Movimenti a Firenze.
Analisi
e riflessioni sul movimento contro la globalizzazione liberista a partire
dalle caratteristiche e dalle dinamiche che hanno caratterizzato il Forum
Sociale Europeo che si è tenuto a Firenze dal 6 al 10 novembre del
2002. Di Diego Giachetti. Febbraio 2003.
La preparazione del Forum Sociale Europeo (FSE) che si è tenuto a Firenze dal 6 al 10 novembre del 2002 è la risultante di un percorso condotto da quei movimenti sociali e da quelle associazioni della società civile che in questi anni si sono battuti e si battono contro la globalizzazione liberista, la guerra e il razzismo. Non essendo la somma di organizzazioni più o meno affini per identità ideologica, ma di movimenti operanti soprattutto nella società civile, esso ha dovuto costruire e sperimentare un metodo di lavoro partecipativo, basato su gruppi di lavoro aperti. Un’esperienza fondata su una struttura relazionale che tiene conto della pluralità degli attori sociali del processo, consentendo il collegamento orizzontale dei movimenti, delle organizzazioni, delle reti locali, nazionali e continentali. Si è trattato di un percorso preparatorio nel corso del quale, com’è possibile leggere nel sito del FSE, le decisioni sono state assunte sul piano europeo, con delle riunioni plenarie continentali tenutesi a Bruxelles il 9 e 10 marzo, a Vienna dal 10 al 12 maggio, a Salonicco dal 12 al 14 luglio e, poco prima di Firenze, a Barcellona, dal 5 al 6 ottobre. La scelta di tenere un Forum Sociale Europeo è stata fatta in occasione dell’incontro del Forum Sociale Mondiale di Porto Alegre del 2002 che ha individuato nella regionalizzazione del processo mondiale un modo per affrontare il nodo della costruzione di convergenze tra movimenti. Oltre a quello europeo, prima del prossimo forum mondiale si terranno, il Forum Asiatico, il Forum Panamazzonico, Panamericano, Mediterraneo e Africano.
Un’internazionale globale, diffusa, reticolare e di massa
Il processo preparatorio del FSE è partito dai movimenti esistenti nei paesi appartenenti all’Unione Europea. Si tratta di movimenti nati e cresciuti in anni nei quali in tutta Europa trionfavano i governi di centro-sinistra neoliberisti, eccitati dalla chimera della globalizzazione che avrebbe dovuto portare, così diceva la loro propaganda, pace, benessere per tutti e sviluppo economico continuo. Certo, nell’immediato, occorrevano correttivi economici e sacrifici, per essere poi pronti a beneficiare dei vantaggi che sicuramente sarebbero venuti. Chi resisteva o avanzava dubbi era travolto dall’allegra frenesia scatenata dal miraggio della new economy, dalle guerre etiche, dalle bombe intelligenti. Chi non cantava in compagnia era considerato un residuale, i movimenti di contestazione alla globalizzazione e alle ricette neoliberiste erano trattati alla stregua di soggetti conservatori, nostalgici, incapaci di comprendere l’aziedalizzazione della vita, la centralità dell’impresa come modello di stato e di politica sociale ed economica da perseguire.
Seattle arrivò di sorpresa, nemmeno chi si era opposto alla festa globale aveva previsto e capito l’evento, tanto è vero che poche decine di attivisti europei avevano varcato l’oceano per parteciparvi. Eppure in quella località, nel 1999, con le manifestazioni che facevano fallire il Millenium Round dell’Organizzazione Mondiale del Commercio, prendeva vita il movimento dei movimenti, denominato allora popolo di Seattle e poi no-global, per indicare quelli che, nella seconda metà degli anni ’90, avevano iniziato a contestare il neoliberismo e a denunciare l’asservimento di destre e sinistre ai dettami dell’economia e della finanza. Allargando il campo dell’azione politica, partendo dal mondo e non più dallo stato nazionale, si ritornava alla possibilità di rilanciare il conflitto sociale a casa propria. Si sviluppava la costruzione di reti sociali stabili che decostruiva e ricostruiva la partecipazione e la militanza ponendo nuove domande e nuove esigenze, nasceva un nuovo sentire di un soggetto che, prima ancora "che un’opposizione, un’alternativa, un movimento", era un "piccolo popolo" che si sviluppava "all’interno della società e che ogni tanto si ritrova in qualche luogo, per qualche giorno ansioso di ritrovarsi e riconoscersi".
Con gli incontri di Vienna e Salonicco si riusciva a realizzare un significativo allargamento a movimenti dell'Est europeo, che entravano così a far parte titolo del processo. All'incontro di Salonicco, infatti, partecipavano movimenti della Turchia e di Cipro, e si realizzava un primo confronto con movimenti del Medio Oriente, specie di Palestina e Israele, mentre contatti con il Nordafrica si erano dati sin da Vienna.
Secondo i dati riportati sul già citato sito del FSE, risultavano aderenti alla manifestazione di Firenze 426 organizzazioni, 470 traduttori, 850 volontari. 1183 giornalisti accreditati; circa 40 mila delegati provenienti da 105 paesi del mondo, soprattutto Europa, 150 spazi espositivi allestiti. Nei tre giorni di dibattito si sono date sei conferenze al giorno su liberismo, guerra, democrazia, democrazia partecipativa, non violenza, disobbedienza, conflitto sociale, rapporto tra economia pubblica e economia sociale, effetti della globalizzazione sull’Africa, l’America Latina, il Mediterraneo, ragioni di guerre e tensioni nel mondo, da Israele alla Palestina all’Iraq e, infine, sul ruolo delle religioni nell’epoca della globalizzazione. Si sono svolti circa 150 seminari di approfondimento, più tavole di discussione e di confronto con partiti, sindacati, istituzioni, workshop autogestiti dalle diverse organizzazioni e reti che hanno spaziato dall’antiproibizionismo all’omosessualità.
Mai riunione internazionale ha visto una simile partecipazione di delegati: quasi il doppio di quelli presenti a Porto Alegre, circa cento volte di più di un normale convegno internazionale o di un congresso solenne di un grosso partito o sindacato. Per l’incontro fiorentino si sono spostate masse cospicue di persone, che hanno realizzato una sorta d’internazionale europea di massa, differente da altre precedenti esperienze rappresentate dall’incontro d’elitè di delegati o di gruppi dirigenti di partiti e sindacati come avveniva nell’Ottocento e nel Novecento, quando organismi nazionali aderivano a strutture e manifestazioni internazionali.
Una generazione precedente a questa, quella del ’68, aveva già respirato il fascino di sentirsi giovani fra giovani, solidali e affratellati in tutto il mondo dalle immagini delle loro lotte, prodotte dalla televisione, infiammata dall’internazionalismo nella lotta contro le ingiustizie e la guerra. Principalmente, però, manteneva la ribellione dentro i confini nazionali, senza promuovere, se non occasionalmente, la costituzione di un movimento sovranazionale. Qui, invece, assistiamo al radicamento di un movimento antiliberista in uno spazio sociale e politico europeo.
Un movimento sovranazionale che non trova paragoni con altre esperienze novecentesche tipo seconda o terza internazionale, organismi strutturati verticalmente, che sommavano realtà nazionali più o meno radicate. Qui siamo di fronte ad un movimento sovranazionale che è includente e costitutivo e in questo assomiglia alla prima internazionale, quella costruita ai tempi di Marx, Bakunin, Garibaldi, Mazzini e tanti altri, perché essa riuniva e metteva a confronto "tante forme e culture diverse unite per dare luogo ad un progetto collettivo collocato nel campo della critica al capitalismo e della rivoluzione" e, contemporaneamente, creava un senso comune, un’appartenza fatta di simboli e di lotte concrete sovranazionale. Quell’internazionale, chiamata Associazione Internazionale dei Lavoratori, fondata a Londra nel 1864, radunava diverse posizioni politiche e teoriche allo scopo di metterle a confronto e di favorire la nascita e il radicamento di organizzazioni di lavoratori nei vari paesi d’Europa. Dopo l’uscita degli anarchici, nel 1872, la prima internazionale si sciolse nel 1876. Diverso invece il processo costitutivo che portò alla nascita della seconda internazionale nel 1891, che risultò dallo stimolo a coordinare la loro azione sul piano internazionale, proveniente da partiti socialdemocratici di ispirazione marxista già sviluppati e radicati nei rispettivi stati nazionali.
Il movimento sarebbe impensabile o non sarebbe tale senza il supporto strutturale fornito dalla comunicazione mediante internet, che ha facilitato lo scambio di informazioni e di discussioni fra appartenenti collocati in qualunque zona del mondo, che ha consentito di dare vita ad una controinformazione telematica che ricava i suoi dati utilizzando la rete stessa, che ha imposto modalità di relazione e di organizzazione orizzontali, antigerarchiche, a rete.
E’ un movimento che "naviga" nella rete, nel simbolico, nella rappresentazione, che è assorbito e compenetrato dalla multimedialità, perché sempre più rilevante è diventato il ruolo dei media sia ufficiali sia autogestiti, anzi questi ultimi sono in vorticosa crescita e rappresentano l’altra faccia dell’informazione dominante, quella di
Una sola potenza, un solo mercato
un solo giornale, una sola radio
e mille scheletri dentro l’armadio
(Jovanotti, Salvami, 2002)
La capacità di autorappresentazione del movimento ha origini lontane e poco conosciute. Nata nei rave e cresciuta nelle lotte distanti dalla politica istituzionale, quelle per la casa, contro il precariato, il transgenico, il carcere, è maturata a colpi di telecamerine che, grazie alla tecnologia, hanno prodotto riprese che a loro volta si sono poi trasfigurate in video. Fatti in casa, il più delle volte souvenir televisivi, ma che girano e costituiscono motivo d’incontro e di lotta. E’ enorme la quantità di video che produce il sommerso no-global: trentamila, pare, solo di argomento Genova.
Un bisogno di autorappresentarsi e di comunicare direttamente da parte del movimento che sorge dalla consapevolezza del ruolo strategico che svolge l’informazione, sia perché orienta l’opinione pubblica e sia perché "diviene fattore decisivo non solo della definizione delle regole del gioco, ma nell’accesso, consentito o negato, al gioco stesso", fino al punto di cadere nel paradosso per cui la narrazione dell’evento, eccedendo e sovrastandolo, pare oltrepassarlo.
Nella direzione dell’autorappresentazione a Firenze il movimento dei movimenti ha condotto un’interessante esperienza con la costruzione di una rete televisiva che ha operato per pochi giorni. Una Tv satellitare, chiamata Global, con il segnale preso in affitto a caro prezzo che ha rappresentato il primo tentativo di costruire un media del movimento o meglio di fare del movimento stesso un media in grado di comunicare con l’opinione pubblica in senso lato.
Firenze: il passato nel presente
Anche noi abbiamo le nostre Erinni precognitive che sentono arrivare il delitto prima ancora che esso sia stato pensato. Vedono ammassarsi il crimine lì dove crimine non c’è, e non lo vedono lì dove popoli interi lo stanno subendo (Barbara Spinelli, "La Stampa" del 10-11-2002)
Osservando il dispiegarsi delle giornate fiorentine e del corteo che sabato 9 novembre ha percorso le vie della città, possiamo "capire meglio anche Genova", ha scritto Filippo Ceccarelli su "La Stampa" del giorno seguente. Se una serie di se si fossero verificati Genova sarebbe stata come la Firenze di un anno e mezzo dopo: migliaia e migliaia di persone provenienti da vari paesi del mondo, soprattutto dall’Europa, messe a confronto l’un l’altra dalla globalizzazione che contestavano. Genova poteva darci l’immagine di Firenze: senza celerini e carabinieri che battevano i manganelli sugli scudi in segno di sfida, senza la città trasformata in bunker, presidiata, divisa in zone gialle, rosse, incolori. Senza reparti di carabinieri scagliati contro i dimostranti, senza black block scatenati contro vetrine o oggettistica varia, senza il morto tra i manifestanti, Carlo Giuliani, senza botte sevizie e "coretti stonati" nelle caserme, senza irruzioni notturne nei luoghi dove alloggiavano quelli del movimento. Così come i fatti di Genova furono preceduti da una campagna stampa del centro destra che preconizzava distruzioni, morti e violenze, similmente l’avvicinarsi delle giornate fiorentine erano annunciate come sventure. Valga per tutti l’esempio offerto dall’articolo della Fallaci, pubblicato sulla prima pagina del "Corriere della Sera" del 6 novembre 2002 nel quale i manifestanti erano paragonati ad un’orda barbarica che stava per calare su Firenze, ai tedeschi in ritirata che la occuparono nel 1944, pronti a distruggere tutto a cominciare dalle vetrine dei negozi; di qui l’invito perentorio rivolto ai cittadini: "chiudete i negozi, i ristoranti, i bar, i mercati, i teatri, i cinema, le farmacie […] abbassate le saracinesche […] non mandate i bambini a scuola. Non rivolgete la parola […] non guardateli nemmeno […] sentitevi come nel 1944 quando [c’erano] i tedeschi".
"La giornalista scrittrice/ che ama la guerra/ perché le ricorda/ quand’era giovane e bella", per dirla con Jovanotti di Salvami, con i suoi toni perentori, le sua affermazioni totalizzanti, semplicistiche e banali, esprimeva una percezione del movimento costituita da un insieme di figure simboliche stereotipate, presente e condivisa da una parte dell’opinione pubblica in cerca di verità semplici, rassicuranti, di concetti estratti da bignamini sempre validi in situazioni nelle quali, invece di provare a capire, è più facile nascondersi dietro presunte certezze. Al solito i movimenti sono composti da "falsi rivoluzionari, figli di papà che osano cianciare di povertà" e i pacifisti sono sempre e solo "presunti". La realtà si sfarfalla e si dissolve. Non interessa capire che i no global sono contrari ad un processo di globalizzazione come quello in corso perché ritengono sia dominato dai grandi interessi economici e non da quelli dei popoli, dalle leggi dell’economia e non da quelle della democrazia e della politica. Che l’attuale globalizzazione porta vantaggi solo all’Occidente in quanto un quinto dell’umanità vive con un dollaro al giorno, 840 milioni di persone sono malnutrite, 160 milioni di bambini soffrono la fame e 250 milioni di bambini (quattro volte più che negli anni Ottanta) lavorano. Ogni anno cinque milioni di persone muoiono di dissenteria provocata dalla mancanza d’acqua potabile. La disuguaglianza individuale (tra gli individui) e quella collettiva (tra i popoli) aumenta a dismisura. Quasi tutti i paesi europei hanno visto aumentare l’ineguaglianza dei salari negli anni Ottanta e Novanta, specie quelli anglosassoni. La distanza tra paesi più ricchi e più poveri del mondo che nel 1820 era di 3 a 1, oggi è di quasi 80 a 1.
C’è una sostanza di contenuti, di critiche, di proposte che volutamente questo tipo di pensiero medio finge di non vedere o non vede del tutto, in quanto per capirci qualcosa bisogna avere un minimo d’infarinatura sugli accordi Gats, come funziona la banca mondiale e il Wto; occorre conoscere le cifre che riguardano i bilanci degli stati, le spese militari, quelle sociali, avere un’idea su chi ha firmato e perché gli accordi economici tra Usa e America Latina (l’Alca e l’Agoa), cosa comportano questi accordi in termini d’impoverimento del Sud; bisogna avere un’infarinatura della storia delle religioni, dei regimi autoritari latino-americani, sulle lotte dei campesinos e sui bilanci partecipati.
Un rilancio di Genova in fondo sarebbe stato più facile da gestire e da descrivere per quelle penne. Tanti hanno preparato sui loro giornali, nei loro articoli, la speranza di una ripetizione di Genova, di quel clima che si respirava la mattina del 20 luglio del 2001, quando la città era "un immenso teatro, anzi tanti teatri". L’attesa era stata
ben costruita, paranoia su paranoia. Le forze dell’ordine [erano] impaurite. I manifestanti anche. Il governo in carica da poco più di un mese. Il Vice Presidente del consiglio Fini e tre deputati di AN [sceglievano] come postazione la sala operativa della Questura. Quelli del blocco nero suonano i tamburi […] il capo delle tute bianche ha messo in scena lo spettacolo della disubbidienza. […] Berlusconi è tutto preso dal ruolo di padrone di casa ha allestito finte facciate di palazzi, inaugurato fioriere, vietato i panni stesi. Ha costruito una vera città fasulla, oltre che proibita.
Purtroppo, come ha notato anche Barbara Spinelli su "La Stampa" del 10 novembre, il pensiero fallaciano non è un fatto isolato, ma "cammina allo stesso passo del gregge che comunemente viene chiamato spirito del tempo". E’ irrispettoso e aggressivo nei confronti del movimento quanto è
condiscendente verso le opinioni […] di chi oggi governa i paesi occidentali: ne sposa non solo le forze ma anche le fobie e le fragilità, aderisce alle loro chiusure, alla mediocrità dei loro irrigidimenti, alla loro ottusa arrendevolezza verso i prefabbricati convincimenti delle maggioranze silenziose
le quali spesso capitolano facilmente e sono vittime dell’avversario:
Vittima
del mio avversario
ponevo un limite
all’indecorosa disfatta
cercando alleanza.
Complice del mio avversario
beffardo e cinico, mi affannavo
a non tradire disagio e vergogna
timore o incertezza […]
il fine giustifica i mezzi
e richiede determinazione
(Carmen Consoli, L’alleanza, 2002)
La sua base psicanalitica è lo stereotipo, l’angoscia suscitata da chi avanza critiche alle opinioni comuni consolidate "è il suo movente", il movimento è trasformato in mero oggetto "di ordine pubblico, in patologia criminale". Si costituisce in questo modo una sorta di pensiero "estremista di centro", quello che abbiamo potuto leggere sui giornali della destra perbenista in quei giorni, caratterizzato dall’"adesione al luogo comune". Si determina, pertanto, un urgente, quanto discutibili, bisogno di conformarsi alla norma media, soprattutto di fronte al timore dell’eccezione:
La
discutibile urgenza
per cui è indispensabile
uniformarsi alla media.
[…] Ma l’eccezione alla regola
insidia la norma
(Carmen Consoli, L’eccezione, 2002)
"Una volta omologati gli oppositori —proseguiva Barbara Spinelli- non resta che il ricorso alla guerra e alla polizia". Difatti, mentre la Fallaci invitava a chiudere i negozi il presidente del Consiglio dichiarava che "le devastazioni certamente sarebbero venute da alcuni dei partecipanti al Social Forum".
Fine di un ciclo
Eppur si muove
malgrado l’inerzia imposta
il dilagante oscurantismo
la dispotica repressione
(Carmen Consoli, Eppur si muove, 2002)
C’è voluto il movimento dei movimenti e, in Italia, la sconfitta del centro sinistra che aveva governato il paese per cinque anni, perché ricominciasse a diventare senso sempre più comune che mercato, liberismo sfrenato, sistema capitalistico, globalizzazione, impresa, azienda non fossero tabù indiscutibili, acquisizioni ultime e definitive di una società finalmente normale e normata, senza più storia e prospettive nuove da raggiungere perché finalmente si era raggiunto il migliore dei mondi possibili. Che tristezza il decennio trascorso e quanti falsi miti ha prodotto. Intervistato da Aldo Cazzullo per "La Stampa" il 10 novembre 2002, l’ex presidente del consiglio, Romano Prodi, a suo tempo assertore del libero mercato e della "magia" dell’impresa, dichiara senza tante perifrasi: "è’ la fine del pensiero unico", quella sorta di vischiosità mediana secondo la quale, in nome del realismo, della maturità, del buon senso, delle disillusioni, occorreva accettare il presente così com’era, uniformasi all’ideologia dominante che tacciava di ideologismo ogni pretesa di pensiero e di proposta critica.
Per più di un decennio nell’Europa dell’impresa, del neoliberismo, della politica fatta di vuoto, resa tecnica di amministrazione contabile dell’azienda Stato nazionale o europea, chi cercava un "altro mondo" vagava in preda alla disperazione, alla solitudine, all’impossibilità di identificarsi in qualcosa di simile a quello che avrebbe voluto:
nella
testa mia c’è un treno lento
che viene avanti su un binario morto
mi va tutto storto […]
I giorni durano una settimana
le notti iniziano con la mattina.
Qualcuno chiama, chiede come sto
rispondo non lo so
(Syria, Se tu non sei con me, di Jovanotti, 2002)
Quel clima di euforia neoliberista e di entusiasmo borsistico è finito, proseguiva Prodi, assieme alla certezza "della crescita di lungo periodo. Della supposta superiorità, in ogni caso, totale e globale, dell’impresa e del mercato sulla politica, sui tentativi di interpretare in modo più critico il mondo. Ci si rende conto che questo non è "il migliore dei mondi possibili". E’ finita l’illusione che il sistema possa crescere all’infinito, la fase della fiducia cieca nell’espansione dell’economica, nell’ascesa della borsa". Sulle "sciocchezze" del tipo: "l’impresa ha sempre ragione", per dirla ancora col nostro, si sono basate le politiche governative dei paesi dell’Europa nell’ultimo decennio, governati principalmente da schieramenti di centro sinistra. Pure l’ex segretario della CGIL, Sergio Cofferati, intervistato da Aldo Cazzulo due giorni dopo, non aveva remore a rompere gli indugi e tatticismi —tipici del periodo della corrispondenza d’amorosi sensi dei tempi del centro sinistra- per affermare che la manifestazione di Firenze segna la "fine della fede in questo modello economico come modello di sviluppo". Chi qualche anno fa poneva in discussione quel modello era "sbeffeggiato", ignorato dai partiti, trattato con sufficienza.
L’oblio dei movimenti antisistemici, tipico degli anni appena trascorsi, ha ragioni strutturali e politiche. Il capitalismo ha una capacità pervasiva così radicata in grado di produrre una "seconda natura", che fa cadere "nell’oblio il suo carattere di costruzione sociale storicamente data", permettendo operazioni comunicative, propagandistiche e di immagine tese a rappresentarlo come l’unico universo possibile, facendo assumere alle critiche che le vengono rivolte il carattere di utopie, di favole fantastiche, di alternative impossibili. Il movimento spezza proprio questa pervasività insinuando il tarlo che un altro mondo è possibile.
Nell’assedio teso dalla persuasività capitalistica è caduta voluttuosamente la sinistra di governo in Italia e in Europa. Per anni questa sinistra ha sguazzato tra idee neoliberiste, ha fagocitato le capacità taumaturgiche del mercato, ha rincorso l’egemonia globale americana, ha affiancato e partecipato direttamente alle guerre "giuste" ed "etiche" della Nato, ha bombardato con intelligenza, ha contribuito ad una globalizzazione che ha prodotto un aumento delle disuguaglianze fra Nord e Sud del mondo, ha visto nei movimenti di contestazione solo degli elementi perturbatori del suo modo di governare e amministrare, li ha contrastati, dissuasi, tenuti sotto controllo, dov’era possibile, repressi in alcuni casi, trattandoli alla stregua di un problema di ordine pubblico, senza capacità e volontà di confrontarsi con i problemi sostanziali che essi sollevavano: la necessità di un riequilibrio fra Nord e Sud del mondo, una democrazia partecipativa, capace di dare nuova sostanza a quella dell’occidente ridotta a formalità e a partecipazione senza alcuna incisività sulla realtà, un consumo equo e solidale, una costante attenzione all’ambiente, un governo globale e non semplicemente un dominio americano.
Il movimento che è partito da Seattle nel 1999 ha lentamente corroso quest’impalcatura, si è impossessato della coscienza di molte persone e oggi è merito suo se milioni di individui nel mondo recepiscono con una sensibilità diversa notizie e informazioni che, precedentemente, non li "penetravano". Oggi, dire e scrivere che più di un miliardo e trecento milioni di persone non hanno acqua accesso all’acqua, che due miliardi e mezzo vivono con un dollaro al giorno, ha un significato e una risonanza diversi nell’opinione pubblica. Così come sostenere che la struttura di questo modo di produzione posa su fragili basi del mercato finanziario ha —dopo il caso Enrom negli Stati Uniti e il fallimento in atto del comparto auto della Fiat- una valenza e un significato di verità maggiori che nel passato, perché si sta sgretolando il castello ottimista della fiducia nel sistema costruito con le carte dell’ideologia dominante. Qualcosa è crollato, il dio capitale globale, che ha imperversato per vent’anni, oggi è in crisi:
le
immagini terribili di un’uccisa umanità
si accendono, sconvolgono negli occhi
fanno fuori dio
(Gianni Nannini, Un dio che cade, 2002)
Il sistema capitalistico sembra aver perso le sue capacità espansive a cominciare dalla sua legittimazione ideologica.
Se l’ideologia neoliberista non ha più tanti seguaci tra il popolo e nella stessa middle class è anche merito del movimento dei movimenti. In questi anni è passato il messaggio che il sistema proposto come migliore per tutti discrimina e colpisce la maggior parte della popolazione mondiale. Ma questa crisi di consenso è anche il frutto di un fattore interno. Il sistema non riesce più a convincere la gente della propria necessità. Un altro punto che mette in crisi il neoliberismo è la crisi della democrazia rappresentativa. La politica viene percepita come burocrazia, mentre trionfano gli istituti decisionali sovranazionali.
La crisi del sistema si manifesta come crisi di consenso, cioè come incapacità crescente degli istituti della politica di promuovere la legittimazione delle forme di governo, che appaiono sempre più organismi animati da un moto proprio e da logiche interne, distanti dal controllo e dalla partecipazione dei cittadini. Così, ad esempio, in questo ultimo decennio, l’Italia ha attraversato un ciclo di instabilità e di crisi, "che si potrebbe definire "antipolitico", caratterizzato da uno scontro di potere senza precedenti a livello della classe politica e della crescente sfiducia dei cittadini nei confronti della politica a livello dell’opinione pubblica". La perdita di fiducia nel sistema induce uno stato di crisi nei grandi uomini della politica e degli affari, al quale reagiscono producendo un aumento simbolico e fattuale della violenza, che si esprime nella risposta con la guerra ai problemi internazionali sollevati della cruda verità dei rapporti economici e politici, che sottostanno alle coperture ideologiche intese come cattivo occultamento del reale. Questo stato di cose determina una reazione di quella che chiamiamo, con termine oggi corrente, la moltitudine, sotto forma di un moto di rabbia e di indignazione etica:
mio
potente cuore ribellati
uomini, uomini, uomini, tutti a metà
[…] il diluvio sarà
sto male di luce
stanotte la voce cadrà
in un mare che tace
l’assenza d’amore celebrerò
(Gianna Nannini, Uomini a metà, 2002)
Una ribellione etica che è, in primo luogo, presa di distanza da ciò che ripugna, senza prospettive alternative, se non quella immediata di salvare subito il proprio "cuore", inteso come luogo dei sentimenti positivi e, innanzi tutto, della dignità personale:
Dimmi
come posso fare
per salvare il mio cuore.
[…] E non mi chiedere
di smettere di urlare
(Alexia, Dimmi come posso fare, 2002)
Soprattutto nella sua componente giovanile il movimento dei movimenti esprime una rivolta etica, precedente ad una ragione sociale, in quanto la condizione materiale di questi giovani è ancora indefinita e ruotante attorno a lavori instabili, brevi e precari. Il primo "urlo" etico di questi giovani si leva contro la guerra imperiale americana che diventa uno dei motori della propria "iniziazione" politica. Proprio perché muove da una spinta etica, la condanna della guerra è netta, senza forse e senza ma:
se
hai una guerra da fare
non farla nel mio nome
che non hai mai domandato la mia autorizzazione
(Daniele Silvestri, Il mio nemico, 2002)
Balla
fino a che pace non c’è
balla fino a che terra non è
prendimi così, stringimi a te
gira intorno a me, canta con me
(Valentina Giovagnini, Senza origine, 2002)
I buoni,
i cattivi dipinti e i vivi
non c’è ideale che valga una guerra
(Giorgia, Vivi davvero, 2002)
Hasta la vista
baby
hasta la vista e basta
pace sia con me
che voglio vivere
[…] dimmi da che parte stai
pace sia con me che voglio ridere
non ci resto qui a disperdermi
(Alexia, Hasta la vista beby, 2002)
Questo impulso morale ed etico alla rivolta ha caratterizzato e caratterizza il movimento contro la globalizzazione e nasce dallo sdegno, forte e passionale, contro le ingiustizie della globalizzazione liberista. Troppo evidente è il contrasto tra i popoli e i poteri degli istituti internazionali occulti che governano i processi economici e finanziari, nonché le politiche borsistiche che affamano il mondo. Sorge quasi spontaneo il rifiuto dello strapotere delle multinazionali, il desiderio di riappropriarsi della propria vita, il sogno contenuto in un altro mondo possibile:
Il mio nemico
non ha divisa
ama le armi ma non le usa
nella fondina tiene le carte visa
e quando uccide non chiede scusa
e se non hai passione
se nessun dubbio ti assale
perché la sola ragione che t’interessa avere
è una ragione sociale
(Daniele Silvestri, Il mio nemico, 2002)
Danza la coscienza
[…] delle verità svendute
dell’adunanza catodica.
Nebbia di mercanti
di nuovi traffici e farisei;
di gendarmi riverenti
[…] picchiano le armi
nella
domenica ipocrita delle morti intelligenti
nel sangue della legalità
[…] Batte il cuore
[…] di chi disubbidirà
(Subsonica, Sole silenzioso, 2002)
L’irriducibilità etica e morale al liberismo contiene un’avversione latente al capitalismo, potenzialmente disposta a tramutarsi in coscienza politica e sociale. Tuttavia tale processo oggi non è necessariamente lineare e inevitabile, anzi incontra delle difficoltà nuove, "fa fatica a tradursi in lotta politica", non riesce a trovare un paradigma nuovo di riferimento; avvertono che un altro mondo è possibile, "ma non è ancora declinato", nessuno però pensa "di poterlo riannodare ai fallimenti storici del socialismo realizzato".
Un rosso relativo
Tutto si muove, non riesco a star fermo […]
E’ alta tensione ma senza orientamento […]
Nuova ossessione che brucia ogni silenzio
nuova ossessione che corrodi ogni momento
nuova ossessione ormai ci sono dentro
(Subsonica, Nuova ossessione, 2002)
Il movimento dei movimenti ha riconfermato a Firenze la sua composizione intergenerazionale a differenza di altri movimenti precedenti, come quello del ’68 o del ’77 in Italia nei quali predominante era la composizione giovanile. Sono presenti in questo movimento tante e diverse generazioni per esperienza e storia: si va dai partigiani dell’ANPI ai giovanissimi di 15-16 anni richiamati a Firenze dal vortice della musica e della partecipazione intesa come stare assieme e socializzare, dell’appartenenza amicale di gruppo, dal voler sentirsi giovane tra i giovani e dall’indignazione etica e morale. In mezzo ci stanno i 45-cinquantenni sopravvissuti o scampati ai movimenti precedenti degli ultimi vent’anni. Mancano invece i trentenni, quelli cresciuti negli anni ottanta e novanta.
Ognuno porta con la sua generazione spezzoni di vita e di storie differenti, ma su tutti aleggia, coscienti o meno che siano, lo spirito della fine di un’epoca, quella novecentesca. In realtà quella fine è iniziata, mentre il calendario contava ancora anni del Novecento, col crollo del muro di Berlino (1989) e la fine dell’’URSS nel 1991. Sono passati quindi più di dieci anni dalla fine del bipolarismo, vale a dire di quell’assetto internazionale che aveva governato il mondo dopo la fine della Seconda Guerra mondiale. In questo decennio è cresciuta una generazione nuova che, semplicemente, come dimostrano le date, viene dopo le contraddizioni e il quadro ideologico del Novecento. Solo perché viene dopo, e non perché abbia già fatto o tentato un bilancio del secolo, la si può chiamare post-novecentesca. E’ maturata e cresciuta in un contesto nuovo, ha dovuto, quando ha voluto farlo, misurarsi con problemi e questioni differenti e nuove da quelle affrontate dalle generazioni che l’hanno preceduta; è, in questo senso, post-novecentesca e anche post-comunista. Non perché abbia fatto un bilancio critico, storico, filosofico di quell’ideologia e dei sistemi detti a socialismo reale, ma perché è venuta dopo, è diventata grande in un mondo caratterizzato da
il
nasdq che crolla
il petrolio che sale
la borsa che scende
la borsa che sale
La storia c’insegna
non c’è mai fine all’orrore
la vita c’insegna che vale solo l’amore
(Jovanotti, Salvami, 2002)
A Firenze non sono certo mancate le bandiere rosse, i canti della tradizione del movimento operaio, partigiano e quelli inneggianti al comunismo, come non sono mancate le presenze anarchiche, quelle provenienti dei gruppi della controcultura e dell’estrema sinistra europea degli anni settanta. Tanto il rosso, ma se la citazione di Tiziano Ferro non appare blasfema, si tratta di un "rosso relativo/ senza macchia d’amore"; un rosso che oggi viene dal passato e cerca, nelle sue componenti più aperte e disposte al confronto, di relativizzarsi con una realtà nuova, che prima non c’era. E spesso, a differenza di quelle degli anni Sessanta e Settanta, l’atteggiamento della nuova generazione verso il "rosso" è di cautela, non di rifiuto, ma neanche di adesione: per ora stanno a guardare, con l’atteggiamento di chi è venuto dopo e assiste allo scorrimento di un filmato storico. Il giudizio è sospeso, poiché essere giovani oggi significa anche sentirsi creature nude di fronte alle vetrine delle ideologie:
non
mi ci vedo più
in questo cinema-realtà
Nuda, soltanto nuda capirei
nuda, cos’ mi riconoscerei
Ma perché dovrei vestirmi di bugie
quante vetrine ma
nessuna mi rispecchia più
non so dire sì
a scarpe e ideologie
che non mi lasciano altre vie
(Valentina Giovagnini, Creatura nuda, 2002)
Senza la categoria del "rosso relativo" si rischia di leggere interpretare questo movimento con gli occhi e la testa del Novecento, mentre esso, come ha detto esplicitamente il segretario di Rifondazione Comunista:
è un originale fenomeno politico il cui tratto essenziale è l’essere —verso l’alto- la critica alla globalizzazione capitalistica e, d’altra parte, in basso, una cultura politica e dei comportamenti. Il novecento era dominato da un’idea di organizzazione centralizzata, detentrice di una scienza da portare, dall’esterno, al protagonista della rivoluzione, cioè il proletariato, per un processo rivoluzionario che passava per la conquista del potere. Ora siamo in un altro paradigma, perché qui la critica nasce all’interno del movimento. Il Novecento considera la presa del potere un fatto anticipatore del processo di trasformazione, qui il processo di critica precede la questione del potere e, quando ci si propone un processo di trascendimento dall’esistente —‘un altro mondo è possibile’- si pensa allo stesso modo di trasformare economia, società e stato, dunque il potere.
Inoltre, se la generazione degli anni Sessanta e Settanta era partita da una critica della politica per ridefinire un "nuovo modo di fare politica", radicale e rivoluzionario, ora ci troviamo di fronte ad una "classe" giovanile che viene dopo un ventennio di crescita del tasso di disgusto per la politica tra i giovani e il movimento rappresenta per alcuni di loro un’alternativa, una forma di partecipazione alla vita pubblica e sociale non disgustosa. Dopo i cinque anni di governo del centro sinistra, il numero dei giovani disgustati dalla politica è ancora cresciuto. Nel 1996, anno della vittoria elettorale dell’Ulivo, il quarto rapporto IARD sui giovani coglieva segni di rilegittimazione della politica che duravano però poco, facendo salire ben presto gli indicatori verso il picco più alto mai raggiunto, all’interno di una parabola di deflazione della politica tra i giovani iniziata nel 1983. Allora i disinteressati alla politica erano il 23%, nel 1987 il 27%, nel 1992 il 35,9, nel 1996 il 43,1%, nel 2000 il 44,6%. Nel 2001 alla domanda "Quando pensa alla politica cosa le viene in mente?" il 47% rispondeva: "disgusto, diffidenza, rabbia", il 25% "indifferenza, noia" e solo il 15% "interesse, impegno, passione", mentre il restante 13% rispondeva "non so".
Un altro dato che emerge da queste ricerche empiriche e sociologiche segnala l’obsolescenza tra i giovani di schieramenti bipolari costituiti dall’architettura elettorale e politica fondati su concetti quali centro destra e centro sinistra. Intanto solo il 49,9%, contro il 57% di quattro anni prima, esprime una preferenza elettorale, gli altri che non prendono parte al gioco bipolare, non sono certo uniti nelle motivazioni e nelle critiche e nemmeno caratterizzati da una moralità più alta rispetto a quella dei politicizzati, semplicemente avvertono che a quel livello di dialettica, la contrapposizione tra centro destra e centro sinistra sta loro stretta, risulta incapace di rappresentarli compiutamente. Tra quelli che esprimono preferenze elettorali si segnala un rafforzamento delle preferenze per i partiti del centro destra: Forza Italia e, soprattutto Alleanza Nazionale, indebolimento dei consensi alla Lega Nord, scarso consenso ai partiti di ispirazione cattolica, stazionario quello della sinistra, con una propensione, anche in questo schieramento per "l’estremo", cioè Rifondazione Comunista.
Il quadro politico e sociale in cui il movimento si sviluppa e opera è profondamente diverso da quello degli anni settanta. Segnaliamo, tra i tanti punti di differenza, l’assenza del peso del grande PCI di allora, attore capace di condizionare, controllare e anche di reprimere il movimento; il venir meno di un confronto generazionale aspro come quello che caratterizzò l’Italia degli anni Sessanta e Settanta: oggi i genitori sono diversi dai loro genitori, meno resistenti ai giovani, meno "adulti" perbenisti e conservatori, aperti alle possibilità e al dialogo, non a caso, infatti, si parla di movimento intergenerazionale, categoria non applicabile al ’68 o al ’77; la nuova generazione non ha di fronte il peso del confronto, come l’ebbe quella degli anni sessanta e settanta, con la generazione che aveva fatto e vinto la guerra partigiana; non ha vecchi e gloriosi compagni indicati e proposti come modelli, se mai ha dietro di sé una generazione che ha perso, che è stata sconfitta e battuta nei suoi propositi.
Mentre precedenti movimenti contestativi, di protesta, sociali e politici, radicati su rivolte generazionali, sviluppatisi nel secondo dopoguerra nell’Europa Occidentale e in alcuni paesi dell’Est, si pensi alla primavera di Praga del 1968, si muovevamo comunque nell’ambito di un riferimento al marxismo al socialismo e al comunismo, seppur nella sue varianti eretiche, contaminate di filosofie, sociologie e teorie psicoanalitiche che lo arricchivano o lo snaturavano, a secondo dei punti di vista, oggi i nuovi movimenti non guardano automaticamente in una simile direzione: le loro culture politiche e sociali di riferimento sono diverse e nessuna risulta prevalente.
Va detto che l’immaginario di questo movimento, inteso come sue matrici culturali di riferimento, sono in gran parte quelle maturate negli anni Settanta, anni nei quali la ripresa di un marxismo spesso eclettico, contaminato di "suggestioni" e apporti teorici più diversi -lontano ormai dall’ortodossia sia sovietica sia togliattiana alla Croce-De Sanctis-Gramsci- si affiancava al sorgere del neo femminismo e del pensiero della differenza, all’ambientalismo con la coscienza di limite e di compatibilità ecologica, unitamente all’emergere di una rivolta generazionale, oltre che di classe. Accanto al lavoro, la classe lavoratrice, la produzione, si cominciava a vedere la riproduzione, la famiglia e quindi i rapporti di genere, la condizione della donna e dell’uomo dentro e fuori la produzione mercantile. Emergevano altri luoghi di conflittualità che affiancavano e "spaccavano" la classe operaia. La condizione giovanile suscitava rivolte di stile e generava contraddizioni specifiche che dividevano i comportamenti e le coscienze della classe operaia. Maturava la coscienza di limite, di ecosistema e la critica conseguente alle ideologie produttivistiche capitalistiche e di certo marxismo, portate ad esaltare lo sviluppo dell’industria, delle fabbriche, della produzione illimitata, che non vedeva le incompatibilità fra quel modello di crescita e l’ambiente.
Diversamente dai movimenti novecenteschi che lo hanno preceduto, quello odierno esprime non una coscienza, ma tante coscienze già formate o in formazione: quella di classe, quella di genere, quella generazionale, quella ecologista. In comune, invece, con i movimenti degli anni Sessanta e Settanta, questo movimento ha la critica il deficit partecipativo e deliberativo insito nella democrazia parlamentare rappresentativa basata sugli istituti partitici. Si chiede se sia possibile superare la pratica della democrazia puramente rappresentativa fatta solo di votazioni a scadenza rituale, sempre meno partecipate, con l’introduzione di una democrazia più diretta e coinvolgente, cioè partecipativa, secondo l’esempio e la denominazione che viene da Porto Alegre. Proprio nel momento in cui la democrazia rappresentativa conosce la sua massima espansione storica (nel 2000, in una forma o in un’altra, è presente in bel 120 paesi su un totale di 192), essa evidenti deficit in quanto sempre meno persone vanno a votare ed è espressa sempre meno fiducia nelle assemblee parlamentari. Non dal vecchio continente, ma dal nuovo arrivano le innovazioni più interessanti. "A Porto Alegre la vecchia democrazia rappresentativa locale e la nuova partecipativa si coniugano. Il voto segreto rimane, ma viene affiancato da una piramide decisionale che vede l’attiva partecipazione della popolazione per stabilire le priorità economiche, sociali e culturali della città".
Una sfiducia nella partecipazione formale e votaiola che è anche il frutto di un nuovo contesto relazionale e umano tipico della società odierna, che è diversa da quella degli anni Settanta, è caratterizzata dalla solitudine e non dalla solidarietà. La globalizzazione ha portato, infatti, un senso di solitudine nuova e forte tra i cittadini, una solitudine generalizzata, che riguarda tutti i gruppi sociali collocati in una società che ha perso senso e prospettive, a causa della crisi delle ideologie che avevano guidato la vita di interi strati sociali. La difficoltà a progettare il proprio futuro pare essere una caratteristica sempre più diffusa tra vecchie e nuove generazioni, perché si trovano a vivere in una "società che ha perduto il senso del futuro, vedendo al contempo crescere l’incertezza; [quindi] si attrezza ad affrontare un presente instabile e senza fine".
Questo è il prezzo che questo mondo impone a noi
di vivere senza certezza alcuna
Piegati dalle regole del buon mercato
[…] stiamo isolati […]
mediocri e muti, senza memoria
(Giorgia, Vivi davvero, 2002)
L’individualismo esasperato è causa ed effetto della solitudine. Una solitudine globalizzata, come ha ricordato il sociologo polacco Zygmunt Baumann, in un libro edito da Feltrinelli nel 2000 e intitolato appunto La solitudine del cittadino globale. Una solitudine che è il frutto delle politiche neoliberiste dell’ultimo ventennio le quali hanno posto le condizioni per lo sgretolamento del tessuto sociale esaltando la libertà, liberista e liberale, dell’individuo a scapito della dimensione collettiva. Una libertà del mercato globale, basata sull’assenza di limiti che ha invaso la dimensione relazionale della vita umana uniformandola a modelli e consumi imposti dal "nuovo mercato" dei prodotti e delle idee e che ha, come conseguenza, l’aumento dell’impotenza collettiva e la paralisi della politica. Quest’ultima brilla sempre più per la sua "insignificanza locale" rispetto a decisioni e scelte dettate e prese da organismi sovranazionali, centralizzati e ramificati in campo internazionale.
E’ una solitudine sociale di ceti professionali e di lavoratori atomizzati e spappolati nella loro solidarietà dalla flessibilizzazione del mercato del lavoro, che separa e divide le persone in figure contrattuali "tipiche" e "atipiche", in contratti-relazioni "determinati", "indeterminati", a "termine", "rinnovabili", "precari", in nero, part-time, che distingue tra "esternalizzati", "appaltati", interinali. Anche le relazioni interpersonali e affettive registrano qualche difficoltà, ci complicano la vita, ci stressano, rovinano il nostro star bene con noi stessi. Gli uomini e le donne sono indotti a cercare un rapporto flessibile, utile, contrattualmente atipico, in linea coi tempi del mercato globale, che riempie la vita senza invaderla e senza cambiarla, che li aiuti nella continua ricerca di un senso del fare e del vivere.
Le forme associative appaiono vulnerabili e fragili, in nessun gruppo ci sentiamo "pienamente a casa", ogni volta che stiamo in un gruppo è "come passare una notte in un albergo", dice il già citato sociologo polacco; i luoghi relazionali delle donne e degli uomini globalizzati sono sempre più simili alle stanze di stupidi hotel, nei quali il "soggiorno è temporaneo". Reagire mettendosi in relazione con altri non è semplice, in primo luogo perché non si è più abituati, l’educazione alla solitudine, all’individualismo, all’atomizzazione sociale ci ha segnati facendo di ognuno di noi un impedimento al legame relazionale. "Le nostre sofferenze sono di natura tali da impedirci di eliminarle o mitigarle condividendo sentimenti di affetto anche molto profondi. Le sofferenze che ci tormentano quasi in continuazione non si sommano e perciò non uniscono le loro vittime. Le nostre sofferenze dividono e isolano: i nostri tormenti ci separano, lacerano il tessuto delicato delle solidarietà umane".
Senza più speranze collettive da condividere, conscio che la speranza era ciò che ci permetteva di pensare al futuro, inglobato in un sistema-mondo che lo sovrasta come entità metafisica e naturale, quindi senza alternativa, il tipo umano moderno o post-moderno si sente travolto da una sicurezza insicura, simile a quella "dei passeggeri di un aereo che si accorgono che la cabina di pilotaggio è vuota, e che la voce rassicurante del capitano era solo la ripetizione di un messaggio registrato molto tempo prima". La sicurezza nostra è momentanea, deriva più dal passato che dal presente, non certo dal futuro. La nostra sicurezza è continuamente insidiata dal venir meno delle sicurezze degli altri.
Il movimento ha rappresentato, in questo contesto di spappolamento relazionale, una controtendenza, una possibilità di ripresa della relazionalità, del lignaggio, della solidarietà, rappresenta una delle alternative alla solitudine del cittadino globale, alternativa che comincia dal rendersi conto che
siamo qui
siamo vivi
e tutto può succedere
(Vasco Rossi, Siamo soli, 2001)
Generazioni e "anime" nello specchio di Firenze
prova a convincermi
e poi dimostrami
se veramente mi saprai portare in estasi
mi sono accorto che sto bene
solo quando sto con te
(Daniele Silvestri, Sempre di domenica, 2002)
Nel corso delle giornate fiorentine organizzate dal Forum Sociale Europeo del 6,7,8,9,10 novembre 2002, molti hanno sottolineato la massiccia presenza dei giovani, gli under 30, alcuni dei quali così giovani da non potersi ricordare di Genova dell’anno precedente. Migliaia e migliaia di loro hanno contaminato il corteo penetrando, sciogliendosi e ricomponendosi nelle file delle altre generazioni e degli altri paesi. Si sono riconosciuti nella babele di lingue e di costumi, spinti a comunicare dalla voglia di esserci, di sentirsi parte della nuova generazione "no war", senza partito, senza organizzazione. Sono la prima generazione, dopo un ventennio, che torna a ribellarsi, che torna ad esprimere un punto di vista e uno stile di vita critici e di rottura con la normalità del sistema, che andava magnificando le sue sorti, la sua perfezione, invitando al quieto vivere, all’accettazione, all’integrazione nel pensiero ricorrente e comune:
Loro
mi dicevano
di stare zitto e buono
Loro mi dicevano
tranquillo e cambia tono
[…] di seguire lo schema
di non creare un problema che non vale la pena
di essere grato di essere nato
nel lato del mondo che in fondo
in fondo è perfetto, perfetto
Qualcosa è saltato nel meccanismo dell’educazione al conformismo e all’obbedienza e ha rotto l’abitudine all’accettazione del mondo così com’è:
[…]
Io non so bene quando è cominciato
a un tratto io non obbedivo più
[…] Non so cosa m’abbia rovinato
è che ho iniziato a dire troppi no
Cominciando, quasi per istinto più che per ragionamento, a disobbedire, si sono resi conto maggiormente di quello che la società neoliberista e capitalista esigeva da loro:
Loro
mi dicevano
di stare sui binari
Loro mi dicevano
stai coi piedi a terra
Loro mi dicevano
è giusta questa guerra
Si è verificato un moto di coscienza", simile a una forte "contrazione muscolare con cui essa reagisce all’ingiustizia e alla demenza globalizzate":
Mi
spiace per ora non credo
sia un mondo perfetto
(Articolo 31, Domani smetto, 2002)
La generazione che si affaccia sulla scena dell’azione e della passione per i problemi globali ha un linguaggio e un comportamento nuovi, non riproduce automaticamente forme ed espressioni di contestazioni e proteste costruite dalle generazioni precedenti. Rappresenta piuttosto un elemento che tende a rimescolare il vecchio col nuovo a vantaggio di quest’ultimo al fine di riformulare un linguaggio comune della trasformazione, in altre parole una nuova teoria critica della società-mondo. In questo processo di ricerca e di rifondazione non c’è una contrapposizione generazionale così netta come era quella degli anni Sessanta e Settanta, quando il conflitto con la società capitalistica assumeva anche i toni e la variante di conflitto generazionale. Se mai questa è una generazione che contamina ed è contaminata. Così non è strano vedere dietro gli striscioni operai e ragazzini con gli orecchini e tra le fila dei centri sociali signori con le chiome bianche. Giuliano di 25 anni, operaio skinhead del "Sharp" (Skinhead Against Racial Project —Skinhead contro il progetto razziale) che tiene su la compagnia con la compilation rock, che diffonde a pieno volume da un pulmino, sfila assieme al "comandante Gracco" di 83 anni, ex partigiano che nell’agosto del 1944 entrò tra i primi nella Firenze appena abbandonata dai tedeschi.
A Firenze, come era già accaduto a Genova e in altre occasioni, sono vissute assieme e si sono mescolate più generazioni, dagli under trentenni agli over cinquanta, mentre scarseggia la generazione dei trentenni, quella che ha voluto essere moderna per forza ed è rimasta vittima del modernismo degli anni Ottanta. Quegli anni furono un crocevia, uno snodo tra due generazioni, quella che era stata la protagonista del ’68 e dei movimenti degli anni Settanta, i nati tra il 1947 e il 1956, che avevano compiuto diciotto anni tra il 1965 e il 1974, e i giovanissimi, nati tra il 1967 e il 1976, bambini o adolescenti negli anni dei movimenti e del terrorismo, che si trovarono ad avere 18 anni nel periodo tra il 1985 e il 1994. Cresceva una generazione "vacua", quella che avrebbe prodotto i trentenni degli anni Novanta percentualmente protesi, nel comportamento elettorale, al voto per il centro destra. Una generazione che evitò il "massacro" delle repressione poliziesca e mass-mediologica subito dai giovani estremisti degli anni Settanta, ma non sfuggì alla rivincita della politica negli anni Ottanta. Una rivincita all’insegna del rampantismo craxiano, della politica come investimento, carriera, affare e accaparramento delle risorse, che preparava il suo fallimento nei confronti della società civile, dei giovani e della legge, fino a sfociare in tangentopoli.
A Firenze si è visto un mosaico di generazioni, di opposizioni, storiche e recenti, di associazioni vecchie, nuove, sindacati di base e non, partiti, centri sociali, ex tute bianche disobbedienti, e molti altri spesso e sempre di più senza "padri", appartenenze, se non quella di sentirsi del movimento. Un mondo di sigle, forze, gruppi diversissimi. Il veterano, lo scout, l’ultrà, la femminista, la donna, l’uomo, il militante, lo studente, il sindacalista, l’operaio, il precario, il disoccupato, il contrattista a termine, l’atipico, il parlamentare, il medico, il professionista, il partigiano, il sindaco con fascia tricolore. Rifondazione Comunista, Cub, Cobas, RdB, Verdi, Cigl, Fiom, Comunisti Italiani, Democratici di sinistra, giovani di sinistra e giovani comunisti, anarchici, Legambiente, Arci, Unione Inquilini, donne in nero e non, baschi, sardi, curdi, palestinesi, argentini, colombiani, brasiliani, anarcociclisti dadaisti di massa critica, Arcidiocesi di Milano, Fronte Internazionalista ciclonico, Fronte di liberazione nani da giardino, Emergency, Lilliput, i contadini di Bovè con i trattori, gli scout con i golfini blu e i fazzoletti al collo e gli ultrà del Venezia calcio, dell’Ancona curva sud, della Ternana, del Bologna, del Livorno, del Crotone, con le sciarpe come allo stadio; e poi decine e decine di gruppi stranieri, di pubblicazioni, di volantini, di striscioni.
Nessuno dieci anni fa avrebbe mai immaginato di vedere nello stesso corteo punkabestia e boy scout. C’era un lungo monologo itinerante di Pulcinella disoccupato e corsista Apc e qualche centinaio di metri più avanti alcuni comunisti del Pcml sotto ritratto oleografico di baffone e la scritta: "Con Stalin per sempre". Sembrava uno scherzo anche la convivenza ravvicinata di lesbiche e filoislamici. L’arci gay, con le sue bandierone arcobaleno, era stato piazzato tra greci e ciprioti. C’era con loro un bel drappello di trans , ipertruccate e avvolte in veli rosa e celeste. In un mare di rosso, i Cobas li guardavano un po’ così. Però, a loro volta, i Cobas erano osservati con qualche stupore dai gialloni di Legambiente. E poi clown, maschere, farina sul volto, mani bianche, donne in nero, attori e attrici addobbati con carta argentata, fil di ferro, foglie morte. Le carrozzine dei bimbi e le carrozzelle dei portatori di handicap.
Un effetto di babele linguistica aleggiava sul corteo: alfabeto greco, arabo, latino e tante altre parole sconosciute rimbalzavano da dietro gli striscioni e gli agglomerati di persone. Un’assenza di un centro di gravità, una grande manifestazione ma senza centro, inteso come soggetto sociale dominante e determinate, quello che dava tono e carattere specifico alle manifestazioni novecentesche, fossero essi i proletari del quarto stato, la classe operaia, gli studenti, i giovani.
Le coscienze del movimento dei movimentiLa voglia scalpitava, strillava
tuonava, cantava
la timidezza c’era ma svaniva
scappava di notte… si dileguava
giocava a rimpiattino nascondeva.
E mostrava, cercava
(Tiziano Ferro, Rosso relativo, 2002)
Nel fitto reticolo d’incontri, di conferenze, di seminari, di chiacchierate di gruppo, di conoscenze occasionali e nel variopinto, lungo, interminabile corteo del 9 novembre, si è espressa la consistenza polifonica del movimento dei movimenti, caratterizzata dalla predominanza a "contrapporre la gioia dell’essere alla miseria del potere". In una società occidentale dominata sempre più dal virtuale, delle comunicazioni per immagini e per fibre elettroniche, da un potere occulto, fuggevole, impersonale, transnazionale, innervato nelle memorie dei computer e disseminato in terminali, input, connessioni telematiche, da una politica che è spettacolo lontano e separato dal cittadino-individuo che vi assiste seduto su comode poltrone, tra pubblicità e spezzoni di film, Firenze ha voluto essere, tra le tante cose, un incontro tra persone reali, coi loro corpi, veri, consistenti, portati appresso e diventati anch’essi strumenti di comunicazione, socializzazione, creazione di lignaggi, affinità, coscienze.
Il Forum sociale è uno spettacolo del gigantesco e simultaneo scambio di pensieri e informazioni, di dibattiti oceanici, semioceanici, defilati, ridotti, intimi, faccia a faccia. Il Forum è la festa dell’ascolto e della discussione. Un gigantesco happening dello scambio di informazioni e di opinioni. Una rassicurante intercomunicazione di appartenenza, l’esserci di persona e lo specchiarsi nella moltitudine.
Più che ad un novello quarto stato che cammina alla conquista di diritti nel nuovo secolo, qui siamo di fronte "ad una grande arca di Noe". Un’immagine efficace, quella dell’arca di Noe, perché testimonia simbolicamente due grandi verità: quella di "specie" politiche e culturali, sopravvissute al diluvio neoliberista e unicopensierista dell’ultimo ventennio, e quella di nuove germinazioni avvenute per contaminazione nell’arca che ha prodotto "nuove specie" e nuove forme capaci di "ripopolare" il pianeta man mano che l’onda lunga dell’allagamento globale capitalista si ritira. Dai portelloni finalmente aperti della novella arca di Noe scende un popolo variopinto e stravagante:
Tabacco arrotolato e campanellini, barbe fluenti, contratti a termine, pane e olio, vincoli sociali fortissimi, nessuno che si dà più la mano, lenzuola, birra, mandala, sacchi di juta, una strana lingua italo-inglese con sconfinamenti nello spagnolo, videocassette le più incredibili e misteriose, etichette musicali a getto continuo, ex hippies, monache con lampi di bontà che offrono guaranà e ospitano buddisti, guerrieri in perenne fregola di scontro, intellettuali raffinatissimi e inconsapevoli di esserlo, professori frustrati, artisti e tecnici […] E’ gente che viaggia molto con mezzi di fortuna, e dovunque arriva trova amici, cibo e un posto letto. Ci si aiuta fra simili […]
Provengono da lavori e lavoretti di precariato intellettuale evoluto, ma già ammaccato dal fiasco della new economy. Oppure sbarcano il lunario in radio private o piccole società di software, insegnano e aggiustano i pc, campano di collaborazioni. Le loro figure sindacali di riferimento sono i campesino messicani, l’homeless di Toronto, il forzato del call center o il lavoratore della catena di fast food.
Il popolo dell’arca è il risultato della frammentazione che negli ultimi vent’anni ha macinato solidarietà, identità, regole stabilite, classi e ceti sociali, scomponendoli in varianti e sottogruppi sociali nuovi. Basta considerare le "novità" introdotte nel mondo del lavoro dove, soprattutto per la fascia riguardante le nuove generazioni di lavoratori, alla normalità del posto fisso e stabile e dell’aspettativa di un futuro progressivo si è sostituita una normalità fatta di lavori sempre più precari ed intermittenti e di un futuro dalle molteplici incertezze. Differenziazione e complessità non sono novità nel processo di espansione e sviluppo del capitalismo, già Max Weber aveva sottolineato questo aspetto tipico delle società moderne. In questo senso concetti come quello di moltitudine o di folla sono esemplificative rappresentazioni di processi realmente in corso o avvenuti, e svolgono la funzione di dare rilievo alla pluralità e alla eterogeneità dei soggetti sociali, che contrasta, a volte, con immagini monolitiche opposte tendenti ad ingessare forme il mito del proletariato, quale sorta di spirito hegeliano conficcato nella storia. Questa unità di classe, che storicamente, secondo le fasi di sviluppo delle moderne società capitalistiche, si è coagulata attorno a nuclei di classe lavoratrice ben identificabili: i minatori, i ferrovieri, i metalmeccanici, è messo però continuamente in discussione e trasformata dalla logica concorrenziale del mercato del lavoro e dallo sviluppo della divisione del lavoro che generano nuove differenziazioni e nuove complessità. In questo senso la moltitudine rappresenta concettualmente la mancanza di una omogenea collocazione lavorativa e l’essere un "insieme di individualità attraversate da irriducibili differenze". Ciò che sembra essere la novità, insita in questo processo è l’interiorizzazione di tale complessità da parte degli individui stessi: io sono di sesso maschile o femminile oppure transessuale, lavoratore sindacalizzato di fronte al mio padrone, comunista di fronte alla borghesia, ebreo di fronte a un antisemita, antisionista di fronte a un sionista, cittadino francese di origine occitana e così via. In breve, io da solo, sono una moltitudine. Tutte queste dettagliate determinazioni si combinano e variano al variare del conflitto e delle situazioni rischiando di sbriciolare l’individuo. I rapporti di classe e di sesso (o di genere) svolgono nelle nostre società un ruolo preponderante nella formazione degli individui, come dimostra il ruolo specifico dei sindacati e dei movimenti delle donne nella nebulosa dei movimenti sociali.
In questo senso "la crisi della rappresentatività politica si ricollega proprio al carattere moltitudinario mostrato dal lavoro vivo, all’impossibilità di individuare un suo segmento particolare che possa essere considerato l’avanguardia che neutralizza ogni differenza", infatti "mai prima d’ora un movimento è stato così trans —transgenerazionale, transnazionale, transculturale, transessuale". Così, come era già accaduto in altre occasioni, il movimento dei movimenti ha scelto di esibire le proprie diversità di stile, di vita, di raffigurazione del mondo, di farle esplodere:
ho
scelto di esibire
le mie diversità
[…] la mia verità
lucidata a nuovo
forse esploderà
(Gianna Nannini, Volo, 2002)
Ancora una volta il movimento dei movimenti si presenta come una galassia, intendendo con questa parola non il caos e il disordine, ma l’armonia e l’equilibro compositivo che governa un sistema dell’universo composto di tante stelle e pianeti. Il collante che ha permesso il formarsi della galassia è dato da una forte vocazione oppositiva contro il neoliberismo, contro il razzismo, contro la guerra, unitamente al desiderio e alla voglia di divertirsi, di ballare e di cantare, di stare assieme, trovarsi, conoscersi come reazione alla frantumazione delle relazioni sociali e alla conseguente solitudine indotti dalla globalizzazione della vita quotidiana. Le giornate fiorentine sono state anche caratterizzate da una partecipazione dei corpi, da un essere contro guerre e politiche neoliberiste non solo con le parole, ma con la presenza fisica.
La partecipazione, la democrazia tornano alla loro dimensione concreta, primordiale, che si esprime in un grande brulicare di persone, un formicaio di corpi che riporta la politica alla "sua dimensione essenziale, antropologica, una pratica fatta di incontri fisici, di gestualità non liturgiche". Nei giorni del social forum la politica è apparsa con una natura e una predisposizione diversa da quella abituale. E’ stata partecipazione alla vita pubblica, interesse al bene e al destino comune, convivenza basata sul riconoscimento degli altri, pluralismo, comunità riscoprendo il suo valore originario, cioè la cura della "polis" e quindi dell’interesse e del bene collettivo. La cura della polis comporta parallelamente la riproposizione dell’agorà, della piazza che ridiviene luogo pubblico, spazio della critica e della rivolta, luogo di una presenza diretta non delegata di persone che prendono in mano la facoltà politica fuori e contro i tragicomici teatrini della democrazia parlamentare. E’ la piazza fisica nella quale si esprime la ribellione e lo scontro contro i poteri costituiti ed è la piazza virtuale nella quale si colloquia col mondo intero.
A Firenze si è manifestata un esuberante miscuglio di linguaggi, espressioni visive e corporee, una commistione tra contenuti e forme prodotte da una nuova vitalità generazionale che desidera e vuole cercare nuove idealità, utopie, progetti politici di trasformazione del mondo. Il movimento rappresenta per molti il luogo dove cercare risposte che ancora non sono maturate del tutto dentro le coscienze dei partecipanti. Dice Dora, diciottenne di Trento "sento che questo movimento parla anche a me"; Anada, ventiquattrenne di Perugia, rivendica il diritto alla ricerca di senso e ammette le difficoltà: "tante volte mi chiedo a chi serve. E poi mi dico: a noi stessi. A metterci in contatto con la nostra dimensione intima. Siamo felici? Non so. Ma chi si chiude in casa, chi ha paura di vedere è felice? E’ vero che siamo confusi, ma non siamo omologati e non abbiamo la pretesa di avere le idee chiare"; Anna, sua coetanea londinese, ammette candidamente: "Vogliamo cambiare questo mondo ingiusto ma non sappiamo come si fa".
Un fluire continuo di uomini, donne, ragazzi e ragazze, una marea pacifica che dilaga e occupa i luoghi neutralizzandoli, invadendoli, conquistandoli senza colpo ferire che restituisce le immagini delle grandi manifestazioni che precedono, accompagnano, fino a diventare protagoniste, i processi rivoluzionari di massa. Una suggestione che ha fatto scrivere ad un giornalista: "se un giorno la "rivoluzione" avrà luogo essa ci restituirà immagini molto simili a quel che ieri è andato in scena a Firenze".
Nelle strade sfila "il mondo con i suoi pericoli", rappresentato geograficamente da una moltitudine di delegati e gruppi provenienti da luoghi più o meno lontani. Un mondo che si esprime, in una moltitudine di colonne sonore:
sono
libera
non ho confini intorno a me
sono un pensiero sono musica
(Valentina Giovagnini, Libera, 2002)
Così che "la colonna sonora del corteo assomiglia ai suoni emessi da una radio quando si gira velocemente la manopola della sintonia". Come aveva già osservato Gianni Lucini a proposito di Genova il movimento globale costruisce una musica globale che abolisce il concetto di "straniero". In parte un processo simile era già in corso dagli anni cinquanta e sessanta con il dilagare della musica rock e di quella dei Beatles. Anche i giovani di allora avevano trovato una koinè musicale comune, ma ancora il loro linguaggio "era definito, strutturato, riducibile a schema, indiscutibilmente occidentale e condizionato dalla barriera di una lingua dominante, l’inglese"; e quando quella cultura musicale si era aperta alle altre musiche del mondo "l’aveva fatto senza mettere in discussione il punto di partenza: era l’Occidente che si apriva all’oriente, il Nord al Sud, mai viceversa. L’Occidente era il centro, il resto variegata periferia". Oggi invece si assiste alla nascita di una musica che "sente le tradizioni dei vari popoli del mondo non come una curiosità da scoprire, ma come parte del proprio patrimonio culturale. Sono cittadini del mondo che si nutrono delle mille culture del pianeta", in questo modo salta "anche la schiavitù della lingua" .
A differenza dei girotondini, i no global non sono ipnotizzati dal cavaliere, non sono presi da una fobia personale antiberlusconiana. E’ un movimento di più ampio e lungo respiro, non è nato dopo la vittoria del centro destra del 13 maggio 2001, esisteva già prima, si batteva già contro politiche neoliberiste del governo, compreso quello di centro sinistra; l’obiettivo suo non è sostituire Berlusconi con Rutelli o D’Alema o col "buon" Prodi, ma ridefinire i contenuti globali delle politiche governative a livello internazionale. Poiché affronta questioni globali, assume connotazioni globali, diventa l’espressione di una società civile globale senza frontiere, indipendente dall’operato degli stati e dalle contingenze politiche nazionali, quindi, rispetto a movimenti precedenti o a carattere locale, il suo livello di autonomia dai governi è maggiore, come maggiore è la sua capacità di sottrarsi all’integrazione subalterna nelle dinamiche della politica e dei partiti.
La contingenza politica nazionale occupa uno spazio particolare e ridefinito nell’ambito di una visione globale dei problemi. Non si tratta di sostituire classi dirigenti e ceti politici con altri, più "bravi e onesti", ma di contrastare e costruire un’alternativa al neoliberismo, al capitalismo finanziario, alla guerra imperiale e alle banche che la finanziano, alle multinazionali che producono marchi e merci sfruttando l’ambiente e il lavoro senza diritti, soprattutto nel terzo mondo.