Suicidi alla Foxconn
Nella
fabbrica più grande del mondo si muore per suicidio. Non tutti gli operai
reggono i livelli di sfruttamento disumano imposti dal padre padrone Gou, un
imprenditore tailandese che ha fatto fortuna nella deregulation praticata e
incentivata dal governo cinese. Di Luca Vinciguerra (da Il Sole 24 Ore). Reds
- Maggio 2010
Un salto nel vuoto, lo schianto sul selciato, e poi il buio. È questa
la tragica fine toccata negli ultimi mesi a ben nove dipendenti di Foxconn,
la gigantesca azienda cinese (ma a capitale taiwanese) che produce componentistica
per l'industria elettronica globale: non c'è televisore Sony, telecamera
Samsung, computer Dell, telefonino Nokia, iPod (e ora anche iPad) targati Apple,
che al suo interno non contenga almeno un pezzettino sfornato dalla città-fabbrica
situata a Longhua, una cittadina satellite di Shenzhen.
L'ultimo suicidio è di venerdì. Un operaio di 21 anni è
salito su una tettoia e si è gettato nel vuoto. Le ragioni del drammatico
gesto sono sconosciute. Così come sono sconosciute le ragioni che dall'inizio
dell'anno a oggi hanno spinto altri otto giovani dipendenti di Foxconn a togliersi
la vita tra le mura della più grande fabbrica del mondo. Dodici chilometri
di periplo all'interno dei quali si susseguono senza soluzione di continuità
stabilimenti, catene di montaggio, magazzini, ribalte, piazzali gremiti di camion,
mense e dormitori. E dove lavorano circa 300mila persone, per lo più
giovanissime: il 90% dei dipendenti di Foxconn, infatti, ha meno di 25 anni.
Com'è la vita là dentro? «È una vita normale, uguale
a quella che conducono gli operai nelle altre fabbriche della zona: si lavora,
si mangia e si dorme. Niente di più», hanno raccontato al Sole-24
Ore alcuni lavoratori fuori dai cancelli (l'ingresso alla fabbrica moloch è
tassativamente vietato ai giornalisti). E i ritmi di lavoro? «Normali
anche quelli, scanditi in turni in terza con straordinario nei periodi di maggior
pressione produttiva». Insomma, il "tasso di alienazione" degli
operai di Foxconn non sembra discostarsi da quello di decine di migliaia di
altre fabbriche del delta del Fiume delle Perle, dove ogni giorno eserciti di
emigranti sbarcano il lunario facendo lavori ossessivi e ripetitivi che alla
lunga logorano il corpo e la psiche.
E allora cosa ha spinto quei ragazzi in camice blu a suicidarsi? Nessuno oggi
è in grado di fornire una risposta, né dentro né fuori
le mura di Foxconn. «I nostri operai lavorano in condizioni decisamente
migliori e percepiscono salari più alti rispetto alla media dell'industria
manifatturiera cinese», spiega un portavoce di Foxconn, ammettendo che
nel 2010 il numero dei suicidi in fabbrica è drammaticamente aumentato:
nel 2009 erano stati tre.
«La nostra non è una fabbrica dove gli operai gettano lacrime e
sangue», ha detto ieri Terry Gou, l'azionista di controllo di Foxconn,
uscendo finalmente dal suo silenzio per prendere posizione sulla vicenda. Il
padre-padrone del colosso manifatturiero di Longhua ha fama di imprenditore
duro e spietato. Cinquantotto anni, taiwanese di nazionalità ma cinese
d'origine (suo padre era un soldato dell'Armata nazionalista, che nel 1949 dopo
la sconfitta contro l'esercito maoista, riparò a Formosa), Gou è
il tipico cinese venuto dal nulla che si è fatto tutto da sé.
Grazie alla sua grinta e alla sua determinazione, nel giro di trent'anni è
riuscito a trasformare un negozio di elettrodomestici nella maggiore azienda
di componentistica del pianeta. E a diventare uno dei duecento uomini più
ricchi del mondo.
La formidabile parabola imprenditoriale di Gou, però, presenta anche
delle inquietanti zone d'ombra. Nel 2006, mentre l'economia mondiale e i consumi
americani tiravano fortissimo, alcuni magazine cinesi scrissero che, per garantire
i picchi di produzione, gli operai del colosso elettronico di Longhua erano
costretti a sobbarcarsi fino a 80 ore di straordinario, cioè più
del doppio del massimo consentito per legge. Insomma, sfruttamento della persona
in piena regola.
La Apple, il committente straniero all'epoca più investito dallo scandalo,
avviò un'indagine conoscitiva. Il management del gruppo cinese respinse
le accuse giudicandole infamanti e prive di fondamento, e citò in giudizio
i giornalisti autori dell'inchiesta, chiedendo un risarcimento da record. Tutto
si risolse poi in una bolla di sapone.
Da allora, tuttavia, Foxconn non è più riuscita a sbarazzarsi
della fama di fabbrica-lager. Un lager dove ora, di fronte all'emergenza suicidi,
i manager stanno cercando disperatamente di correre ai ripari: per sostenere
i lavoratori depressi, l'azienda ha costituito un centro di assistenza psicologica
e ha assunto un centinaio di monaci buddisti.