.
Le ricadute di questo parlamentarismo strumentale nell'area del sindacalismo
di base sono evidenti:
- se si punta ad avere dei rappresentanti eletti (bisogna tenere conto del
fatto che gli eletti possono esservi, realisticamente, solo nelle elezioni
locali) , i gruppi sindacali devono scegliere i candidati sui quali puntare
ed evitare che il voto d'area si disperda su troppi candidati mentre ai partiti
interessa avere il maggior numero possibile di candidati che portino voti
e non siano eletti;
- di conseguenza, vi è una lotta di potere nei sindacati per scegliere
i candidati o almeno per impedire una concorrenza eccessiva;
- queste operazioni si svolgono, necessariamente, al di fuori del controllo
della base che viene manipolata dai fautori del neoparlamentarismo;
- chi controlla i rapporti con gli eletti controlla risorse che gli danno
potere nell'organizzazione sindacale.
Sarebbe interessante rileggere alcune pagine che Armando Borghi ha dedicato
al semiparlamentarismo di settori del sindacalismo d''azione diretta dell'Italia
giolittiana per rendersi conto del fatto che non si tratta di problemi del
tutto nuovi anche se, questo viene da sé, prendono forme specifiche
e determinate.
Oggi, ritengo che l'essenziale sia sviluppare una critica puntuale del parlamentarismo
e, soprattutto, dei meccanismo sociali che ne costituiscono il fondamento:
la burocratizzazione del movimento operaio e lo sviluppo, in forme apparentemente
nuovo, di pratiche gerarchiche nella sua strutturazione, per un verso, la
deriva verso ipotesi neoriformiste, per l'altro.