La svolta bipolarista del Giappone
Il background socio-economico.I quotidiani italiani (delle televisioni tanto vale non parlare neanche) hanno generalmente ignorato o, nella migliore delle ipotesi, mancato di cogliere la portata reale di ciò che è accaduto in Giappone il 9 novembre 2003. Di Antonello Zecca. Aprile 2005


Il 9 novembre 2003 è la data delle ultime elezioni politiche generali anticipate della Camera Bassa nel Paese del Sol Levante che hanno visto la riconferma del Primo Ministro Koizumi e del suo partito, il Partito Liberal Democratico (PLD), alla guida del paese. La vittoria non è stata però piena(1), infatti il partito del premier ha perso sensibilmente consensi a scapito del nuovo Partito Democratico del Giappone (PDJ) del rivale Naoto Kan. Infatti, pur avendo ottenuto un aumento relativo dei seggi da 237 a 245(2), il PLD ha perso la maggioranza assoluta che in precedenza deteneva di fronte a un forte recupero del PDJ che ha guadagnato ben 40 seggi passando da 137 a 177(3) .
Quand’anche si considerino i 34 seggi del Partito Komei, di ispirazione buddista e alleato con il PLD, la situazione parlamentare non muta sensibilmente consegnando un quadro finale di relativo equilibrio tra i due maggiori partiti di maggioranza e opposizione. Non ci occuperemo qui delle ragioni soggiacenti il risultato finale delle elezioni, che affondano le radici principalmente nelle difficoltà incontrate dal governo Koizumi alle prese con una persistente fase recessiva dell’economia e con il problema dell’invio di un contingente militare nell’Iraq occupato, per il quale il PDJ ha avuto maggior astuzia e senso tattico, riuscendo a sintonizzarsi meglio sulla volontà dell’opinione pubblica(4) . Ci interessano maggiormente le ripercussioni sul quadro politico-istituzionale generale che si trova alle soglie di uno dei cambiamenti più profondi dal secondo dopoguerra ad oggi. In maniera esplicita, si affaccia infatti il tentativo di alcune forze politiche di dirigere il cambiamento del sistema politico-istituzionale in senso nettamente bipolare. Il Giappone possiede dal 1994 un sistema elettorale misto, in base al quale i 500 membri della Camera Bassa e i 252 della Camera Alta vengono eletti in elezioni circoscrizionali con il proporzionale (rispettivamente 300 e 152 seggi) mentre i restanti vengono assegnati con il premio di maggioranza a seconda dell’esito delle elezioni nazionali (rispettivamente 200 e 100 seggi). Il Primo Ministro viene eletto dalla Dieta. Le radici di questa situazione si trovano, come spesso succede per il Giappone contemporaneo, nello scoppio della bolla speculativa all’inizio degli anni 90. La crisi economica recessiva che ne è seguita, ha progressivamente spinto alcuni frazioni del PLD stesso (Koizumi in primis) alla ricerca di una via d’uscita dal pesante stallo, e a riconsiderare negativamente il ruolo di freno svolto dai tradizionali settori della burocrazia statale alleati con le frange politicamente più conservatrici, nella necessità di introdurre “riforme” organicamente neoliberiste che smantellassero le sacche di privilegio, di parassitismo e, dal punto di vista liberista, di inefficienza che queste rappresentavano. Il Giappone, dal secondo dopoguerra fino alla fine degli anni 80, è stato caratterizzato da un sistema politico bloccato, formato dal PLD nel ruolo egemone e padrone indiscusso della scena sempre al governo del paese, e da una serie di partiti più piccoli(5) che, al di là di sporadici momenti legati a turbolenze politiche circoscritte, non hanno mai potuto impensierire seriamente la “Balena Gialla”.

Il predominio del PLD ha creato e sedimentato nel tempo un legame molto stretto tra mondo politico, pubblica amministrazione e settore privato dominato dalle grandi “keiretsu” (o corporations), eredi dirette dei grandi monopoli del periodo pre-bellico, le “zaibatsu”, che gli statunitensi avevano sciolto alla fine della guerra ma che avevano parimenti lasciato ricostruire sotto altra forma in funzione di valutazioni geopolitiche in chiave anticomunista. La “fusione” tra questi settori portò anche alla costituzione di un sistema di “trasmissione” della burocrazia statale privata, chiamato “amakudari”, in cui esponenti del mondo politico o della pubblica amministrazione in pensione passavano al servizio delle corporations mettendo loro a disposizione la profonda conoscenza del mondo politico e del suo funzionamento, nonché l’estesa rete di relazioni che si erano sviluppate nel corso degli anni. Questo sistema dura ancora oggi, sebbene sia ampiamente delegittimato nello stesso ambito di frazioni della classe dominante che infatti cercano di smantellarlo, finora con scarso successo, a causa della resistenza di settori “conservatori” che oppongono forti resistenze al processo in atto.

Il premier Koizumi ha infatti più volte espresso l’intenzione, finora rimasta solo sulla carta, di riformare il sistema delle assunzioni nella pubblica amministrazione e di eliminare o quanto meno limitare l’amakudari. La sua preoccupazione verte chiaramente sulla impasse strutturale dell’economia giapponese e sull’immobilismo che la storica collusione sistemica tra i vertici del settore pubblico e di quello privato provocano nella fase attuale, puntando a stringere i legami politico-ideologici con gli Stati Uniti in direzione di un autorevole supporto a “riforme”; più nette sotto il profilo liberista che, dal suo punto di vista, dovrebbero servire a sbloccare l’apatia dell’asfittica economia e della politica nazionale(6). Una delle caratteristiche che saltano subito all’occhio è la trasformazione del mercato del lavoro giapponese che non è rimasto indenne dagli attacchi delle classi dominanti del proprio paese, in un’ottica però globale. Infatti la recente legalizzazione della flessibilità, l’allentamento delle politiche attive a sostegno dell’occupazione, la sostanziale liberalizzazione dei licenziamenti costituiscono altrettanti momenti delle politiche seguite dai governi giapponesi degli ultimi anni, che si inseriscono attivamente nel solco delle controriforme che in tutti i paesi a capitalismo avanzato, in misura maggiore o minore, sono state attuate per far illusoriamente fronte alla crisi di accumulazione del sistema e alla fine dell’onda lunga intorno alla metà degli anni 70. Tali misure hanno avuto un impatto devastante sul tessuto sociale nipponico che ha visto la propria disgregazione accelerata sempre più nel corso di pochi anni, non mancando una netta influenza sul piano sovrastrutturale con la messa in discussione dei tradizionali capisaldi ideologici del paese del sol levante, l’armonia sociale, l’etica lavorista, la predeterminazione dei percorsi di vita “dalla culla alla tomba” in base allo status sociale posseduto alla nascita(7). Tali elementi, possibili in presenza di una fase ascendente del capitalismo mondiale nel secondo dopoguerra, in cui lo Stato era utilizzato anche in Giappone nella duplice funzione di sostegno all’accumulazione e di strumento anticiclico, oltre che nel tradizionale ruolo repressivo delle lotte delle classi lavoratrici (8), hanno perso la base materiale di supporto provocando un forte smarrimento sociale, con esiti a volte molto tragici(9). In definitiva, è venuto meno il minimo comune denominatore per la stipula di un “compromesso sociale” che aveva caratterizzato la società nipponica dall’inizio degli anni 60 fino alla metà degli anni 90(10) . Senza entrare nel dettaglio di questa situazione, è possibile affermare che il bisogno di cambiamento è quindi sentito da una parte sempre crescente della popolazione dell’arcipelago, favorendo così lo sviluppo di un clima generale propenso a “esperimenti” più o meno nuovi per il paese. È proprio in questo senso che parti delle classi dominanti stanno cercando di sbarazzarsi degli elementi più conservatori, additandoli come nemici delle riforme e burocrati parassiti(11), e di introdurre iniezioni di liberismo sempre più massicce, potendo sfruttare il malcontento generale (lo slogan liberaldemocratico Dai burocrati ai cittadini, ne è un esempio evidente). Evidentemente anche il livello politico istituzionale non può restare indifferente a questa situazione. Il quadro preesistente aveva permesso al PLD di mantenere una posizione di assoluto predominio nel panorama politico giapponese ed era sostanzialmente adeguato alla concreta condizione socio-economica del paese. Tuttavia, al subentrare della crisi, la necessità di fornire un quadro istituzionale coerente con le riforme liberiste in progetto aveva già spinto a “correggere” in senso maggioritario il sistema integralmente proporzionale vigente fino al 1994 .

Successivamente il Primo Ministro Koizumi doveva proporre l’elezione diretta del premier, spingendo contestualmente per un sistema elettorale interamente maggioritario, analogo a quello statunitense, pur considerando le differenze storiche tra i due paesi. Le maggiori difficoltà all’avvio di questo processo sono ovviamente venute da settori interni al PLD e da una parte dell’imprenditoria più conservatrice che temono la perdita dei privilegi acquisiti, la disgregazione del consenso sociale che aveva tenuto in piedi la conformazione socio-economica del Giappone fino alla metà degli anni 90 e la conseguente perdita di egemonia del PLD come “partito unico”, unica garanzia del predominio sociale da essi raggiunto nel corso della seconda metà del secolo scorso. Koizumi però ha più di un asso nella manica, il principale dei quali è una sostanziale identità di vedute sul tema con il maggior partito di opposizione, il PDJ, il cui programma alle ultime elezioni ha visto una forte caratterizzazione soprattutto nella parte dedicata alle riforme istituzionali delle quali il bipolarismo è uno dei cardini. È molto istruttivo leggere il programma del PDJ per le ultime elezioni, che si apre con un’introduzione in cui il segretario del partito, Naoto Kan, si rivolge ai cittadini indicando il significato fondamentale del cosiddetto “Manifesto” del partito. Non a caso il “Manifesto” inizia con queste parole: <<Alle elezioni per il governatorato delle prefetture, in cui vige un sistema presidenzialista, gli elettori possono scegliere direttamente un governatore, il che equivale a scegliere direttamente il governo. Anche nei paesi a sistema bicamerale […] nei paesi a sistema bipolare, […] è possibile nei fatti scegliere il Primo Ministro. Tuttavia in Giappone non si è mai avuta l’esperienza di un’alternanza di governo in cui […] un partito di opposizione vincesse e potesse formare il governo. […] Quando si fronteggiano due grandi partiti, la scelta dei cittadini di uno di essi equivale alla scelta del partito di governo, del Primo Ministro e del programma di governo, cioè del governo stesso. […] poiché sinora il Giappone non ha avuto un sistema bipolare, i cittadini non hanno mai potuto scegliere realmente il governo. […] Se esistesse una reale alternanza di governo, il Giappone entrerebbe finalmente nell’era del bipolarismo […] >>. Ci si perdoni la citazione un po’ lunga, ma risulta necessaria per evidenziare le concezioni strategiche del partito che molti, in Giappone e fuori , considerano la reale alternativa al PLD. Ma il “Manifesto” elettorale non fa mistero della netta propensione bipolarista del PDJ e, di riflesso, delle concezioni socio-economiche in esso prevalenti. Infatti, punti decisivi del programma del partito sono la “burocratizzazione” dell’economia, un piano organico di privatizzazioni, lo sviluppo di un welfare “moderno” (alla Prodi, per intenderci), la dismissione della aziende pubbliche non redditizie, riforma del sistema pensionistico(12). Il PDJ si presenta quindi agli occhi di parte della classe dominante che ha interesse alla “modernizzazione” del Giappone, come una formazione politica in grado di costituire un”alternanza credibile al PLD che, lacerato da un forte scontro di interessi interno, non riesce a portare a termine riforme che pure gran parte dei suoi referenti sociali chiede. Gli unici partiti che si oppongono alla svolta bipolarista e presidenzialista sono quelli minori, il Partito Comunista e il Partito Socialdemocratico, che vedono in essa un serio pericolo per la sopravvivenza autonoma delle rispettive formazioni, considerando che uno degli obbiettivi della riforma del sistema misto in sistema integralmente maggioritario è quello di eliminare, o quanto meno costringere i partiti più piccoli a trattare alleanze con i partiti maggiori, che assumerebbero quindi il ruolo egemone all’interno delle coalizioni, causando di fatto l’irrilevanza delle formazioni minori. Corollario di questa operazione sarebbe la creazione di due poli egemonizzati rispettivamente dal PLD e dal PDJ che dovrebbero alternarsi al governo del paese, proponendo al fondo le medesime misure, senza interferenze politiche devianti dallo schema di alcun tipo. Quali conclusioni generali si possono trarre dalla breve e certamente non esaustiva analisi che abbiamo proposto? Per il momento, data la debolezza intrinseca dei movimenti sociali e la mancanza di una reale alternativa politica ai due maggiori partiti, il rallentamento e il possibile blocco della riforma del sistema elettorale in senso maggioritario sono affidati quasi esclusivamente allo scontro di interessi interno alla classe dominante, la cui frazione organicamente liberista può però contare sulle pressioni internazionali e sulla situazione di un’economia che, eccetto timidi segnali di ripresa, non riesce a trovare le via di un organico rilancio. Le probabilità che a medio termine tale riforma possa andare in porto non sono quindi ridotte. La possibilità della grande borghesia nipponica di scavalcare la tradizionale mediazione politica di istanze e interessi divergenti, esercitando direttamente la propria influenza ed egemonia sul “mondo politico” è un piatto troppo succulento per lasciarlo scappare. Il percorso non sarà certamente senza ostacoli. Ma è già possibile notare tendenze estremamente contraddittorie e conflittuali, sebbene il vecchio ceto burocratico, tutt’altro che scomparso nonostante l’arretramento subito durante gli ultimi anni, mostri una resistenza tenace, che forse non era stata preventivata da Koizumi, nell’elaborazione della sua tattica. Una cosa è però sicura. Quali che siano i vincitori di questo scontro, gli unici che ancora una volta ne pagheranno il prezzo saranno le classi lavoratrici e popolari, che non dispongono di un’alternativa indipendente e di massa in grado di spostare gli equilibri esistenti. E chissà per quanto tempo ancora non potranno disporne.

NOTE
1: E’ infatti recente la fusione con il Partito Liberale di Junichiro Ozawa

2: Bisogna però inserire in questo conteggio anche 13 indipendenti e 4 membri del Nuovo Partito Conservatore che sono successivamente confluiti nel PLD.

3: In realtà sono 180 se si conteggiano anche tre deputati indipendenti che sono entrati a far parte del medesimo gruppo parlamentare, tra cui anche Tanaka Makiko, ex-Ministro degli Esteri del primo governo Koizumi, poi sospesa dal PLD.

4: C’è però da dire che l’atteggiamento del PDJ non può essere definito pacifista a rigor di logica. Infatti negli interventi alla Camera Bassa, ha ripetutamente fatto appello all’intervento dell’ONU e alle sue risoluzioni (la 1511), ricalcando gli atteggiamenti ipocriti delle socialdemocrazie europee e di alcuni Stati del vecchio continente.

5: Il più grande dei quali era il vecchio Partito Socialista che ha poi dato origine al Partito Socialdemocratico e all’ininfluente Nuovo Partito Socialista, attestatosi comunque su posizioni di sinistra. Tra gli altri ricordiamo anche il Partito Comunista del Giappone, da tempo su posizioni neogradualiste e neoriformiste, ma comunque influente a livelli elettorale e sociale.

6: Lett.: “Discesa dal cielo”. Oltremodo eloquente

7: Con la disoccupazione che viene lasciata libera di raggiungere un livello più “fisiologico”

8: Elemento questo, che non è mai venuto meno

9: Nel solo 2002 ben 32.143 persone, la maggior parte delle quali sopra i 40 anni, si sono tolte la vita. Nel 1998, anno in cui la crisi sociale era esplosa con più virulenza (tasso di disoccupazione, 5.5%), erano state 33.048. Sono stime comunque spaventose.

10: Va comunque detto che questo “compromesso” era stato completamente realizzato sulle spalle della classe operaia e di altri strati della classe lavoratrice, che avevano “scambiato” una sostanziale sicurezza del posto di lavoro con carichi lavorativi spesso oltre il limite delle possibilità umane. Elemento sistemico era ad esempio l’utilizzo dello straordinario come metodo costante diintegrazione salariale, cui i lavoratori e le lavoratrici erano costretti per far crescere il loro magro salario. Seppure non a livello del Giappone, anche in altri paesi a capitalismo avanzato in quegli anni, la classe operaia si è praticamente accollata la ripresa del sistema subendo privazioni e sacrifici non indifferenti. Gli apologeti del “modello keynesiano”, anche a sinistra, farebbero bene a ricordarsene ogni tanto.

11: Abbiamo volutamente utilizzato l’espressione normalmente impiegata per descrivere la struttura istituzionale portante dei paesi del cosiddetto “socialismo reale”, poiché, pur con tutte le differenze del caso e la fondamentale diversità delle strutture socio-economiche, in Giappone si è prodotta una singolare simbiosi tra il partito dominante e le strutture istituzionali , nonché la grande imprenditoria privata, che ha favorito l’emergere di un casta di burocrati che mantenevano il proprio potere sulla base di queste strutture. Ciò non significa assolutamente che si possa stabilire un parallelismo rigido tra i due sistemi né tantomeno ritenere che le due tipologie di burocrazia possano essere equiparate.

12: Non a caso rappresentanti dell’Ulivo italiano hanno più volte incontrato il PDJ, valutando molto positivamente l’opera di questo partito.