Francia: 35 ore? 
  Le 35 ore secondo Martine Aubry ossia come 
  fare regali ai padroni col pretesto di prendere misure sociali. Da Lutte de 
  Classe n.49. Marzo 2000.
 
La diminuzione del tempo di lavoro a 35 ore settimanali faceva parte delle promesse del Partito Socialista prima delle elezioni anticipate all'assemblea nazionale del 1997, e il governo Jospin si inorgoglisce di averla mantenuta in breve tempo. Non si trattava di soddisfare una richiesta dell'insieme dei lavoratori, le cui maggiori preoccupazioni erano la disoccupazione e il timore dei licenziamenti, ma di un obiettivo messo in discussione da alcuni sindacalisti che lo presentavano come un mezzo di lotta contro la disoccupazione.
Il varo di questa misura ha dato luogo ad un vero psicodramma sociale. Il CNPF (la Confederazione Nazionale del Padronato Francese) ha fatto finta di vedervi un'attacco diretto contro i dirigenti d'impresa, fino al punto di portare alla direzione il barone Seillière, che fingeva di essere un oppositore più deciso del suo predecessore Gandois a questo progetto, e fino al punto di cambiare nome per diventare il MEDEF (Movimento delle Imprese di Francia). Ma se il MEDEF ha gridato così forte, è stato - secondo il suo metodo prediletto - per ottenere ancora di più. Così facendo, in fin dei conti faceva un favore a Jospin, che sembrava un avversario risoluto dei padroni mentre il suo progetto era, fin dall'inizio, a favore di questi ultimi. E ci vuole l'ottusità politica di un giornalista di Le Monde per scrivere che la legge sulla riduzione del tempo di lavoro, "concepita per favorire l'occupazione, ha invece agevolato la propagazione della flessibilità".
Comunque sia, la 
  legge Aubry (si tratta di due testi: la legge "Aubry 1" approvata 
  nel giugno del 1998 e la legge "Aubry 2" promulgata nel gennaio del 
  2000) ha reso obbligatorio nel settore privato il passaggio alle 35 ore sin 
  dal primo febbraio del 2000 nelle imprese con più di 20 salariati e sin 
  dal primo gennaio del 2002 per le altre. 
  Per chi vorrebbe vedere nelle proteste dei padroni la prova che questi testi 
  sono veramente favorevoli ai lavoratori, il gran numero di conflitti di lavoro 
  suscitati dalla loro applicazione dimostra che non sono stati percepiti così 
  dalla maggioranza dei lavoratori. E ciò a buon diritto, poiché 
  con il pretesto di condurre una politica "sociale", le leggi Aubry 
  danno ai padroni nuovi mezzi per cercare di imporre orari a loro discrezione, 
  a minor costo.
Eppure le confederazioni operaie non sono insorte contro queste leggi. La CFDT (Confederazione Francese Democratica del Lavoro), sindacato che da tempo ha presentato la riduzione del tempo di lavoro come il rimedio miracolo contro la disoccupazione, ha dato la sua adesione immediatamente. FO (Forza Operaia) e la CGT (Confederazione Generale del Lavoro) sono state più caute. Secondo quest'ultima, come secondo il PCF, tocca alla classe operaia, con la sua azione, fare in modo che le leggi Aubry siano attuate tramite accordi favorevoli ai salariati (allora a che cosa servono il governo "delle sinistre" ed i ministri comunisti, se le leggi da loro approvate possono portare a delle misure contrarie agli interessi dei lavoratori, e li costringono a lottare per non sopportarne le conseguenze, come con un qualsiasi governo di destra ?).
Comunque, qualunque 
  sia stato l'atteggiamento delle varie confederazioni rispetto al contenuto di 
  queste leggi, tutte hanno firmato, qua e là, accordi che comportano clausole 
  di annualizzazione del tempo lavorativo che possono portare solo ad un rafforzamento 
  dello sfruttamento ed alla diminuzione del potere d'acquisto dei lavoratori. 
  
  Infatti, la firma di questi accordi era appunto l'esca presentata alle confederazioni 
  sindacali (sempre desiderose di poter negoziare intorno ad un tavolo, che è 
  la ragione di essere dei sindacati riformisti). Tutto, nella legge Aubry "relativa 
  alla riduzione negoziata del tempo di lavoro", è appunto fatto per 
  incitare i padroni ad avviare il dialogo con le confederazioni operaie, poiché 
  gli aiuti dello Stato alle imprese, ufficialmente destinati a permettere loro 
  di fare fronte al maggior costo provocato dalla riduzione del tempo di lavoro, 
  sono subordinati alla firma di un accordo con i sindacati dei lavoratori. Ciò 
  significa che l'impresa che decida unilateralmente di diminuire la durata del 
  tempo di lavoro dovrebbe fare a meno dei vantaggi (notevoli) della nuova legislazione.
Nelle imprese in 
  cui non esiste nessuna organizzazione sindacale, un accordo che dia ai padroni 
  diritto ai vantaggi della legge Aubry può esistere solo dopo che un salariato 
  sia stato designato da un'organizzazione sindacale "rappresentativa" 
  (agli occhi della legge) a livello nazionale (o dipartimentale nei dipartimenti 
  d'oltremare), per negoziare tale accordo. 
  Perché tale accordo sia valido, ci vogliono le firme di organizzazioni 
  sindacali che rappresentino più della metà dell'organico, o che 
  sia in seguito di   
  Certo, la legge diminuisce la durata legale del lavoro, ma lascia ai padroni 
  la possibilità di ricorrere agli straordinari. E per di più, introduce 
  la nozione di "tempo di lavoro effettivo", che riduce in gran parte 
  la portata di questa riduzione del tempo di lavoro, giacché può 
  permettere ai datori di lavoro di non includere i tempi di pausa se durante 
  questa pausa il lavoratore non è costretto di conformarsi alle direttive 
  dell'inquadramento. 
  In alcune professioni, erano già molto diffuse le lunghe interruzioni 
  del lavoro, non pagate ma di cui il lavoratore non può realmente usufruire, 
  dati i suoi orari o la lontananza della sua casa. Con questa sua nozione di 
  "lavoro effettivo", la legge Aubry da a questa pratica frequente una 
  copertura legale.
E' vero, questa legge garantisce ai lavoratori pagati con lo SMIC (Salario Minimo Interprofessionale di Crescita, ossia il salario minimo stabilito dalla legge) e che non facevano più di 39 ore settimanali, il mantenimento del loro stipendio anteriore. Però negli altri casi, la legge non garantisce il mantenimento degli stipendi anteriori e, anche se la maggioranza dei padroni sicuramente indietreggerà di fronte al pericolo di una risposta dei lavoratori in caso di diminuzione dei salari, le clausole di "moderazione salariale" o di "blocco dei salari" si sono moltiplicate del tutto legalmente negli accordi già firmati.
Del resto, nelle 
  imprese che rincorrevano solo ogni tanto agli straordinari, il livello reale 
  del salario dei lavoratori rischia proprio di diminuire, per causa della soppressione 
  delle maggiorazioni di salario per le ore di straordinario. Infatti, la legge 
  Aubry permette ai padroni di generalizzare l'uso dell'annualizzazione del tempo 
  lavorativo, le 35 ore settimanali diventando così 1600 ore nel corso 
  dell'anno, con un massimo possibile di 48 ore (o di 44 ore su dodici settimane 
  consecutive) settimanali e di dieci ore al giorno, senza che le ore effettuate 
  al di là delle 35 ore settimanali siano considerate come straordinari 
  dando luogo a maggiorazioni di stipendio. 
  La legge Aubry ha anche introdotto nel Codice del lavoro la possibilità 
  di accordi aziendali in cui il lavoro verrebbe organizzato nell'ambito di un 
  ciclo di parecchie settimane, nel corso del quale solo le ore sorpassando la 
  durata media di 35 ore calcolate come media sull'insieme del ciclo verrebbero 
  considerate ore di straordinario. In pratica, questo si è spesso tradotto 
  con tentativi per imporre ai lavoratori un certo numero di sabati lavorativi. 
  
  Annualizzazione e lavoro secondo tali cicli plurisettimanali sono mezzi dati 
  ai padroni per raggiungere questa flessibilità del lavoro che si sognano 
  e la possibilità di far lavorare i lavoratori senza spese supplementari 
  quando il mercato tira al massimo, e a tempo parziale nei periodi di bassa produzione, 
  o di instaurare i sistemi di lavoro a turno che gli fanno comodo, senza preoccuparsi 
  delle conseguenze che questi orari pazzeschi possono avere sulla salute o la 
  vita personale e familiare dei lavoratori.
Del resto, questi 
  aspetti della legge Aubry dimostrano il carattere assolutamente ipocrita dei 
  discorsi che la presentano come una misura mirante a lottare contro la disoccupazione, 
  siccome porterebbe le imprese a creare posti di lavoro. Invece, se i padroni 
  vogliono in modo così impellente questa flessibilità che la legge 
  Aubry agevola, è appunto per poter fare fronte ad un aumento della produzione 
  senza dover assumere nessuno. E nella stragrande maggioranza dei casi, riusciranno 
  a far effettuare la stessa produzione di prima, con lo stesso organico, in 35 
  ore invece di 39. 
  Ma perfino nei rari casi in cui un datore di lavoro sarà portato a creare 
  qualche posto di lavoro per causa del passaggio alle 35 ore, non perderà 
  soldi, poiché la legge ha previsto un sistema di aiuti alle imprese (uno 
  di più). Tale aiuto (secondo la tabella delle previsioni che è 
  stata pubblicata, ma che dovrà essere confermata da un decreto), sarebbe 
  costituito da una frazione fissa (4000 Franchi all'anno per tutti i salariati) 
  e da una percentuale del salario lordo variabile dal 26 % per i salariati che 
  guadagnano lo SMIC allo 0 % per i salariati che guadagnano più di 1,8 
  SMIC. Per un lavoratore che si guadagna lo SMIC (circa 5500 franchi al mese), 
  l'aiuto dato dallo Stato al padrone sarà dunque di 21 500 franchi all'anno 
  (ossia sei milioni di lire e mezzo), e bisogna notare che questo sistema è 
  interessante in modo particolare per le imprese che utilizzano manodopera a 
  basso salario e costituisce così per i padroni una vera e propria istigazione 
  a pagare i salari più bassi possibile.
Inoltre, quest'aiuto 
  in realtà sarà percepito da tutti i padroni, compresi quelli che 
  non hanno creato nessun nuovo posto di lavoro, giacché la legge si applicherà 
  a tutte le imprese che avranno creato posti di lavoro (senza precisarne il numero) 
  o ne avranno "salvati" (e ovviamente, tutti i padroni possono pretendere 
  di essere costretti a licenziare a meno di ricevere aiuti). 
  Dal punto di vista dei lavoratori, la legge Aubry porterà dunque, nel 
  caso migliore, qualche scarso vantaggio, sotto forma di una piccola riduzione 
  del tempo di lavoro, o di qualche giorno di ferie in più (nelle imprese 
  che non sono interessate dall'annualizzazione degli orari), ma molto più 
  spesso porterà solo attacchi miranti a far accettare nuovi obblighi nell'organizzazione 
  del lavoro, con la complicità delle organizzazioni sindacali che vogliono 
  essere i buoni gestori del sistema capitalistico. Del resto, combattendo in 
  numerose imprese gli accordi che la direzione voleva fare accettare, i lavoratori 
  hanno dimostrato che non si lasciavano ingannare.
Questa legge permette 
  anche di misurare l'efficacia dei ministri e dei deputati del Partito Comunista 
  Francese. Dichiaratamente pro legge "Aubry 1", il PCF, che era costretto 
  a tenere conto delle reazioni che questo primo testo di legge aveva suscitato, 
  almeno in una frazione della classe operaia, in un primo tempo ha fatto finta 
  di non voler votare il secondo testo, per poi finalmente sostenerlo, con il 
  pretesto dell'importanza dell' "emendamento Michelin" (obbligo per 
  il padrone - senza che nessuna sanzione sia prevista nel caso contrario - di 
  aprire trattative sulla riduzione del tempo di lavoro prima di avviare un piano 
  di soppressione di posti di lavoro), emendamento che era stato accettato dal 
  governo. Ma il Consiglio costituzionale ha invalidato questa clausola, dichiarando 
  precisamente che una legge che non si dava i mezzi di farsi rispettare non era 
  costituzionale! 
  Il carattere antioperaio della legge Aubry dimostra anche a che punto era ambigua 
  la posizione delle correnti dell'estrema sinistra che mettevano al primo piano 
  delle loro rivendicazioni la riforma di questa legge, o una "buona legge" 
  per le 35 ore.
Quasi sessantacinque 
  anni dopo lo sciopero generale del 1936, e mentre la produttività del 
  lavoro è aumentata notevolmente, l'abbassamento della durata del lavoro 
  sarebbe ovviamente del tutto normale. Però, con la crescita della disoccupazione, 
  le correnti riformiste si sono impadronite della riduzione del tempo di lavoro, 
  dandoci un contenuto del tutto diverso. La CFDT, che ha abbandonato ogni riferimento 
  al "cristianesimo sociale" ma ne ha conservato lo spirito, si è 
  nascosta dietro al problema della disoccupazione per raccomandare una specie 
  di spartizione del lavoro (accompagnata da moderazione salariale) che, col pretesto 
  del realismo, assolve completamente i padroni dalle loro responsabilità 
  nell'attuale situazione. Il Partito Socialista ha appena dato ai padroni (anche 
  se questi non dimostrano tanta riconoscenza) un quadro che consenta loro di 
  imporre ai lavoratori, se questi glielo lasciano fare, uno sfruttamento peggiore. 
  
  Oggi più che mai, nell'attuale situazione economica e sociale, caratterizzata 
  da una disoccupazione che malgrado le statistiche ufficiali più o meno 
  attendibili rimane massiccia, l'unica politica degna dei rivoluzionari è 
  di mettere al primo piano della loro agitazione la necessità di vietare 
  i licenziamenti collettivi, in primo luogo nelle imprese che fanno profitti 
  e sopprimono posti di lavoro; ed anche la necessità di porre fine a tutte 
  le misure che, col pretesto di incitare i padroni a creare occupazione, finiscono 
  col fare passare direttamente i soldi dello Stato nelle casse delle grandi imprese, 
  senza che ciò abbia minimamente contribuito a far diminuire la disoccupazione; 
  ed infine, affinché siano direttamente creati posti di lavoro, la necessità 
  di prendere il denaro laddove si trova, e cioè nelle casseforti dei capitalisti 
  che si arricchiscono sempre di più mentre le classi lavoratrici si impoveriscono.
Il meno che si 
  potrebbe fare sarebbe di ristabilire l'imposta sui profitti delle imprese almeno 
  nella percentuale del 50 % ancora in vigore ai tempi della presidenza di Giscard 
  d'Estaing e che fu abbassata in seguito. Ma ben oltre questo, bisogna imporre 
  che la contabilità delle grandi imprese sia controllata dai loro lavoratori 
  e dalla popolazione, così come il patrimonio ed i redditi dei loro proprietari 
  e principali azionisti. I giganteschi profitti delle imprese devono essere dedicati 
  prioritariamente allo sradicamento della disoccupazione invece di essere sprecati 
  in operazioni finanziarie o trasformati in fortune private per l'uso di una 
  piccola minoranza.