L'imperialismo americano dopo l'11 settembre.
Gli attentati dell'11 settembre hanno fornito all'amministrazione Bush le giustificazioni che avrebbe comunque trovato per dispiegare il suo apparato militare globalmente. Questa politica non può essere dissociata dai rapporti di saccheggio forsennato che gli Stati Uniti e il capitale finanziario mondiale che vi trovano il loro principale sostegno, intrattengono con la maggior parte dei paesi e delle regioni del mondo. Di Claude Serfati, autore del libro "La mondialisation armée: le déséquillibre de la terreur" (Editions Textuel, 2001). Dalla rivista svizzera À L'Encontre. Traduzione di Roberto Spanu. Dicembre 2002.


Qualche mese dopo gli attentati che hanno colpito il World Trade Center e il Pentagono, si può analizzare la strategia messa in campo dall'amministrazione Bush. I commentatori europei sostenitori dei successi del modello americano, ma nondimeno presi da scrupoli di fronte al comportamento brutale degli Stati Uniti nei loro riguardi, avevano commentato il cambiamento di atteggiamento che l'Amministrazione stava assumendo: la costituzione di una coalizione contro il terrorismo metterà fine all'isolazionismo americano. Ricordiamo semplicemente che questo preteso isolazionismo si era tradotto nel corso degli anni novanta (dunque ampiamente durante l'amministrazione Clinton) in operazioni di dispiegamento di forze armate americane nel mondo, il cui numero è stato superiore a quello di tutto il periodo 1945-1990.

A partire dall'11 settembre 2001, il comportamento dell'amministrazione Bush delinea una strategia imperialista sia nella dimensione militare sia economica. Certo, le forme di dominazione politica sono cambiate rispetto ai tempi della colonizzazione, tanto quanto sono cambiate certe forme di egemonia economica della dominazione capitalistica rispetto a quella analizzata dai marxisti all'inizio del XX secolo. Il formidabile aumento del budget militare, gli obiettivi fissati dagli Stati Uniti puntano chiaramente a fare della guerra - fosse anche definita di intervento umanitario - la continuazione della politica attraverso altri mezzi, per invertire il celebre aforisma di Clausewitz. Ciò che si chiama unilateralismo degli Stati Uniti, il diritto auto accordato di intervenire in ogni parte del mondo in cui si pensa che i loro interessi nazionali siano in gioco è stato definito atteggiamento imperialista in altri tempi. Quanto agli obiettivi economici dello Stato americano, essi coincidono in numerosi punti alle caratteristiche dell'imperialismo analizzato da Hilferding, Bucharin, Lenin o Rosa Luxemburg. Si deve d'altronde osservare che se il termine "imperialismo" è abbandonato per dare spazio a quello di "impero" da alcuni autori di formazione marxista, a partire dall'11 settembre ha fatto la sua comparsa per almeno due volte nella stampa britannica degli ambienti finanziari. Il Financial Times ha così esplicitato la necessità di un ritorno ad un "imperialismo illuminato" per mettere fine al disordine mondiale.

Un budget militare per imporre un dominio totale.

A partire dall'11 settembre 2001, l'amministrazione Bush e il Congresso sono impegnati in un formidabile aumento del budget militare. Nel 2001, il budget militare raggiungeva 307 miliardi di dollari. Il budget 2002 aumenta a 339 miliardi di dollari, e il presidente Bush ha proposto nel suo messaggio sullo Stato dell'Unione (Febbraio 2002) che il budget 2003 raggiunga 379 miliardi di dollari. Ovvero in condizioni di dollaro costante, lo stesso livello che nel momento culminante della guerra in Vietnam nel 1967. Ha parimenti proposto un raddoppio della spesa destinata alla "sicurezza nazionale" (Homeland Security) che raggiungerà 37,7 miliardi di dollari nel 2003. Sia un aumento del budget militare del 26% tra il 2011 e il 2003, sia l'obiettivo di raggiungere un livello di 451 miliardi di dollari nel 2007. Tra il 2002 e il 2007, è la somma gigantesca di 2144 miliardi di dollari che dovrebbe essere spesa a fini militari.

L'aumento deciso dall'Amministrazione Bush dopo l'11 settembre era nei fatti già programmato. Durante la campagna elettorale per le presidenziali del 2000, gli esperti del sistema militare-economico stimavano che si sarebbe speso negli anni successivi da 50 a 100 miliardi di dollari in più. L'hanno pertanto avuta vinta. Infine, bisogna ricordare che il nuovo ciclo di aumenti del budget militare degli Stati Uniti è cominciato nel 1999 sotto l'amministrazione Clinton. Qualche mese prima dell'inizio dei bombardamenti della NATO contro la Serbia, un aumento di 110 miliardi di dollari (1998) per le spese per equipaggiamento tra il 1999 e il 2003 è stato annunciato dall'amministrazione democratica. Non occorre certo ignorare le differenze d'atteggiamento tra i due grandi partiti americani, ma neanche credere più all'esistenza di differenze significative tra i loro programmi politici.

La supremazia americana può essere esemplificata attraverso i seguenti dati. Nel 1999 gli Stati Uniti sostengono il 37% delle spese militari mondiali, e il 64% con i suoi alleati della NATO [1]. Il loro budget militare è sei volte più elevato di quello della Russia, che era nel 2000 il secondo paese al mondo per livello di spese militari. La supremazia degli Stati Uniti è addirittura maggiore nella produzione di armi e nella ricerca e sviluppo: cinque paesi sviluppano l'essenziale della ricerca-sviluppo ed un paese (gli Stati Uniti) sostengono da soli più dei due terzi della spesa mondiale di questo tipo. Le spese per ricerca e sviluppo servono a mettere a punto e a migliorare le tecnologie militari. Aldilà dei dati statistici, ciò che colpisce è lo sforzo considerevole che gli Stati Uniti hanno consacrato nel corso di un ventennio per la messa a punto di nuovi sistemi di armi. Senza abbandonare la loro superiorità nel campo delle armi nucleari - di cui è stato da poco ricordato in un recente rapporto che essi si riservano il diritto di utilizzare anche in violazione dei trattati di diritto internazionale - i responsabili del Pentagono hanno messo in campo una gamma considerevole di programmi che puntano ad ottenere il massimo dei benefici dalle tecnologie spaziali, dalla microelettronica, dalle tecnologie dell'informazione, e con una insistenza affermatasi a partire dall'11 settembre, dalle potenzialità offerte dalle biotecnologie. E' in questo contesto che occorre collocare le guerre condotte dalle forze armate americane. La guerra in Afghanistan così, come le guerre più importanti degli anni novanta condotte dalle forze armate americane (Iraq, Serbia, Afghanistan), sono servite a testare e migliorare i sistemi di armi che sono stati sviluppati negli uffici di progettazione delle ditte fornitrici della Difesa. Così, le guerre degli anni novanta sono state formidabili campi d'innovazione tecnologica per le industrie e i laboratori di ricerca americani, e di innovazione operativa per lo Stato Maggiore. Non si deve sottovalutare questo ruolo delle guerre, così che gli effetti di apprendimento sono importanti per mettere a punto le nuove tecnologie necessarie per preparare le prossime guerre.

Pur tuttavia queste guerre hanno ugualmente un altro obiettivo, quello di soddisfare i bisogni di un sistema militare-industriale che si è profondamente ristrutturato nel corso degli anni novanta (più precisamente tra il 1993 e il 1997). Due processi assolutamente complementari hanno avuto luogo. Da un lato, il grado di concentrazione industriale ha raggiunto un livello ineguagliato con la formazione di cinque grandi gruppi che ricevono più del 40% degli ordinativi di equipaggiamento e di ricerca e sviluppo da parte del Pentagono. Dall'altro, come nelle altre industrie, i fondi di investimento finanziari hanno acquisito un'influenza determinante nel controllo dei gruppi degli armamenti. Le esigenze di questi fondi di vedere più "valore creato per l'azionariato" sono stati estesi. L'aumento del budget a partire dal 1999, a partire dalla sua accelerazione decisa da G.W. Bush, risponde a queste esigenze. Bisogna considerare in primo luogo questa affermazione (che mal cela l'entusiasmo) fatta dal Financial Times: "Potrebbe sembrare un po' macabro cercare i beneficiari del conflitto in Kosovo, ma le Borse non sono sentimentali" [Financial Times, 12 aprile 1999]. La convergenza dell'azione esercitata da una parte dai fondi di investimento finanziario, forme dominanti del capitale finanziario contemporaneo, e dall'altra dal sistema militare-industriale che negli ultimi cinquant'anni si è profondamente radicata nell'economia, nella società e nell'apparato politico americano, chiarisce dunque allo stesso modo la nuova corsa alla militarizzazione. Il contesto del 2002 è di fatto differente da quello dei decenni del dopoguerra. Sembra quindi alla maggior parte degli analisti, ivi compresi quelli che si richiamano al marxismo che, nella cornice di politiche macroeconomiche cosiddette keynesiane, la funzione del budget militare era allo stesso modo di sostenere l'economia americana e di fornire uno stimolo all'avvicinarsi della recessione. Queste analisi arrivano a cancellare, o in ogni caso seriamente a sottostimare, gli effetti parassitari sempre più evidenti nel corso degli anni sessanta e settanta. L'aumento del budget militare americano che sta per essere varato non ha questa pretesa "keynesiana". I suoi effetti benefici saranno essenzialmente concentrati sui gruppi fornitori del Dipartimento della Difesa e sui fondi di investimento finanziario di cui sono i principali azionisti.

Venire in aiuto di Wall Street

Poiché l'offensiva militarista di Bush arriva nel momento in cui le tensioni in seno al sistema finanziario americano sono forti, dopo lo sgonfiamento della bolla speculativa legata alla nuova economia (basata sul NASDAQ) ed un forte calo a Wall Street nel 2001, in questo contesto è arrivato il fallimento della Enron. I processi che hanno permesso alla Enron, settimo gruppo americano secondo la classifica della rivista Fortune, di prosperare comincia ad essere conosciuta [2]. E' direttamente coinvolto l'insieme delle istituzioni del capitale finanziario, le banche, le loro agenzie, gli analisti finanziari, e per la loro cautela ideologica, gli economisti rinomati [3]. Ma tutto sommato, le istituzioni dello stato e il congressso (che per non prendere che un esempio votava nel 1995 una legge che rendeva estremamente difficile le azioni penali contro i consulenti e i giuristi finanziari) sono direttamente coinvolti. L'affare Enron rivela a quale punto i meccanismi di creazione di quello che Marx chiama il "capitale fittizio" sono non soltanto degli elementi essenziali di funzionamento della Borsa e dei mercati finanziari ma ugualmente di quella dell'economia reale. Sono i meccanismi della produzione (per esempio in Brasile e in India, dove la Enron ha ottenuto attraverso la corruzione la concessione di servizi pubblici di fornitura di elettricità, che ha devastato saccheggiato) e la remunerazione della forza lavoro (fallimento del sistema pensionistico) che sono direttamente coinvolti.

Non è naturalmente intenzione dell'amministrazione Bush "ripulire" il sistema finanziario, poiché questo comporterebbe una svalutazione massiccia del capitale fittizio, e scatenerebbe immediatamente il crollo di grosse fette del mercato finanziario. Numerosi gruppi industriali si sono costituiti negli anni novanta per mezzo di fusioni-acquisizioni e sarebbero ugualmente trascinate nella tempesta. Le fusioni-acquisizioni, strettamente legate alla "bolla finanziaria" che ha conosciuto Wall Street durante gli anni novanta sono stati effettivamente fondate su delle valutazioni discutibili, basate su delle pratiche contabili - apparentemente legali - che permettono di fabbricare in grande scala il capitale fittizio gonfiando il bilancio delle imprese e dei gruppi [4]. Questi grandi gruppi sono stati, perlomeno alcuni di loro, più che il simbolo, la realtà della nuova economia. Deprezzare massicciamente i loro profitti per larga parte fittizi, scuoterebbe alcune fondamenta della nuova economia e la possibilità per certi gruppi finanziari di continuare ad esercitare le loro rapine basate sulla rendita su scala mondiale.

Le dichiarazioni di guerra, rafforzate dall'aumento delle spese militari hanno per obiettivo quello di tranquillizzare Wall Street. Cercano di ristabilire la fiducia dei fondi di investimento finanziario, dei componenti delle classi alte e medie nella capacità infinita dei mercati a partire e ripartire verso l'alto. Poiché si tocca una delle caratteristiche di funzionamento del capitalismo, dominato a partire dagli anni novanta dal capitale finanziario. I mercati finanziari (mercati di borsa, monetari, dei cambi, di materie prime, etc.) hanno notevolmente aumentato la loro influenza anche in relazione all'inizio del ventesimo secolo, primo periodo del dominio diretto del capitale finanziario. Una delle conseguenze è il ruolo svolto dalle variazioni dell'andamento degli utili finanziari (azioni, obbligazioni, ma anche tassi di cambio delle monete). I proprietari del capitale finanziario non sono motivati dalle prospettive di lungo termine dell'attività dell'impresa (la durata di possesso delle azioni è inferiore ad un anno nelle grandi borse mondiali) ma dalle prospettive di plus-valore borsistico e dell'incasso dei dividendi trimestrali. Questi rendite finanziarie provengono tutto sommato da prelevamenti sul valore creato dalla forza lavoro (nell'impresa) o principalmente sui salari (imposte prelevate per pagare il debito pubblico), tant'è vero che ben conosciamo gli effetti sulla borsa di un semplice annuncio di realizzazione di un piano di licenziamenti. E' sulla forza lavoro, salariati e quelli che, nel sud del mondo, lavorano sempre più massicciamente nelle condizioni "informali" (cioè senza alcun diritto), che pesa in fin dei conti l'avanzata della "Enroneconomia" la cui sede politica è nel Texas (Houston), Stato di cui era governatore G.W. Bush.

Assicurare il dominio delle rendite da capitale su scala planetaria.

La decisione dell'amministrazione Bush di condurre una guerra contro l'"asse del male" significa che gli Stati Uniti si arrogano oramai il diritto di intervento in tutte le parti del pianeta in cui essi pensano che siano minacciati i loro interessi. La lotta contro il terrorismo servirà da pretesto. L'obiettivo è di fatto politico nel senso più originale, ovvero consiste nell'usare la forza e nel distruggere attraverso la guerra gli avversari potenziali o reali. Il sistema di difesa antimissile e le misure rilevanti assunte a partire dall'11 settembre non sono rivolti contro la Corea del Nord ed altri "Stati canaglia", secondo la terminologia americana, ma contro la Cina, di cui gli Stati Uniti non sono pronti ad accettare il suo emergere come potenza capitalistica, non solo regionale, nei prossimi decenni. Ugualmente, l'accerchiamento della Russia ad Ovest attraverso l'allargamento della Nato all'Ungheria, alla Polonia, alla Repubblica Ceca, si persegue attraverso l'adesione di nuovi paesi (Repubbliche Baltiche, Ucraina). A partire dall'11 settembre, si spinge a est e a sud, nel Caucaso, essendo l'ultima (solo in ordine di tempo) peripezia la presenza di militari americani in Georgia. Rispetto ai paesi alleati degli Stati Uniti nella NATO (paesi europei) o legati da altri trattati (Giappone), le decisioni assunte a partire dall'11 settembre sfociano in un aumento considerevole del disequilibrio dei rapporti di forza. E' il senso delle inquietudini, totalmente sterili, espresse dal Ministro degli Affari Esteri, M. Vedrine. Con gli alleati, l'Amministrazione Bush punta ad un effetto dimostrativo. Si tratta per esempio di ricordare ai governi europei il peso politico reale (cioè insignificante) che rivestono negli affari mondiali. Naturalmente, l'amministrazione fa leva su questi rapporti di forza per rinforzare le posizioni del capitale americano. Le organizzazioni internazionali, FMI, Banca Mondiale OMC, ricadono prevalentemente sotto la dipendenza dell'amministrazione americana.

L'offensiva dell'amministrazione Bush giunge in un contesto segnato dal crollo dell'Argentina. Il legame stabilito qui tra il crescente coinvolgimento militarista americano e la crisi argentina non è casuale. La mobilitazione del popolo argentino, l'esigenza del ripudio di un debito estero già più volte pagato e dal quale traggono profitto i gruppi finanziari dei paesi sviluppati e le élite nazionali rappresentano una minaccia molto importante per i dirigenti e il capitale finanziario americano. L'amministrazione americana ha capito che doveva agire molto in fretta e massicciamente perché ciò che succede in Argentina non succedesse in tutto il continente sud-americano. Ha dunque fatto pervenire una lettera al governo di Duhalde ordinandogli di presentare un piano di estinzione del debito "credibile e sostenibile" (Financial Times 29/01/02). Ciò significa, in un linguaggio diplomatico: dovete continuare a pagare gli interessi sul debito, indipendentemente dalle tragiche conseguenze per il popolo argentino. Una settimana dopo aver ricevuto questa lettera, il 29 gennaio 2002, il ministro delle finanze argentino, si recava a Washington per "convincere Washington che il suo governo non distoglierà il paese dalla liberalizzazione dei mercati" (Financial Times 29/01/02).

Partecipavano a questa discussione con il ministro delle finanze argentino: i membri del gabinetto presidenziale, il segretario di stato, il rappresentante per il commercio, Zoellick ... e la consigliere alla sicurezza nazionale, C. Rice, la quale copre un ruolo essenziale nella ridefinizione degli obiettivi di sicurezza nazionale dell'amministrazione repubblicana. Era in particolare uno dei redattori di un importante rapporto pubblicato alcuni mesi prima delle elezioni presidenziali nel quadro di una "Commissione sugli interessi di sicurezza nazionale degli Stati Uniti". Questo rapporto ricordava che tra gli obiettivi sulla sicurezza nazionale, quelli che riguardavano "gli interessi vitali del paese" e per i quali un intervento armato sarebbe necessario, bisognerebbe includere la difesa della globalizzazione cioè "il mantenimento della stabilità e della viabilità dei sistemi globali che sono le reti commerciali, finanziarie, energetiche e l'ambiente". Per quanto riguarda i sistemi globali di energia, si pensa evidentemente al petrolio. Gli Stati Uniti hanno una lunga tradizione di interventi militari diretti o indiretti (sostegno alle armate nazionali) ogni volta che i loro interessi petroliferi erano minacciati. Il profumo del petrolio era forte nella guerra contro l'Iraq, contro la Serbia, e lo è ancora nella guerra in Afghanistan. D'altronde, secondo il giornale economico francese Les Echos [5] del 18 ottobre 2001 "I petrolieri aspettano con impazienza (sic) la fine del conflitto afgano". Tre mesi dopo, il New York Times titola (09 gennaio 2002) "Gli Stati Uniti stabiliscono le basi militari in Afghanistan e nei paesi limitrofi per un impegno a lungo termine". Tutto porta a pensare che l'Asia centrale e il Caucaso costituiscono un elemento fondamentale del grande Scacchiere americano del XX secolo, come lo aveva analizzato Z. Brzezinski.

I sistemi globali di energia - in primo luogo il petrolio - non sono gli unici implicati. La protezione dei "sistemi finanziari globali" - e bisogna tradurre la sicurezza del capitale finanziario - diventa un obiettivo di sicurezza nazionale essenziale degli Stati Uniti. E' dunque indispensabile ricordare che il rifiuto di un governo nel continuare a versare degli interessi a titolo di debito pubblico che costituisce una vera rendita perpetua da pagare al capitale finanziario verrebbe considerato come una minaccia vitale contro i fondi di investimento americani. In un contesto di egemonia americana e dell'utilizzo degli attentati del 11 settembre, è probabile che le rappresaglie non avverrebbero soltanto sul piano economico.

L'intervento diretto delle forze armate americane con il pretesto dell'esistenza di un gruppo terroristico, l'appoggio a forze armate nazionali di quei paesi, o a gruppi paramilitari creati da apparati statali, ecco alcune piste che sono già percorse dalla Amministrazione Bush nel caso in cui rischi più grandi comparissero contro il capitale finanziario americano.

"L'impero" ha sostituito l'imperialismo?

Gli attentati dell'11 settembre 2001 e il modo con il quale l'Amministrazione Bush ha dispiegato il suo apparato militare e nello stesso tempo affermato nuovamente gli obiettivi di dominio del capitale americano costituiscono una seria smentita alle tesi sulla fine della "sovranità degli Stati a vantaggio di una macchina da guerra - quella del capitalismo mondiale" come ha dichiarato Toni Negri in una intervista pubblicata da Le Monde (4 ottobre 2001). Queste note fanno eco all'opera che ha pubblicato con Michael Hardt intitolata "L'Impero" [6].

L'impero succederebbe all'imperialismo, come lo aveva analizzato Lenin e R. Luxemburg. Una differenza più grande tra i due periodi storici è precisamente lo spostamento della sovranità degli Stati nazione a vantaggio di un apparato decentralizzato e deterritorializzato dal governo (pagina 17, sottolineato nel testo). "L'imperialismo è terminato. Nessuna nazione potrà mai essere una potenza mondiale come lo erano state le nazioni moderne" (17). E' dunque vano cercare un centro dominante, neanche negli Stati Uniti: "gli Stati Uniti non costituiscono il centro di un progetto imperialista, e infatti nessun Stato nazione può farlo oggi" (pagina 18).

Contrariamente a questa posizione, il comportamento dell'amministrazione dopo l'11 settembre ricorda che il capitale non può, per mantenere il suo dominio, fare a meno di un apparato politico, le cui istituzioni (giudiziarie, militari, etc.) che lo compongono si sono costituite, rinforzate, migliorate nel contesto degli stati capitalisti dominanti. Ciò accade perché il capitalismo mondiale nel senso dato da Negri nella sua intervista a "Le Monde" non esiste. Esiste una tendenza del capitale, in quanto rapporto sociale, a trascendere le frontiere nazionali e le altre barriere (forme di organizzazione socio-politica per esempio). Ma la sua estensione mondiale ha preso e continua a prendere una fisionomia indissociabilmente legata ai rapporti di forza fra stati. Ricollocata in una dinamica storica di lungo periodo, la nuova tappa del movimento di internazionalizzazione del capitale che comincia dopo la seconda guerra mondiale non può essere dissociata dalla supremazia definitiva acquisita dall'imperialismo americano sui suoi rivali europei e giapponesi. Negri e Hardt hanno ragione a sottolineare questa tendenza del capitale a cercare di sfondare tutte le barriere, territoriali, spaziali, sociali che si oppongono al suo movimento. Si può ricordare che nel 1848, Marx ed Engels sottolinearono nel Manifesto del Partito Comunista che "attraverso lo sfruttamento del mercato mondiale, la borghesia dà un carattere cosmopolita alla produzione e al consumo di tutti i paesi". Ma in diverse occasioni, Marx sottolinea il carattere contraddittorio di questo "processo di universalizzazione" (formula più corretta di "mondializzazione"). Così, "Il capitale risente di ogni limite come fosse un ostacolo, e lo supera idealmente, ma non lo ha superato nella realtà. L'universalità alla quale tende instancabilmente trova limiti nella sua propria natura, che ad un certo livello della sua evoluzione, rivela che esso stesso è l'ostacolo più grande a questa tendenza, e la spinge dunque alla sua propria abolizione"[7].

La nuova tappa del capitalismo che è cominciato negli anni ottanta ma il cui pieno dispiegarsi risale agli anni 1989-1991 (caduta del muro di Berlino e scomparsa dell'URSS) fa apparire con una nuova acuità la contraddizione tra la tendenza del capitale a costituire il mercato mondiale, sarebbe meglio dire l'"universalità della sua dominazione", e le contraddizioni nelle quali questa tendenza si manifesta. Negri e Hardt scrivono che "al momento della prima guerra mondiale, è sembrato a numerosi osservatori, ed in particolare ai teorici marxisti dell'imperialismo, che le campane suonavano a morto e il capitale aveva toccato la soglia di un disastro finale. Eppure, al momento in cui noi scriviamo questo libro, e in cui il XX secolo volge al termine, il capitalismo è miracolosamente sano e la sua accumulazione più vigorosa che mai" (pag.331). Questa è una affermazione fortemente contestabile, a meno di lasciarsi incantare dai miraggi della "rivoluzione informatica" e della "nuova economia" [8]. In realtà, il caos economico e la tragedia sociale provocata dalla globalizzazione del capitale esige con maggiore intensità che in passato l'esistenza di un apparato di sicurezza militare incaricato di far rispettare l'ordine della proprietà privata, cioè ugualmente le norme di diritto che il capitale esige per i suoi bisogni di "globalizzare" [9].

Tali consolidamenti degli apparati statali dei paesi dominanti non sono in contraddizione con gli obiettivi del capitale, a cui danno il cambio le politiche neo-liberali, che sono la deregolamentazione delle industrie e dei mercati, la privatizzazione delle attività, ivi comprese quelle per mantenere l'ordine. Lo sviluppo di società private incaricate della protezione della proprietà privata (mercenarismo) è un fenomeno degno di nota di questi ultimi anni. In alcune regioni del pianeta (Africa, America Latina) è il risultato del cedimento degli apparti di Stato accelerato dalle politiche di ristrutturazione e di costituzione di gruppi rivali, ma ugualmente dalla necessità per i gruppi dei paesi sviluppati che investono in queste regioni di continuare a poter esercitare la loro attività a dispetto delle guerre civili e talvolta grazie a queste. Nei paesi sviluppati, l'incremento delle attività di società di vigilanza e talvolta di milizie rivela l'aumento della segregazione sociale conseguente alla situazione in cui il capitale ha costretto la gioventù, e la necessità di completare il lavoro della polizia, e talvolta di sostituirvisi. Ma la privatizzazione di certe funzioni militari e repressive non segnano affatto la fine del ruolo degli apparati di coercizione degli Stati.

Gli attentati dell'11 settembre 2001 non permettono in nessun modo di credere alla fine delle "frontiere", non fosse altro perché questi sono stati preparati all'interno del territorio americano, forse con la complicità attiva o tacita in seno alle stesse istituzioni statali americane da parte di persone perfettamente in regola dal punto di vista del diritto americano e che hanno utilizzato le reti finanziarie situate negli Stati Uniti. Questi attentati non hanno per niente indebolito la dominazione dello Stato Americano, né all'interno, né all'esterno del suo territorio. Essi hanno facilitato la campagna dei media che puntano a rinforzare i sentimenti pro-imperialisti e nazionalisti in seno alla popolazione americana, essi hanno permesso all'Amministrazione e al Congresso di estendere e rinforzare la presenza delle forze armate americane su tutto il pianeta. A partire dalla seconda guerra mondiale, la presenza militare americana nel mondo non è stata così rilevante. L'impresa militare mondiale della potenza "nazionale" americana degli Stati Uniti non è stata mai così forte negli ultimi decenni. Questa impresa è utilizzata non solo per imporre ai popoli e alle classi del terzo mondo le esigenze del capitale finanziario, ma ugualmente ai capitalisti rivali, gli interessi del capitale nazionale americano (c'é evidentemente più di una coincidenza tra la commemorazione a sei mesi dall'attentato e le misure di protezione delle industrie siderurgiche prese dagli Stati Uniti e annunciate l'11 marzo 2002).

La "nazione indispensabile" e i suoi alleati.

E' così che M. Albright definì il ruolo degli Stati Uniti qualche mese prima dei bombardamenti della NATO in Serbia. Non si trattava solo di una dichiarazione arrogante, ma il riflesso di una indiscutibile realtà. La difesa dell'ordine internazionale non si basa più come nei decenni del dopo guerra su una spartizione del mondo in zone di dominazione. Considerato ugualmente dal solo punto di vista della loro rivalità, gli Stati Uniti non potevano che trionfare a scapito dell'URSS, tenuto conto del fallimento del modo di gestione dell'economia sovietica e il livello gigantesco di spese militari che hanno reso ipertrofica la casta dominante ed esaurito le risorse del paese e del fallimento verso il quale i movimenti di liberazione nazionale e insurrezionale furono condotti in ragione del controllo politico e spesso materiale esercitato dal Cremlino.

Gli anni novanta hanno reso evidente la responsabilità chiave della difesa dell'ordine mondiale. Gli Stati Uniti si trovano in una situazione di dominio mondiale senza dubbio sconosciuta della storia degli ultimi due secoli. La loro dominazione attuale si inscrive nel prosieguo si in processo avviato con il dilaniarsi degli imperialismi europei nel corso della prima guerra mondiale. Questo processo, analizzato da Trotsky, ha ricevuto conferma nel corso della seconda guerra mondiale e poi nei decenni che hanno seguito.

Di fatto in questo inizio secolo, l'egemonia degli Stati Uniti pone in termini diversi da quelli dell'inizio del XX secolo la configurazione dei rapporti di forza tra le grandi potenze capitaliste e quella delle classi dominanti. In questa fase di dominazione del capitale finanziario, i teorici dell'imperialismo (Hilferding, Bucharin, Lenin) considerano che la dominazione del capitale finanziario si fonde ad un grado più o meno importante con il suo apparato di Stato nazionale.

L'espressione "États-rentiers" (stati basati sulle rendite derivanti dalla loro posizione dominante) utilizzata da Lenin e che è d'altronde corrente in qualsiasi letteratura economica del periodo, evoca bene questa idea di spazi nazionali e di classi unificati attorno al loro Stato che non possono non sfociare nella guerra. Questa espressione conserva tutto il suo valore. Non si devono tuttavia nascondere né i cambiamenti avvenuti nelle forme che ha preso il capitale finanziario e nelle relazioni delle organizzazioni del capitale finanziario rispetto al loro Stato, né le modifiche nelle relazioni tra Stati capitalisti dominanti.

Dicendo ciò non si vuole affatto identificare la situazione attuale a quella di un "superimperialismo", come Kautsky ne rilevava la possibilità. Né pensare di assistere alla formazione di un "monoimperialismo", per adattare la congettura di Kautsky alla situazione odierna. La posizione centrale occupata dagli Stati Uniti non significa che questo paese possa liquidare i capitalismi europei e giapponesi e possa appropriarsi, in una relazione di sfruttamento, del valore creato in quei paesi. Il capitalismo americano non ha "colonizzato" i suoi partner europei e giapponesi allo stesso modo con il quale gli imperialismi di inizio XX secolo hanno preso possesso dei territori del pianeta.

La globalizzazione del capitale non ha tolto nessuna delle contraddizioni che hanno immerso le economie capitaliste nella crisi dopo gli anni settanta. Essa costituiva un tentativo di rispondere a queste contraddizioni, le ha in realtà intensificate.

La concorrenza tra i gruppi industriali e commerciali dei capitalismi dominanti, per mantenere la loro quota di mercato e per appropriarsi del valore prodotto dai salariati, si acuisce in un contesto di accumulazione debole. Le rivalità aumentano ugualmente tra le organizzazioni del capitale finanziario per conservare, e se possibile accrescere, il prelevamento di risorse dei budget dei paesi "emergenti" a titolo di pagamento del debito. Tuttavia, se la concorrenza antimperialista non è diminuita, rimane circoscritta dall'egemonia americana. Parlare di egemonia non significa affatto d'altronde ignorare o anche sottovalutare i fattori di fragilità economica degli Stati Uniti, in realtà molto più importanti di quanto i sostenitori della "nuova economia" lascino intendere. Gli Stati Uniti rimangono fortemente dipendenti dagli approvvigionamenti di petrolio e di altre risorse strategiche assicurate dai suoi gruppi multinazionali. Questi richiedono un impegno militare crescente sul piano mondiale.

La vitalità delle innovazioni tecnologiche, e quelle di campi importanti della ricerca universitaria (per esempio nelle scienze ingegneristiche) fanno leva su una "fuoriuscita di cervelli" che, parimenti al finanziamento dei suoi deficit, rappresenta il contributo del "resto del mondo" alla crescita americana.

La criminalizzazione della resistenza sociale.

Questa situazione fatta da una combinazione tra rivalità interimperialiste ed egemonia americana conduce alla creazione di ciò che io chiamo un "blocco di Stati transatlantici" [10]. La struttura di questo blocco è costituita dagli Stati Uniti, ai quali si aggiungono principalmente gli stati europei e il Giappone e gli altri paesi legati militarmente agli Stati Uniti (Nuova Zelanda, Australia in particolare). Bisogna aggiungere a questo blocco le organizzazioni internazionali di natura economica (FMI, Banca Mondiale, OMC, OCDE), militare (NATO). Contrariamente a ciò che è stato detto dopo l'11 settembre 2001 la NATO non è diventata un'organizzazione obsoleta. La NATO ha, per la prima volta dalla sua creazione, invocato l'articolo 5 del trattato, che considera che un attacco contro un paese membro sarà considerato come un attacco contro tutti i membri. Il fatto che gli Stati Uniti abbiano essenzialmente portato avanti da soli la guerra in Afghanistan, non diminuisce in alcun modo il significato politico della decisione presa dalla NATO nel settembre 2001. Questa decisione ha rinforzato l'offensiva portata avanti dalla Commissione europea. Questa ha pubblicato un rapporto che intende definire la gamma delle azioni qualificate "terroristiche". Così la nuova legislazione include come atti terroristici "l'occupazione illegale o i danni causati alle cose pubbliche, mezzi di trasporto pubblici, infrastrutture, luoghi pubblici, e alle proprietà". Per di più "disturbare o interrompere il funzionamento della fornitura d'acqua, di elettricità, di aria o di qualsiasi altra fondamentale risorsa" così come "atti di violenza urbana" saranno ugualmente considerati come degli atti terroristici e puniti come tali.

La criminalizzazione e il la risposta di tipo militare e di polizia riservata alle azioni collettive di resistenza portata avanti dai salariati e dai disoccupati rientrano nella preparazione delle "guerre urbane", in verità delle guerre portate avanti contro le popolazioni civili, alle quali gli esperti americani danno un importanza crescente (in particolare in America Latina). Per questa lotta, gli stati Uniti hanno bisogno di alleati, a cominciare dall'Europa, la cui solidarietà nell'affermazione degli stessi valori occidentali e la decisione di finire il lavoro sul terreno (in nome dell'intervento umanitario se necessario) devono essere senza remore. La costituzione di elementi di una difesa europea si fa naturalmente nel quadro della NATO, ciò spiega le forti pressioni perché i paesi dell'Unione Europea aumentino a loro volta le spese militari e per la sicurezza interna. Gli Stati Uniti non hanno niente di cui temere ma tutto da guadagnare da un coinvolgimento militare incrementato dell'Unione Europea. Saranno vincenti sul piano economico (essi controllano l'essenziale delle industrie di armamenti) e politico (i dirigenti dei paesi dell'Unione Europea non sono pronti a nessuna "fuga" nei confronti degli Stati Uniti).

Il militarismo degli Stati Uniti potrebbe coinvolgere l'Europa sulla sua scia. In questo continente la lotta contro il terrorismo, di cui si riconosce che è stato organizzato spesso, nel recente passato, dagli stessi apparati di Stato (per esempio in Italia), rischia fortemente di servire come pretesto per criminalizzare la resistenza dei salariati, dei disoccupati e delle altre vittime dei piani del capitale.

[1]Secondo i dati forniti dal SIPRI, ONG con sede a Stoccolma.

[2] Vedere l'articolo di Catherine Sauviat, in A L'encontre n. 4

[3] Una figura dominante della comunità accademica, P. Krugman scrive degli articoli, pare commissionati dalla Enron, nella rivista Fortune (fonte: J. Madrick, "Enron seduction and betrayal", The New York Review of Books, 14 marzo 2002.

[4] Il termine inglese per definire queste pratiche è "compatibilità creativa" (creative acounting). Per meglio dire ...

[5] Secondo le cifre riportate da O. Pastré e Vignier, 1000 miliardi di dollari saranno indebitamente contabilizzati nei bilanci delle imprese americane.

[6] Exils Editore, Parigi, 2000

[7] Fondements de la critique de l'economie politique, Edition Antrhopos, 1986, Tome 2, pag.367.

[8] Vedere F. Chesnais, "La nouvelle economie": une conjecture prope à la puissance hégémonique américaine" in (AA.VV.) "Une nouvelle phase du capitalisme?", Syllepse, 2001.

[9] Così si può dire di norme che definiscono illegali le nazionalizzazioni degli utili stranieri, che erano previsti dall'Accordo Multilaterale sugli Investimenti (AMI) e perseguono un obiettivo, l'appropriazione privata (attraverso brevetti cosiddetti di proprietà intellettuale) dei processi del vivente.

[10]"Une bourgeoisie mondiale pour un capitalisme mondialisé" in (AA.VV.), Bourgeosie: Etaat d'une classe dominante, Syllepse, 2001.