Le voci degli scioperanti.
Estratti da un articolo di Dominique Le Guilledoux, Le Monde, 5 dicembre 1995. Reds, maggio 2002.



Le lotte del novembre-dicembre 1995 in Francia. Le lotte del novembre-dicembre 1995
costituirono un episodio, per ampiezza e radicalità, senza precedenti in Francia dallo sciopero generale del 1968.
Vedi anche la scheda: Una sesta onda, sul movimento sindacale francese nel xx secolo.

La bandiera rossa sventola sul frontone dell'officina centrale della Ratp, in rue Championnet, a Parigi. O piuttosto, pende come un vecchio brandello di plastica. Ma è lì. Un giovane scioperante, non iscritto al sindacato, era in cerca di un simbolo per i locali occupati da martedì 26 novembre. Ha avuto un'idea: "Ecco, la bandiera della Comune di Parigi, non si può certo dire che non sia francese", e l'ha appesa. Il delegato della Cgt, un po' seccato, si è affrettato a metterle accanto qualche bandiera tricolore: "Dopo tutto, anche queste sono nostre, non mi va di vederle solo per la festa di Giovanna d'Arco".
Rosso, blu-bianco-rosso, poco importano i colori. Il diciottesimo arrondissement di Parigi, dove sorgono i nove ettari di officine e depositi, invia i suoi primi messaggi di simpatia. Il macellaio manda cinque chili di salsicce piccanti, il fornaio regala dei dolci. I passanti si fermano davanti ai cancelli d'ingresso e lanciano qualche parola gentile. "Coraggio, siamo con voi", grida una giovane coppia in motorino agli scioperanti che, nella notte fra sabato e domenica, si scaldano intorno a un fuoco. "Abbiamo l'impressione di vendicare tutti", osserva uno di loro.
All'interno del deposito, i macchinisti bevono caffè e guardano le foto ricordo della mattinata di martedì. Eric, 34 anni, non iscritto al sindacato, è orgoglioso di quei pochi minuti che hanno trasformato l'inizio di un turno di servizio in "un momento inebriante". "Stavamo lì, tutti riuniti, d'accordo per lasciare gli autobus al deposito. Cominciavano a suonare le sirene d'allarme, la direzione ci scattava delle foto, prendeva i nostri nomi, ma noi non ci lasciavamo intimidire". Per lui il piano Juppé è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Ma la rabbia "si era accumulata, non ci rendiamo ancora conto di tutto, è troppo complicato". Semplicemente, bisognava che "tutto questo finisse".
"Mio padre tirava avanti a fatica", spiega. "Adesso tocca a me fare i salti mortali, siamo già due le generazioni a cui viene chiesto di tirare la cinghia. E con quali risultati? Per vedere la disoccupazione che dilaga, dappertutto impieghi a 2.500 franchi, i Ces [contratti di solidarietà] che sostituiscono i veri posti di lavoro, anche da noi alla Ratp. E dovremmo sempre accettare tutto. È questa la società che si prepara per i nostri figli?". Per lui tutto questo è quasi una storia pazzesca, che denuncia come una mescolanza di ipocrisia, manipolazione e condizionamento: tutti hanno subìto passivamente.
"La crisi per me c'è sempre stata", rincara il suo collega Olivier, 34 anni, conducente della linea 31. "È una presa in giro. È servita a salvare le casse dei padroni, a rifilarci le briciole, ad addomesticarci. Eppure, non sono mica un cosacco!". Philippe, dal canto suo, è stato disegnatore industriale prima di essere assunto alla Ratp. Originario della Picardia, ha lavorato presso due imprese ed è stato licenziato due volte. "Mi sono ritrovato conducente - la scelta era fra questo o la polizia - perché volevo la sicurezza del posto di lavoro. Ma l'avrò ancora, un giorno, dato che i Ces aumentano negli uffici e la pratica del subappalto si estende alle pulizie, alla sicurezza nella metropolitana, alla manutenzione? Alla Ratp si comportano come nel settore privato: sfoltiscono, rimettono in discussione le posizioni, i diritti acquisiti e, se non reagissimo, non avrebbero alcuna difficoltà a farci lavorare come fanno nella funzione pubblica, nell'istruzione, nelle poste, nei municipi: a forza di contratti di solidarietà".
Nel frattempo, le imprese hanno ricostituito i loro capitali, la Francia esporta, elencano i conducenti, e "continuano a crederci dei buoi, dei bambini, incapaci di comprendere quello che dicono alla televisione; ma noi capiamo! L'operaio oggi è diplomato, ha studiato. Capiamo che ci nascondono le cose, che ci ingannano. Il privilegiato non è certo il conducente della Ratp che abita a 30 chilometri da Parigi e viene ogni mattina alle cinque, si sorbisce giornate di lavoro che durano anche tredici ore, tutto lo stress del traffico nella capitale, e vede che ogni giorno sulla sua linea mancano in media due autobus perché si rifiutano di assumere. È ignobile che cerchino di montare contro di noi i soldati della Rm [Regione militare] o quelli che hanno un contratto di solidarietà. È uno schifo e a farlo sono individui che guadagnano un milione di franchi al mese, che emettono fatture false, licenziano a tutta forza, a gruppi di 10mila in nome della competitività, e collocano gli utili in Borsa, invece di investire. E questi padroni, che sono responsabili della disoccupazione, dicono di noi che siamo privilegiati?"

La politica e i giornalisti
Philippe, Olivier, Eric non credono più nella politica - "la destra, la sinistra...". Non credono nemmeno ai giornalisti: "È finita, sono come gli uomini politici, lontani da noi; e il loro giornale non è la realtà. Noi non riusciamo mai a farci sentire alla televisione. O al massimo fanno parlare, per trenta secondi, uno dei nostri che non è abituato ad avere di fronte una telecamera". E quando parlano della democrazia in Francia, dicono che è "totalitaria", come alla Ratp, "è tutta falsa concertazione, fingono di voler dialogare con noi per la forma e poi il padrone impone quello che vuole".
La vittoria di Jacques Chirac è stata, per loro, quella di "un maledetto imbroglione", anche se per un momento ha fatto sperare... "Io non ho votato per lui, ma durante la campagna c'era qualcosa, ci restituiva il sorriso", riconosce Olivier. Eric pensa che "la frattura sociale di Chirac diventerà come il Grand Canyon". Philippe parla di un suo amico del settore privato che è stato costretto ad accettare una decurtazione del 20 per cento sul salario, "altrimenti, gli restava solo da infilare la porta". Olivier è convinto che ormai non c'è altro che la strada. "E dovranno considerarsi fortunati se non finirà in una sommossa", dice rabbiosamente.
Michel Sirera, il delegato della Cgt dell'officina di riparazioni, coglie l'occasione per dire: "Ecco che cosa succede quando si applicano le vecchie ricette". Qui, sono ancora stupiti della forza e della determinazione con cui la base non sindacalizzata si è impegnata in un conflitto dando l'impressione di non aver più niente da perdere. "Il movimento non è finito. Non è possibile analizzarlo. Per ora, prende il volo", osserva il delegato.
Domenica mattina, al servizio movimento della Gare d'Austerlitz, i controllori riuniti in assemblea generale non stanno più a "chiedersi perché si fa sciopero, ma piuttosto come lo si porta avanti". Un delegato della Cgt spiega con tono quasi impersonale che ormai è finito il tempo dei 180mila ferrovieri chiusi nel loro angolo, "adesso a parlare saremo milioni di compagni riuniti in uno sciopero generale". Alcuni rappresentanti della Cgt della Banca di Francia sono venuti ad annunciare che per giovedì è stato lanciato un appello per sospendere il lavoro. "Da noi si avverte un qualcosa che va al di là delle organizzazioni sindacali. La gente ci dice: "Non possiamo più aspettare, dobbiamo fare qualcosa anche noi"".
Il delegato spiega che anche la Banca di Francia è interessata da un piano che prevede la soppressione di 800 posti di lavoro nella fabbricazione delle banconote. "Siamo gli unici al mondo a produrre i biglietti in un pezzo solo e buttiamo via i due terzi della produzione perché la cosa non funziona". "Ah sì, buttate la produzione?", ribattono i controllori divertiti. "Dobbiamo trovare il modo di unire le nostre rivendicazioni", osserva un delegato dei ferrovieri. "Ognuno può partire dal rifiuto del piano della propria azienda, ma quello che è in discussione oggi è la scelta di un tipo di società. O accettiamo la legge della giungla e i licenziamenti, oppure parliamo di una politica diversa che metta l'uomo al centro delle sue preoccupazioni".
Alain, un controllore di 48 anni, è piuttosto soddisfatto della piega presa dal movimento. Ovvio che si dovesse combattere contro il contratto previsto dal piano della Sncf e contro il piano Juppé - "Prendi uno schiaffo, ne rendi due; ne prendi due, tiri fuori il randello" -, ma la verità è che, secondo lui, l'attuale crisi sociale va al di là dei semplici problemi di categoria. "Serviranno degli accordi alla Grenelle oppure sarà la rivoluzione, la cosa avrà degli sviluppi imprevedibili". Fa vedere la sua busta paga: 8.200 franchi e un premio di duemila dopo vent'anni di vita con orari sfasati. "È vent'anni che siamo in crisi, vent'anni di rigore per noi, vent'anni di profitti e di miliardi regalati ai padroni che promettono di assumere e non lo fanno".
Ogni giorno, quando prende servizio, incrocia un centinaio di "senza fissa dimora" che vengono a mangiare una minestra al piano che sta sotto il suo guardaroba, alla Gare d'Austerlitz. Vederli "mi avvilisce. Non è più possibile accettare un fatto del genere. Noi ferrovieri non abbiamo mai voluto ritagliarci un piccolo orticello staccato dal settore privato. Per quanto riguarda i 37 anni di contributi per la pensione, vorremmo che il settore privato ci venisse dietro. La stessa cosa si può dire per la sicurezza del posto di lavoro. Avere un impiego sicuro è normale, è il contrario che non lo è". Lo avverte con chiarezza: se il movimento gode finora di una certa popolarità, "è perché diciamo quello che tutti gli altri sentono nelle loro aziende, tutta quella gente che non può scioperare".
Del resto, Colette, 37 anni, controllore, ha immediatamente reagito da ex lavoratrice temporanea che finalmente è diventata titolare. "All'inizio avevo un Contratto a durata determinata di tre mesi, poi ne ho avuto un secondo di sei mesi. Ero polivalente, sostituivo gli scioperanti, non potevo dire niente. Da noi si trovano sempre più impieghi provvisori, controllori senza formazione e che non hanno mai prestato giuramento. Se continua così, saremo come nel settore privato, inchiodati in posti precari, e non potremo più muoverci". Nubile, madre di un bambino, con uno stipendio di 8.600 franchi al mese, Colette racconta di non aver fatto calcoli: "Sognavo una cosa del genere, una minirivoluzione. Ho un credito da riscuotere, così me ne frego. Io non conto più, siamo tutti insieme e non abbandoneremo facilmente".

La Comune non è morta
Gare du Nord, domenica mattina: i macchinisti e gli addetti al controllo organizzano un pranzo di scioperanti in un bungalow. Le donne e i bambini aiutano a far arrostire le salsicce. Anche lì, su un muro, hanno scritto "No, la Comune non è morta", e Marc, un "viaggiante" di 38 anni, non esita a richiamare alla memoria i grandi scioperi del 1936 e del 1953. "Già allora mio nonno bloccava i binari di questa stazione, quella volta hanno mandato via un po' di gente. Io sono pronto a fare lo stesso, non riusciranno a strapparmi di là". È finito il tempo del ferroviere che entrava nell'ufficio del suo capo con il berretto dietro la schiena, il tempo delle umiliazioni al tavolo delle trattative, "quando il giovane trentunenne uscito dal Politecnico si rivolgeva al vecchio militante dicendogli: "Non potrebbe esprimersi in francese corretto, perché io non la capisco"", come ricorda Yves Salesse, ex sindacalista che ha fatto l'École nationale d'administration (Ena) e che oggi è consigliere di Stato.
Gli addetti al controllo osservano che l'ideologia liberale ha preso piede di nascosto nel corso degli anni. "Da dieci anni, la produttività pesa sugli uomini come in una ditta privata. Invece di fare un lavoro in tre, lo si fa da soli. In certi giorni, i problemi di congestione del traffico suburbano gravano sulle spalle di poche persone. Qui la gente cerca sempre di fare del suo meglio", spiega José Limousin, delegato degli addetti al controllo della Cgt. "E l'idea che i ferrovieri sarebbero, oltretutto, responsabili dell'indebitamento della Sncf è insopportabile. Tutti sanno che l'azienda sarebbe in attivo se lo Stato si assumesse l'onere degli investimenti legati all'ammodernamento, come succede in Germania". A un altro militante non dispiace vedere che i "viaggianti" si mobilitano per problemi diversi dalla sicurezza. "In questi ultimi anni, le uniche agitazioni che avevano un po' di seguito erano quelle fatte per chiedere che ci fossero dei poliziotti nelle cabine di trazione, la cosa stava diventando deprimente". Tutti si rendono conto che, ormai, bisogna allargare il movimento. In particolare nel settore privato.
Non è la voglia che manca a Rémy, 41 anni, muratore della Hague, incontrato in una manifestazione a Parigi. Gli piacerebbe molto che il suo padrone si ricordasse che una volta non faceva quello che voleva quando "gli capitava uno sciopero come si deve sul groppone; ma adesso i colleghi sono giovani appena usciti dalla disoccupazione e hanno paura". Eric, 25 anni, operaio alla catena d'imballaggio dei vasetti di senape Amora a Digione, osserva che un'impresa può anche conquistare nuove fette di mercato e aumentare la produttività "perché lavoriamo come bestie", non c'è mai una ricompensa. "Il padrone dovrebbe assaggiare uno sciopero come si deve", sogna un'operaia di un laboratorio di confezioni nell'Aisne, "ma lui ci ricatta minacciando di trasferire l'azienda". Un metalmeccanico di Guebwiller racconta che con la crisi "ci manca solo di dover offrire dei fazzoletti ai padroni e cedergli una parte del nostro salario". Jean-Luc, 39 anni, operaio alla Renault, si è sentito dire una sera da suo figlio: "Papà, non serve a niente andare a scuola, tanto poi sarò disoccupato". Philippe, 23 anni, montatore alla Peugeot di Mulhouse, descrive il suo lavoro: una sola operazione su 380 automobili per 452 minuti, "siamo dei robot, ma dovremmo considerarci fortunati perché abbiamo un lavoro, e nessuno può scioperare, siamo tutti prigionieri dell'indebitamento".
Maryvonne, funzionaria del Tesoro, vorrebbe non essere tenuta all'obbligo della riservatezza. "Noi vediamo la ricchezza e la sua manifestazione fiscale! Certi dipartimenti hanno raddoppiato il numero dei contribuenti soggetti all'imposta sui grandi patrimoni e il paese ha cinque milioni di esclusi". Ancora un po' e Maryvonne, col suo tailleur e la collana di perle, andrebbe d'accordo con lo scioperante della Ratp che ha piazzato la bandiera rossa all'ingresso dell'officina quando spiega che "questa situazione si protrarrà finché i redditi da capitale saranno più consistenti dei redditi da lavoro". Anche lei vuole lo sciopero generale.